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Il profilo del peer supporter

CAPITOLO 6 – L’ANALISI DELLE INTERVISTE

6.4. Il profilo del peer supporter

161 favoriscono nel paziente la comprensione di alcune scelte terapeutiche adottate dagli operatori e in questi ultimi favoriscono la conoscenza esperienziale della malattia.

Così facendo, i peer supporter sembrano assumere una funzione di facilitazione e avvicinamento tra i due (pazienti e operatori) che contamina in ciascuno il sapere dell’altro rendendo tutti maggiormente competenti sulla malattia che si sta affrontando.

Si può parlare di eccedenza relazionale in quanto, l’esito dell’interazione dei peer supporter con i diversi attori interessati, produce un surplus che va oltre la somma delle singole parti.

Il processo generato dall’eccedenza relazionale, definito dalla metodologia relazionale del lavoro sociale “contaminazione dei saperi” (esperienziale e tecnico di cui si è accennato nel capitolo 1), promuove lo sviluppo di Servizi relazionali, capaci di considerare il punto di vista dei diretti interessati e favorire una piena partecipazione delle persone (Folgheraiter, 2009).

162 Sia gli operatori che i peer supporter individuano nell’ascolto attivo un’altra competenza fondamentale, in particolare lo definiscono come un ascolto caratterizzato dall’assenza di consigli o di risposte. Secondo alcuni operatori intervistati si tratta di ascoltare limitandosi a sentire ciò che il paziente ha da raccontare. Per altri invece, tale competenza genera una responsabilità importante perché:

“La persona si affida al peer supporter, capisce di essere compresa, di conseguenza chiede, si affida a lui ed egli deve saper dare le risposte giuste, è una grande responsabilità” (Int. 7, O.V.).

In accordo con tale visione, i pazienti affermano che la funzione principalmente esercitata dai peer supporter è la testimonianza, cioè la “semplice” presenza caratterizzata dal “mostrarsi come persone che stanno conducendo una vita normale” (Int. 18, PZ.M.) e sono ancora vive nonostante la presenza di una patologia importante. La morte è un argomento mai esplicitamente espresso dai pazienti ma in qualche modo emerso. Essa è intesa, soprattutto dai pazienti in ambito oncologico, come timore di perdere la vita e consapevolezza di aver perso la vita vissuta fino a quel momento. I malati hanno raccontato come il peer supporter porti la sua esistenza, una testimonianza di vita positiva, nonostante la presenza della malattia.

“Quando ti dicono, vedi sono ancora qui e sto bene, è questo quello che sanno e che portano.”

(Int. 14, PZ.S.).

Qualcuno suggerisce l’importanza della credibilità dei peer supporter e a tal proposito evidenzia:

“Portare la propria testimonianza per noi malati è importante perché sono loro credibili, se me lo dicono loro è vero” (Int. 13, PZ.S.)

Riassumendo le tre funzioni del peer support evidenziate dagli intervistati sono: l’ascolto attivo, la testimonianza positiva e la credibilità.

Rispetto alle proprie competenze, i peer supporter ne individuano due tipi. Da un lato esplicitano di mettere in campo competenze apprese durante il confronto auto-formativo con gli altri peer-supporter quali: l’empatia, considerata come capacità di mettersi nei panni dell’altro senza sentirsi l’altro, l’ascolto attivo inteso cioè l’abilità di ascoltare in modo partecipato, il non giudizio nei confronti di qualsiasi cosa riferita dal paziente e/o dall’operatore. Saper gestire l’empatia è considerata una competenza importante e da apprendere secondo alcuni operatori che considerano “il mettersi nei

163 panni dell’altro tout-court” (Int. 5, O.M.) un possibile rischio, quello di immedesimarsi e sentirsi l’altro, con la conseguenza di burnout per il peer supporter.

Dall’altro lato, i peer supporter esplicitano di mettere in campo anche competenze più informali come

“saper offrire speranza”, considerata abilità acquisita durante il percorso di recovery e convivenza con la malattia.

La competenza esperienziale è sicuramente la principale secondo i peer supporter:

“La mia esperienza di mamma di un ragazzo con disturbo di schizofrenia può aiutare i familiari, nel senso di riuscire a far capire che comunque si può riuscire a convivere. Certamente la convivenza è difficile però tra alti e bassi si va avanti. Specialmente per i familiari che sperimentano i primi ricoveri è dura, non riescono a capire cosa succede veramente nella loro famiglia, nella loro vita, perché sconvolge tutto… tutti i tuoi piani, tutto il tuo essere, ti sconvolge letteralmente la vita e, sì io cerco di dare un input per andare avanti e per accettare più che altro”. (Int. 22, PS.V.)

Ciò che della competenza esperienziale viene rilevato è la consapevolezza della possibilità di affrontare una malattia difficile, riuscire in qualche modo a convivere e proseguire la propria vita. Le competenze esperienziali portate dai peer supporter fondano il loro essere pari e quindi la natura specifica del loro intervento, competenza loro esclusiva non diversamente garantibile dagli operatori.

6.4.2. Chi può diventare peer supporter

Gli intervistati sono d’accordo sulla necessità di definire dei criteri da prendere in considerazione per la selezione dei peer supporter, forti del pensiero che non tutti i pazienti possono ricoprire tale ruolo delicato e complesso.

In contrasto a ciò, la maggior parte dei peer supporter (7 su 9) afferma che in astratto tutti i pazienti possono diventarlo, ma riconoscono la necessità d’individuare dei criteri anche per tutelare chi potrebbe non trarre giovamento dallo svolgimento di tale ruolo.

In particolare, tra i requisiti per diventare peer supporter, essi individuano la disponibilità, motivazione e sensibilità per lo svolgimento di questo ruolo e sottolineano l’importanza di aver appreso l’obiettivo di questa forma d’aiuto.

Requisito fondamentale per diventare peer supporter sembra essere per gli operatori quello di aver intrapreso un percorso buono della propria vita, nel senso di aver imparato a vivere bene nonostante la malattia guardando al futuro in maniera positiva e al di là della patologia. Alcuni operatori notano

164 un rischio in tale criterio caratterizzato dalla possibilità di selezionare persone “eccezionali” che possono rappresentare un modello ideale irraggiungibile:

“Dovrebbero essere persone abbastanza normali, non persone, io parlo di lesione midollare, che si buttano con il paracadute, che fanno mille sport. Io vedo più positiva una persona che ha una lesione midollare ed è riuscita ad avere una vita normale, non sovraesposta: una persona realmente alla pari e nei confronti della quale i pazienti pensano - ce la posso fare anche io allora forse.” (Int. 5, O.M.)

Alla luce delle considerazioni sin qui esposte e dall’analisi delle interviste si possono individuare i seguenti criteri di selezione per diventare peer supporter definiti dagli intervistati:

- avere un’esperienza di malattia caratterizzata dal raggiungimento di un percorso di vita positivo nonostante la presenza della patologia e aver imparato a condurre una vita pressoché normale al di là della malattia stessa;

- avere capacità di dialogo e di ascolto;

- saper trasmettere positività;

- aver compreso il significato del peer support;

- avere disponibilità, motivazione e sensibilità per questo ruolo;

6.4.3. Atteggiamenti del peer supporter

Gli operatori sembrano suggerire l’utilità di un atteggiamento amichevole, ma allo stesso tempo oggettivo, ossia caratterizzato dall’abilità di cogliere con lucidità gli eventuali disagi della persona per aiutarla a esplicitarli e sostenerla attraverso il proprio sapere esperienziale.

Negli atteggiamenti da assumere, la positività nei confronti della vita nonostante la presenza della malattia è l’elemento che accomuna anche i peer supporter, in linea con quanto affermato dagli operatori e in un certo qual modo anche dai pazienti. Qualche peer supporter vede nella spontaneità e nella riservatezza atteggiamenti imprescindibili per lo svolgimento di tale attività. Due peer supporter riportano poi l’importanza di avere un atteggiamento umile caratterizzato dalla valorizzazione di tutto ciò che la persona riporta:

“È importante per me non presentarsi mai come esperti, anche se è la prima volta, non fare davanti agli altri i saputelli, quelli che perché io lo vivo da 10 anni, da 20 anni lo so e tu no.

Perché è veramente…. insomma non è producente, non farebbe sentire l’altra persona accolta nel suo dolore perché per noi oggi è un gesto abitudinario, facendo degli esempi: la gestione

165 della doccia, l’igiene personale, ecc. Perché all’inizio è stato molto difficoltoso, non sai come farlo. Quindi non è che un peer supporter può andare lì e dire no guarda farsi la doccia è una banalità, perché per chi è fresco non è per niente una banalità.” (Int. 24, PS. M.)