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La dimensione sociale nella sanità

CAPITOLO 2 – EVOLUZIONE DEL SISTEMA SOCIO-SANITARIO IN ITALIA

2.4. La dimensione sociale nella sanità

57 consente agli utenti e ai familiari di riappropriarsi delle proprie competenze che altrimenti verrebbero dimenticate.

58 Sul campo, la realizzazione dell’integrazione socio-sanitaria si traduce nella valorizzazione di entrambe le dimensioni (sanitaria e sociale) ovvero la considerazione della patologia in quanto tale, l’impatto che essa ha nella vita della persona e del suo ambiente sociale e familiare (Ivi). La capacità di osservare e riconoscere la persona al di là della presenza di una patologia, la valorizzazione delle sue risorse e capacità rappresentano la dimensione sociale, indispensabile per la realizzazione di un’integrazione vera e propria (Folgheraiter, 2012).

A tal proposito, l’antropologo medico Seppilli (2013) suggerisce di considerare e parlare della sanità come bene comune, ossia come un bene che appartiene a tutti, in quanto pagato con la fiscalità generale e distribuito secondo criteri di universalità. È un concetto diverso da quello di bene pubblico poiché richiama e richiede la partecipazione attiva dei cittadini, difficile da realizzare secondo l’antropologo a causa della verticalizzazione del sistema sanitario:

“In questi anni abbiamo assistito a un preoccupante processo di verticalizzazione di tutte le sue strutture, e parallelamente, si sono affievoliti i meccanismi di iniziative e di controllo dal basso, previsti dalla legge 833.” (Seppilli, 2013, p. 11)

Il verticalismo, a parere dell’autore, andrebbe superato per sviluppare la partecipazione, poiché un bene comune comporta qualcosa di più di una generica gestione pubblica della sanità, deve essere gestito attraverso meccanismi decisionali e attuativi largamente partecipati. Anche l’approccio relazionale al lavoro sociale, a tal proposito, riferendosi alla malattia malattia mentale, afferma:

“Il sapere esperienziale psichiatrico, rinforzato da quello esperto dei servizi formali, si può tradurre in un bene comune di ampio interesse civico, in un capitale sociale che può dare frutti e restituire alti interessi alle fatiche e alle sofferenze da cui è scaturito” (Folgheraiter, 2009, p. 37).

La distinzione tra «vivere delle persone» e «sistemi curanti del welfare», quindi tra logica sociale e logica sanitaria (Folgheraiter, 2008), è preliminare a ogni ragionamento in tema di integrazione socio-sanitaria.

Costruire la dimensione sociale della malattia significa favorire la piena partecipazione dell’individuo a tutti gli aspetti della vita sociale, nonostante e soprattutto, nella presenza di malattia. In linea con questo pensiero, dal 1978 ad oggi, all’interno dei più noti documenti internazionali, si evidenzia un orientamento ad approcci curativi multidimensionali “centrati sul paziente” nei quali, la responsabilità e la partecipazione sociale ai processi di promozione e tutela della salute la fanno da padrone (Giarelli e Venneri, 2009). In particolare, la Carta di Ottawa del 1986 assume l’empowerment

59 come principio-guida della progettazione, realizzazione e valutazione delle possibili strategie per ciò che riguarda la salute.

2.4.2 La promozione dell’empowerment per la valorizzazione della dimensione sociale Seguendo le premesse sopra presentate, il cittadino sarebbe chiamato a divenire un co-produttore di salute assieme al medico e agli altri professionisti; il medico e gli altri operatori, d’altra parte, dovrebbero guardare al paziente come un individuo dotato di autodeterminazione ed empowerment (Folgheraiter, 2011). In tal modo è possibile promuovere una reale integrazione socio-sanitaria per giungere alla quale è indispensabile una riflessione sull’empowerment che ha interessato, in un modo o nell’altro, discipline tra loro diverse come sociologia, politica sociale, psicologia e scienza politica;

sul piano operativo, l’empowerment è entrato nell’esperienza di vari ambiti professionali come il lavoro sociale, lo sviluppo di comunità, l’assistenza infermieristica (Braye e Preston-Shoot, 1995;

Parsloe, 1996; Pithouse e Williamson, 1997). Anche i ricercatori hanno riconosciuto l’esigenza di nuovi modelli di ricerca, più sensibili alle istanze sollevate dall’empowerment (Fetterman et al., 1996;

Barnes e Mercer, 1997; Barnes e Warren, 1999).

Secondo Parsloe (1996, p.17):

“non è possibile dare una definizione definitiva dell’empowerment, perché si tratta di un concetto che è ancora in evoluzione, e vuole dire cose diverse per persone diverse. Ad esempio, lo si impiega per dire che gli utenti dovrebbero esercitare più controllo sui servizi che ricevono, e in questo caso ci si riferisce al livello individuale, proprio del singolo utente. In senso più ampio, si può anche riferire alla programmazione dei Servizi ogniqualvolta gli utenti intervengano con un ruolo consultivo e, talvolta, decisionale, in merito alle prestazioni da erogare. Ancora, può essere considerato una strategia per limitare l’autorità dei professionisti, o per converso, un espediente utilizzato impropriamente da questi ultimi al fine di tutelare le proprie prerogative di ruolo e di status. Scopo dell’empowerment può essere promuovere la crescita personale, migliorare la qualità e l’idoneità dei servizi sociali, o aiutare i soggetti svantaggiati a esercitare più influenza sui processi decisionali che li riguardano.”

Secondo l’approccio relazionale al lavoro sociale, esiste un empowerment definito appunto relazionale e correlato alla dinamica di potere tra gli attori coinvolti in una relazione (Folgheraiter, 1998, 2009; 2011). Si tratta di una consapevole cessione di potere “terapuetico” da parte di operatori accreditati all’aiuto, a favore di persone necessitanti aiuto, cosicché queste, pur ufficialmente svantaggiate, aumentino il loro potere effettivo, in particolare quello di aiutare gli aiutanti ad

60 assolvere pienamente la loro missione di aiutare. È quindi fondamentale la capacità da parte del professionista di cedere parte del proprio potere a favore dell’emergere del potere del paziente che ha di fronte (Folgheraiter, 2011). Favorire tale processo è necessario per consentire al paziente di esercitare la propria autodeterminazione e sviluppare un senso di responsabilità, di dovere nei confronti della propria malattia e del proprio vivere con una patologia.

A tal proposito, Spinasanti (2004) afferma che la “buona medicina” deve inaugurare una nuova stagione etica caratterizzata dalla sostituzione del paternalismo dell’epoca precedente, con la collaborazione attiva del paziente nella definizione degli obiettivi dell’intervento sanitario.

Se si considera il potere come un’entità di valore assoluto che può essere redistribuito ma non incrementato si genera la seguente situazione: l’empowerment di qualcuno che non aveva alcun potere comporta e in qualche misura è disempowerment per qualcun altro (Barnes e Bowl, 2001); come in un sistema di vasi comunicanti, il potere si trasferisce da una posizione all’altra (nel nostro caso ad esempio dal medico al paziente). Questa idea di empowerment come semplice scambio di ruoli tra chi ha il potere e chi lo subisce non porta molto lontano e non produce maggior conoscenza per le parti, infatti, come affermano Barnes e Bowl le persone, a esempio, con una diagnosi di infermità mentale, probabilmente, desiderano avere un maggiore controllo sul fatto di ricevere o meno assistenza psichiatrica o cure cliniche, mentre è improbabile che aspirino a esercitare un qualche potere sull’attività professionale del singolo operatore.

Gli autori (Ivi) individuano alcune dimensioni della perdita di potere, il disempowerment, che impediscono la promozione e la crescita di autonomia nelle persone con una patologia; si riferiscono in particolare alla malattia mentale ma il concetto può essere esteso a ogni patologia cronica. Gli autori mostrano quanto sia sbagliato considerare le persone affette da una patologia psichiatrica alla stregua di vittime passive delle proprie infermità, o della situazione sociale in cui si trovano a essere.

Infatti, se una persona affetta da una patologia cronica viene considerata per definizione come dotata di autonomia limitata, ciò avrà ripercussioni di non poco conto per le sue potenzialità di empowerment: sia per i riflessi che questo ha sull’auto-percezione della persona, sia perché ne possono derivare iniziative volte a limitare le oggettive possibilità di autonomia di cui essa dispone.

Davey (1999), a tal proposito, suggerisce una distinzione di fondo tra empowerment reattivo e proattivo: il primo si riferisce alla classica situazione in cui gli utenti di un Servizio decidono di reagire al modo insoddisfacente con cui vengono erogate le prestazioni; il secondo invece presuppone un’articolazione dei bisogni e dei desideri degli utenti che è indipendente dal ruolo degli operatori.

Ne possono scaturire forme di azione finalizzate a istituire Servizi innovativi che rispondono ai bisogni delle persone.

Infatti, se si ritiene che il potere possa anche aumentare e le parti coinvolte possano tutte trarne beneficio, si potranno generare risultati migliori e tutti riceveranno preziose opportunità di

61 apprendimento (Rowmands, 1998). È questa una forma di potere che non richiede il “passaggio di poteri” da una posizione a un’altra:

“L’empowerment in questo senso non significa soltanto potere su qualcuno o qualcosa, ma anche potere per fare qualcosa con qualcuno. Si tratta di manifestazioni di potere che non sono a somma zero; anzi, quanto più le si esercita, tanto più il potere aumenta” (Rowmands, 1995, p. 15).

Watt e Rodmell (1993) hanno identificato tre strategie di empowerment che potrebbero rivelarsi efficaci nella la sanità:

- gruppi di self-help, formati da persone che hanno un problema in comune;

- gruppi di salute comunitaria, che affrontano problemi di salute collettiva andando al di là dei servizi sanitari professionali (per esempio le condizioni abitative di un quartiere);

- progetti di sviluppo comunitario, supportati da operatori professionali sociali e sanitari per l’identificazione dei bisogni di salute di una comunità e l’organizzazione delle azioni collettive.

Si tratta di strategie che i pazienti e gli operatori possono praticare, delle quali fare esperienza per migliorare le proprie competenze (tecniche o esperienziali) e favorire in questo modo un miglioramento dell’empowerment di ciascun attore coinvolto nella relazione.

Alla luce di quanto fin qui esposto, l’empowerment non può essere concepito come il semplice disporre di una più ampia scelta rispetto al tipo di trattamento sanitario o di una scelta più ampia rispetto a chi lo fornisce. I cambiamenti perseguiti dalle strategie di empowerment hanno un focus più ampio e articolato poiché interessano la qualità della vita delle persone, l’organizzazione del sistema dei servizi sanitari o socio-sanitari e la società di cui come cittadini sono parte attiva.

Anche all’interno degli ospedali l’empowerment e la dimensione sociale iniziano a essere riconosciuti come aspetti fondamentali per favorire la partecipazione e l’attivazione dei pazienti nel fronteggiamento della loro patologia.

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