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I principi dell’assistenza recovery-oriented

CAPITOLO 2 – EVOLUZIONE DEL SISTEMA SOCIO-SANITARIO IN ITALIA

2.3. L’orientamento al recovery per coinvolgere pazienti e familiari

2.3.3 I principi dell’assistenza recovery-oriented

La letteratura individua i seguenti principi fondamentali che deve avere un’assistenza orientata alla recovery (Stein, 1989; Gerteis, Edgman-Levitan, Daley e Delbaco, 1993; Rowe, 1999; Jacobson e Curtis, 2000; Davidson, Stayner et al., 2001; Jacobson e Greenley, 2001). L’assistenza:

- tende a promuovere la recovery: consente di superare alcune conseguenze della malattia, sviluppare un senso d’identità, maturare empowerment, capacità di determinare la propria vita, e infine permette lo sviluppo di ruoli sociali significativi, del senso di appartenenza alla comunità e delle relazioni con essa, nonostante la presenza di sintomi, deficit o difficoltà persistenti;

55 - si basa sui punti di forza invece che sui deficit. In questo modo le persone possono iniziare a identificare e sviluppare le competenze e le risorse che possiedono, a partire dalle quali possono ampliare le proprie abilità;

- il focus è sulla comunità: l’assistenza community-based viene erogata all’esterno dei servizi, nell’ambiente naturale della persona e si pone l’obiettivo di facilitare lo sviluppo di relazioni con altri membri della comunità, aiutare le persone a sviluppare in essa dei ruoli di valore e un senso di cittadinanza;

- è gestita dalla persona: l’individuo in difficoltà è alla guida. La persona rappresenta i suoi desideri, bisogni e preferenze, coinvolge le sue relazioni primarie come fonti di aiuto, si concentra sulle capacità e sui punti di forza, accetta i rischi, i fallimenti, le insicurezze e le battute d’arresto come elementi previsti e naturali che fanno parte dell’apprendimento e dell’autodeterminazione;

- permette la reciprocità nelle relazioni: il processo di recovery comprende il recupero della capacità d’azione e di un senso di autostima e appartenenza alla comunità e alla società in generale;

- è attenta agli aspetti culturali: la condivisione di determinate esperienze, in un certo momento e in una specifica situazione, tra persone di razza, etnia, o contesto culturale diversi può portare a una solidarietà “culturale/esperienziale” maggiore rispetto alla semplice comune appartenenza a una cerchia o a un gruppo etnico;

- si radica nel contesto di vita della persona: si riconosce e si apprezza la storia personale di ognuno, le sue esperienze, situazioni, percorsi di sviluppo e aspirazioni;

- si occupa del contesto socioeconomico in cui la persona vive: ci si concentra innanzitutto sulla persona, invece che sul paziente per stabilire la base di fiducia da cui partire;

- è mediata dalla relazione: le relazioni di sostegno con i membri della famiglia, gli amici, gli operatori, i membri della comunità e i pari permettono agli individui di diventare interdipendenti in una comunità che può sia condividere la loro delusione e il loro dolore, sia gioire della loro felicità e dei loro successi;

- ottimizza gli sforzi delle relazioni di aiuto informali: gli operatori aiutano gli utenti a riconquistare un senso di cittadinanza attraverso l’accesso a diritti, doveri, ruoli e risorse che la società offre ai propri membri per mezzo delle istituzioni pubbliche e delle associazioni;

Una delle implicazioni di questi principi è che per potersi occupare realmente dei “bisogni umani”

dei pazienti relativi a questioni come per esempio avere un alloggio e cibo adeguati, un lavoro e legami sociali, è necessario recarsi là dove si trova il paziente, dove si svolge l’azione, fuori dal servizio socio-sanitario, immergersi nella comunità e per fare ciò gli operatori devono essere attrezzati:

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“gli operatori devono essere preparati a uscire e incontrare le persone nel loro ambiente e sottostare alle loro condizioni, offrire un tipo di assistenza organizzando tutti quegli interventi e quelle risorse frammentarie che si possono trovare nella comunità in una proposta unitaria e in una rete di sicurezza intorno all’utente, ed anche ricreando asilo, nel senso migliore del termine, all’interno della comunità; in poche parole, un rifugio sicuro e un porto dal quale poter salpare di nuovo” (Rosen, Diamond, Miller e Stein, 1993, pp. 134).

I principi dell’orientamento al recovery qui evidenziati sono strettamente correlati alla metodologia relazionale al lavoro sociale, secondo cui la persona è sempre in movimento in direzione dei suoi interessi personali e dei suoi obiettivi, sempre alla ricerca dei suoi desideri (Folgheraiter, 2009).

Questo modello vuole dare la priorità agli obiettivi e agli interessi della persona, in piena ottica recovery-oriented. Da qui deriva l’idea che una qualsiasi cura e/o intervento offerto dagli operatori, deve essere formulato in termini di utilità rispetto a ciò che l’individuo intende perseguire. Il focus è così orientato al rispetto e al sostegno delle abilità individuali di partecipare alle attività maggiormente interessanti per la persona.

L’approccio relazionale considera la presenza di una duplice conoscenza quando si parla dei problemi sociali in generale e nell’ambito di una patologia fisica e/o mentale in particolare: la conoscenza oggettiva o tecnica e la conoscenza soggettiva o esperienziale (Folgheraiter, 2007; 2009). Il malato è un soggetto non un oggetto.

Per guarire o per stare meglio, per avere il potere di modificare la realtà patologica che chiamiamo malattia, dal soggetto cui quella malattia appartiene, non si può prescindere.

In campo non c’è mai solo la patologia ma sempre l’intero vivere delle persone. In tal senso, il modello relazionale distingue il curare (il curing inteso come guarire) dal prendersi cura (la care intesa come gestire il vivere).

Il problema della malattia di tipo cronico è “riuscire comunque a vivere” e in modo sufficientemente buono, nonostante la patologia. Per fronteggiare il problema è scontato che proprio i titolari di quella vita, le persone interessate, debbano pronunciarsi (Ivi).

Per fronteggiare una malattia cronica c’è quindi bisogno di chi sa che cosa vuol dire la malattia per averne studiate le caratteristiche sui libri (sapere, saper fare, saper essere) e allo stesso tempo è necessaria la presenza e il parere di chi sa cosa vuol dire la propria malattia perché la vive dall’interno, perché quella malattia ha plasmato quella vita. La persona affetta da patologia psichiatrica, per esempio, ha voce perché ha vissuto non una generica malattia, bensì la propria malattia, ha fatto esperienza della propria specifica e irripetibile realtà (Folgheraiter, 1990). L’approccio relazionale, in linea con i principi della recovery, attraverso il fare-ragionare-decidere-programmare assieme,

57 consente agli utenti e ai familiari di riappropriarsi delle proprie competenze che altrimenti verrebbero dimenticate.