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La scena raggiunge l’apice: Sofronia distoglie Olindo dalle fantasie amorose e lo forza a volgersi al cielo. Ancora, il movimento protagonista è quello dello sguardo. Novella Beatrice, Sofronia contempla il cielo e il sole (II 36, 7-8) e invita Olindo a fare altrettanto. Sofronia è già dunque volta a un altrove, è già sottratta al qui e all’ora. Olindo, dal canto suo, non può seguirla in tale percorso, che gli è precluso. All’imperio di Sofronia, «piange il fedel, ma in voci assai più basse» (II 37, 2). Olindo è davvero, e a tutti gli effetti, un ‘fedele d’amore’.

Così come l’effigie era stata sottratta a Ismeno e al re Aladino dopo essere stata violata dalla blasfemia dell’atto (il motivo del nascondere e del celare è ribadito con insistenza dalla ottava all’undicesima strofe), la figura di Sofronia, ormai trasfigurata, è focus dell’attenzione del «vulgo de’ pagani» (II 37, 1), ma è insostenibile per il re: «Un non so che d’inusitato e molle/ par che nel duro petto al re trapasse:/ ei presentillo, e si sdegnò; né volle/ piegarsi, e gli occhi torse, e si ritrasse» (II 37, 3-6). Aladino si accorge di essere sul punto di partecipare all’evento, al rito, e fa resistenza. Non vuole piegarsi (II 37, 5-6) alla forza di tale immagine, e perciò distoglie lo sguardo e si ritrae. Dopo aver tanto perseguito e ricercato l’effigie nascosta, adesso sceglie di non vedere ciò che, in effetti, ha quasi del sovrannaturale, e ciò che gli richiede di essere visto; ricordiamo infatti le parole di Sofronia

43 A tutta prima, infatti, i modelli di Sofronia paiono quelli di «eroismo biblico e cristiano», tra i quali si possono elencare Giuditta e le vergini del trattato De virginibus di Sant’Ambrogio, come fa notare Franco Tomasi nella sua edizione critica alla Liberata (cit., nt. 1 alla strofe 14).

44 «[…] l’animo del Tasso appare recettivo, anche ad un livello di religione popolare, all’insidia del demonico […]», come giustamente nota DANTE DELLA TERZA,Op. cit.,p. 401.

45 Il sottrarsi, lo scomparire, per rimanifestarsi dopo un mutamento, come ad esempio un nome nuovo, è un tratto tipico della Magna Mater, come notato da ANITA SEPPILLI, Sacralità dell’acqua e sacrilegio dei ponti. Persistenza dei simboli

64 quando gli si presenta come colpevole del ‘ratto’: «Signore, o chiedi il furto, o ’l ladro chiedi;/ quel no ’l vedrai in eterno, e questo il vedi» (II 24, 7-8).

È a questo punto che la mise en abîme giunge all’apice: finalmente, dopo l’effigie, dopo Sofronia, compare Clorinda. Clorinda, che finora il lettore ha conosciuto quale apparizione (I 47, 1- 2), ‘puro volto’, è il terzo elemento della triade del canto II, e l’acme stesso del triangolo virginale. Il legame tra Sofronia e Clorinda si crea già nella consonanza delle rime. «Tu sola il duol comun non accompagni,/ Sofronia; e pianta da ciascun non piagni» (II 37, 7-8) si congiunge al «Mentre sono in tal rischio, ecco un guerriero/ (ché tal parea) d’alta sembianza e degna» (II 38, 1-2). La comunanza tra le due si intuisce già dall’espressione «alta sembianza» (II 38, 2). Sofronia è stata descritta come «Vergine […] d’alti pensieri e regi,/ d’alta beltà» (II 14, 1-3). Il motivo dell’altezza, così pregnante per Clorinda, come si vedrà a breve,46 compare in nuce già quale elemento di Sofronia, elemento sottile, in trasparenza, di verticalità, di alterità. Lo scarto è solo apparente: Clorinda si presenta, di nuovo improvvisamente e inaspettatamente («Mentre sono in tal rischio, ecco un guerriero», II 38, 1), come un guerriero, ma subito il lettore è messo all’erta: «(ché tal parea)», chiosa il Tasso. Clorinda è un’apparizione che svia, una «forma assunta» che si fa fatica a ricondurre alla «forma autentica». Il guerriero «mostra, d’arme e d’abito straniero,/ che di lontan peregrinando vegna». Tanto il «pregio» di Sofronia consisteva nel celarsi nella «angusta casa» (II 14, 5-6), quanto il guerriero si palesa, al contrario, come straniero ed errante, uso al viaggio e alle grandi distanze.

Lo straniero concentra su di sé l’attenzione del popolo, sottraendola a Sofronia. Su un particolare, comunque, si focalizza lo sguardo di tutti i presenti:

La tigre, che su l’elmo ha per cimiero, tutti gli occhi a sé trae, famosa insegna, insegna usata da Clorinda in guerra; onde la credon lei, né ’l creder erra. (II 38 5-8)

Abilmente il Tasso mette in primo piano la tigre, più che il guerriero. Il lettore ancora non sa a cosa riferire questo elemento, se non a un segno generico di forza e ferinità. E, come fatto notare da Laura Benedetti,47 neanche Clorinda conosce ancora l’episodio del suo passato che la riconduce alla fiera. Ma la tigre, come sa chi ha seguito la biografia di Clorinda, è l’essenza di Clorinda, è ciò che la rende, o che perlomeno contribuisce a renderla, un personaggio ibrido, tra due mondi.48 Clorinda non si manifesta chiaramente: la tigre è la sua insegna, e a motivo dell’insegna tutti «la credon lei»; dopo una lievissima sospensione arriva la conferma: «né ’l creder erra» (II 38, 8). Clorinda, insomma, continua a presentarsi come una creatura indecifrabile e misteriosa. Finalmente, dopo l’apparizione

46 Infra, in particolare I.4.2.

47 LAURA BENEDETTI, Op. cit., p. 51. 48 Cfr. supra, I.1.4.

65 del canto I, Tasso comincia lentamente a dissipare una parte dell’aura misteriosa che avvolge la vergine guerriera:

Costei gl’ingegni feminili e gli usi tutti sprezzò sin da l’età più acerba: a i lavori d’Aracne, a l’ago, a i fusi inchinar non degnò la man superba. Fuggì gli abiti molli e i lochi chiusi, ché ne’ campi onestate anco si serba; armò d’orgoglio il volto, e si compiacque rigido farlo, e pur rigido piacque.

(II 39)

Lo sdegno di Clorinda per i lavori femminili è una prima indicazione della formazione che Clorinda opera su di sé, formazione, come ha ben spiegato Chiappelli, del tutto consapevole e volontaria.49 Benché il nome di Aracne sia sinonimico della tessitura, e quindi di un’attività muliebre per eccellenza, varrà forse la pena di soffermarvisi un momento.

Clorinda, si dice qui, «a i lavori d’Aracne, a l’ago, a i fusi/ inchinar non degnò la man superba» (II 39, 3-4). Il mito di Aracne, come è noto, compare nella veste più completa nelle Metamorfosi di Ovidio (Met., VI, 1-145). La storia è nota: Aracne vanta la propria capacità di tessere, ritenendosi superiore a Pallade stessa, e sostenendo che in una competizione con la dea avrebbe vinto lei. Pallade le offre una possibilità di redenzione, presentandosi a lei nella forma di una vecchia e ammonendola di non mancare di riguardo agli dèi. Aracne ribadisce la propria posizione; Atena assume la sua vera forma, e acconsente alla sfida di Aracne. Il soggetto cui Pallade si dedica è, in sostanza, il trionfo degli dèi quali governatori sugli uomini, nell’atto di aggiudicarsi il controllo delle città o di punire i ribelli e i superbi. Aracne, al contrario, si dedica a tessere i soprusi degli dèi: le violenze, i ‘ratti’. La fine di Aracne è un atto di pura ὕβρις. Se da parte sua Aracne sceglie la violenza contro di sé, il suicidio, Atena aggiunge violenza alla violenza avvalendosi del perfido strumento della metamorfosi: trasformandola in un ragno, costringe Aracne e la sua discendenza alla vita, e a tessere per l’eternità.

Se pertanto, fermandosi al significato primo dell’espressione tassiana «a i lavori d’Aracne, a l’ago, a i fusi/ inchinar non degnò la man superba» (II 39, 3-4) si intende correttamente che Clorinda non si dedicò a lavori femminili, si può forse più scivolosamente, eppur legittimamente, pensare che Clorinda, pur manifestando l’orgoglio di Aracne, non si presta al mondo che Aracne sceglie di rappresentare. Clorinda, come Pallade, pensa alla guerra, e tiene lontano il mondo del caos e del desiderio.

A differenza di Sofronia, della madre in Etiopia, e dell’effigie, (e si può immaginare, anche della vergine Aracne), Clorinda «[f]uggì gli abiti molli e i lochi chiusi» (II 39, 5). Clorinda,

66 rappresentata di nuovo come fuggitiva, non cerca la torre, la casa o la grotta, ma trova il proprio ubi

consistam in un mondo che non sembrerebbe essere, originariamente, quello delle donne o delle

vergini viste fin qui: i campi. Il narratore dice infatti «ché ne’ campi onestate anco si serba» (II 39, 6), creando così una struttura che può prestarsi a fraintendimenti. Chiappelli in nota suggerisce, alla voce «anco»: «va con ne’ campi». Quindi, secondo la ricostruzione di Chiappelli, la frase andrebbe intesa: «perché nei campi ancora si serba l’onestà». Questa affermazione, però, risulta stridente se si pensa alla Sofronia il cui «pregio maggior» è «che tra le mura/ d’angusta casa asconde i suoi gran pregi» (II 14, 5-6). La casa, la torre, la grotta, perfino, sembrerebbe che si dica qui, nascondono un pericolo che tra i campi non si trova. E in effetti, ripercorrendo le vicende di Sofronia, della regina d’Etiopia, e dell’effigie, ci si rende conto che la violenza, o la violazione, è avvenuta proprio nel luogo riparato, nei «lochi chiusi», dove possono penetrare gli sguardi, i maghi, o Amore.

Clorinda, del resto, non ha nulla da temere, perché «armò d’orgoglio il volto, e si compiacque/ rigido farlo» (II 39, 7-8). O almeno, così pare. Perché, per quanto ‘armi’ il volto di orgoglio, e lo renda rigido come un elmo, arrivando a chiuderlo completamente alla vista con l’elmo stesso, il volto «pur rigido piacque» (II 39, 8). L’elmo, che rappresenta il rifugio di Clorinda, offre comunque una possibilità di essere penetrato e di lasciare scoperto il volto. Questo è esattamente ciò che è successo nel canto I, durante l’incontro con Tancredi. Tancredi è colui che incidentalmente ha visto il volto, e a cui il volto «piacque».

Nella strofe 40 si racconta della trasformazione cui Clorinda sottopone il corpo fino a diventare una guerriera, e a portare a compimento quell’identità duplice, tra fiera ed essere umano, già assunta in parte essendo allattata dalla tigre. Tra la «via montana» e la «silvestra» e le «guerre» (II 40, 5-6), Clorinda si qualifica sempre come ‘inseguitrice’ («l’orme seguì di fer leone e d’orso;/ seguì le guerre» II 40, 6-7). La ferocia che la contraddistingue ha anzi qualcosa di menadico:

Viene or costei da le contrade perse perch’a i cristiani a suo poter resista, bench’altre volte ha di lor membra asperse le piagge, e l’onda di lor sangue ha mista. (II 41, 1-4)

Come una menade, Clorinda fa a pezzi i nemici e ne disperde le membra. Chiappelli registra una forma di gigantismo nell’enjambement tra i versi 3 e 4, quasi un verso solo non potesse bastare a raccontare le gesta della guerriera. Si parla anche dell’«onda» (II 41, 4) che si mischia al sangue delle vittime. La visione è cosmica, ma si stempera subito in un movimento di umanità:

Or quivi in arrivando a lei s’offerse l’apparato di morte a prima vista.

67

Di mirar vaga e di saper qual fallo condanni i rei, sospinge oltre il cavallo. (II 41, 5-8)

Clorinda, avvezza allo spettacolo atroce della morte, viene richiamata dall’«apparato di morte» (II 41, 6), e decide di avvicinarsi, perché è di «mirar vaga» (II 41, 7). Clorinda, che è ‘mirata’, ‘ammirata’ (I 47, 5), che «tutti gli occhi a sé trae» (II 38, 6), finalmente alza lo sguardo e, a sua volta, guarda. Da guardata, si fa soggetto che guarda, che desidera guardare. Questa è la prima volta che si esprime nel testo un desiderio e un moto dello sguardo di Clorinda. Cosa ha catturato la sua attenzione?

Cedon le turbe, e i duo legati insieme ella si ferma a riguardar da presso. Mira che l’un a tace e l’altro geme, e più vigor mostra il men forte sesso. Pianger lui vede in guisa d’uom cui preme pietà, non doglia, o duol non di se stesso; e tacer lei con gli occhi al ciel sì fisa ch’anzi ’l morir par di qua giù divisa. Clorinda intenerissi, e si condolse d’ambeduo loro e lagrimonne alquanto. Pur maggior sente il duol per chi non duolse, più la move il silenzio e meno il pianto. (II 42; 43, 1-4)

Come un sipario, la folla si apre e permette alla guerriera di avvicinarsi al rogo, che lei «si ferma a riguardar da presso» (II 42, 2). Clorinda fissa lo sguardo sulla coppia così dissimile, e in particolare guarda Sofronia, ormai interamente trasfigurata. Sofronia non contraccambia lo sguardo. È guardata da Clorinda, ma il suo sguardo è fisso al cielo in modo così intenso che sembra, in un certo senso, appartenervi già (II 42, 7-8). Clorinda, la stessa che ha forgiato il proprio corpo e il proprio viso, che viene percepita come fiera dagli esseri umani, che si è fatta più volte autrice dello σπαραγμός, davanti alla vista di entrambi cede al pianto. Ma è soprattutto la mancanza di dolore e di parole di Sofronia che la tocca, e questo sembra essere significativo.

Dopo essersi fatta raccontare i fatti, dall’emozione Clorinda passa all’azione: «Pronta accorre a la fiamma, e fa ritrarla,/ che già s’appressa, ed a i ministri parla» (II 44, 7-8). Clorinda ferma il rogo, e chiede di parlare con il re, al quale si offre come guerriera. Aladino, che conosce bene la sua fama, accetta con entusiasmo. E a questo punto Clorinda fa la sua richiesta: «i’ vuo’ ch’in merto/ del futuro servir que’rei mi done» (II 49, 3-4). Questa è una richiesta di liberazione, evidentemente, ma c’è di più: c’è un’appropriazione. Clorinda, guardando Sofronia, ha visto, innanzitutto, e ha visto qualcosa che l’ha mossa al pianto. E offre al re una spiegazione alternativa al furto, spiegazione che è, a sua volta, appropriazione:

68

E dirò sol ch’è qui comun sentenza che i cristiani togliessero l’imago; ma discordo io a voi, né però senza alta ragion del mio parer m’appago. Fu de le nostre leggi irriverenza quell’opra far che persuase il mago: ché non convien ne’ nostri tèmpi a nui gl’idoli avere, e men gl’idoli altrui. Dunque suso a Macon recar mi giova il miracol de l’opra, ed ei la fece per dimostrar ch’i tèmpi suoi con nova religion contaminar non lece.

Faccia Ismeno incantando ogni sua prova, egli a cui le malìe son d’arme invece; trattiamo il ferro pur noi cavalieri:

quest’arte è nostra, e ’n questa sol si speri. (II 50-51)

Clorinda insomma sostiene che l’immagine, un vero e proprio ‘idolo’, sia stata presa non dai cristiani ma da Maometto, per mantenere pura la moschea. È il suo dio ad aver preso l’effigie, e lei prende Sofronia e Olindo. Come Maometto si è appropriato dell’effigie, Clorinda si appropria di Sofronia, che è appunto ormai pura immagine, silenziosa visione tesa all’aldilà.

Aladino non rifiuta il dono alla guerriera, e i due sono liberati:

Così furon disciolti. Aventuroso ben veramente fu d’Olindo il fato, ch’atto poté mostrar che ’n generoso petto al fine ha d’amore amor destato. Va dal rogo a le nozze; ed è già sposo fatto di reo, non pur d’amante amato. Volse con lei morire: ella non schiva, poi che seco non muor, che seco viva. (II 53)

Dopo essere stati soggetti a un vero e proprio rito, e dopo la trasfigurazione di Sofronia, ecco che la possibilità di tornare alla società è soggetta a una trasformazione. La metamorfosi di Olindo è ben espressa ai versi 4-6: Olindo va «dal rogo a le nozze», e da «reo» si fa «sposo», da «amante», «amato». Già ‘consorte del rogo’, si fa, come auspicava, ‘consorte di letto’ (II 34, 6-7), ma per diventare ‘consorte di letto’ è dovuto prima essere ‘consorte di rogo’. Chiappelli mette in evidenza che «il personaggio di Sofronia [è] caratterizzato dal ritegno, dal rifiuto» (nt. 2 a II 28), e tale «rifiuto» qui si conserva. Sofronia «non schiva/ […] che seco viva», ma solo in virtù di quel passaggio fondamentale: «poi che seco non muor» (II 53, 7-8). Attraverso il denudamento, il fuoco e la trasfigurazione, Sofronia può tornare e proseguire la sua metamorfosi, che non è ancora giunta alla fine. Infatti, nel testo si dice che:

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[…] il sospettoso re stimò periglio tanta virtù congiunta aver vicina; onde, com’egli volse, ambo in essiglio oltra i termini andâr di Palestina. (II 54, 1-4)

Sofronia termina così la propria mutazione: diventando esule, scompare oltre i confini di Gerusalemme, oltre, insomma, i confini del palcoscenico. L’annichilarsi di Sofronia risponde perciò alla logica fino a qui esposta. La vergine, appunto, se muta il proprio stato si sottrae. Sofronia segue questo pattern due volte: prima trasfigurandosi sul rogo, e poi sottraendosi alla città. Spetta a Clorinda, adesso, caricarsi del ruolo della vergine sulla parete della torre, della madre, di Sofronia, e dell’effigie, per compiere il proprio cammino verso la trasfigurazione.

70 3. La testa di Medusa. Idoli e draghi contro il cavaliere

La strana triade santo (o eroe), principessa e drago comincia a comporsi e a dare i propri inaspettati esiti. Alla luce di altre figure letterarie, tra le quali Erminia, ma anche Dafne, Laura, Meridiana e Bradamante, è possibile individuare somiglianze significative, e più significative differenze. Se qui Erminia è fondamentale chiave di lettura per meglio comprendere non solo Clorinda, ma anche il rapporto Clorinda-Tancredi, Dafne e Laura in particolare segnano la parte più disturbante, meno pacificante, della guerriera. Man mano, nella narrazione di Tasso, Clorinda emerge sempre più quale nodo di personæ.

Tancredi, necessario controcanto di Clorinda, prosegue la discesa infera nel proprio io. Dopo aver incontrato una Clorinda ninfale, deve adesso affrontare il volto di Medusa, e forse quello, ancora più terribile, di una risorta Cibele.