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Fantasmagorica Clorinda (parte I): la fuggitiva Erminia

Dopo la sospensione del combattimento tra Argante e Tancredi, la scena torna dal campo all’interno, e in particolare, ancora, a una torre: una torre abitata da una vergine. Se l’azione guerresca si sospende a motivo dell’incalzare della notte, è la notte stessa, «ai ladri amica ed agli amanti» (VI 89, 8), a farsi

16 EDWIN SIDNEY HARTLAND, The Legend of Perseus, vol. 1, published by David Nett, London 1894, p. 5. 17 The Travels of Sir John Mandeville, cit., p. 21.

18 FREDI CHIAPPELLI, Il conoscitore del caos, cit., p. 201. 19 ENRICA SALVANESCHI, “Gerusalemme Liberata”, cit., p. 46.

108 giusto sfondo di un episodio centrale per i personaggi di Tancredi e Clorinda: nelle tenebre, lontano dalla società e dalle sue convenzioni, Erminia, vergine che vuole – unica nella Liberata – essere svelata, si fa terzo vertice tra Tancredi e Argante:

Nel palagio regal sublime sorge antica torre assai presso a le mura, dalla cui sommità tutta si scorge l’oste cristiana, e ’l monte, e la pianura. Quivi, da che il suo lume il sol ne porge, in sin che poi la notte il mondo oscura, s’asside, e gli occhi verso il campo gira, e co’ pensieri suoi parla, e sospira. (VI 62)

La torre era fin qui un nucleo duro, avvolto su se stesso. Lo sguardo che veniva dall’esterno e che poteva penetrare nei recessi era un pericolo da cui proteggersi finché possibile. Ma ecco che adesso il simbolo della torre si trasforma. La torre si fa torre di guardia, punto privilegiato per uno sguardo sul mondo, o meglio, su una persona sola, Tancredi. Il pensiero amoroso «quanto è chiuso in più secreto loco,/ tanto ha l’incendio suo maggior possanza» (VI 60, 5-6). È facile vedere in questa immagine un ennesimo richiamo alla torre, a una torre incendiata, appunto, ma tutta interiore: dovrà venire a breve la torre che Clorinda andrà a incendiare, e non metaforicamente.

Dalla sua peculiarissima torre, Erminia parla di Tancredi mentre «Clorinda intanto ad incontrar

l’assalto/ va di Tancredi» (III 21, 1-2); poi assiste al combattimento tra il guerriero cristiano e

Argante, e pur nella lontananza, nell’impotenza, compartecipa alla tenzone: «e sempre che la spada il pagan mosse,/ sentì nell’alma il ferro e le percosse» (VI 63, 8). Erminia si fa tutt’uno con Tancredi, Tancredi che penetrerà con il ferro il petto di Clorinda. Ma il rovesciamento è significativo: Erminia ha un’altra natura, un altro segno. Erminia è vita, è colei che ‘reca salute’ (VI 67, 8): e appunto pensa alle ferite di Tancredi, ferite che vorrebbe curare usando le «virtù de l’erbe» (VI 67, 2), ma non può farlo:

Ella l’amato medicar desia, e curar il nemico a lei conviene; pensa talor d’erba nocente e ria succo sparger in lui che l’avelene; ma schiva poi la man vergine e pia trattar l’arti maligne, e se n’astiene. Brama ella almen che in uso tal sia vòta di sua virtude ogn’erba ed ogni nota. (VI 68)

109 Questa stanza esemplifica in nuce tutta la problematicità del personaggio: Erminia, come la vita, è contraddittoria e temibile. Parteggiando per quello che di fatto è un suo avversario, amando il proprio aguzzino (la «prigion diletta», VI 58, 4, come già nota Chiappelli),20 meditando sull’avvelenamento di Argante per concedere a Tancredi la salvezza e la vittoria, Erminia è lungi dall’immagine pacificante e ingenua che talora si è tentato di vedere in lei.21 Lungi dal tradire il suo popolo «senza neanche rendersene conto»,22 Erminia sa ciò che vuole e quel che fa.

A complicare ulteriormente il quadro, c’è un dettaglio che Enrica Salvaneschi ha ben evidenziato: la «larvata tensione omoerotica» che lega Erminia a Clorinda.23 Il testo dice quanto segue:

Soleva Erminia in compagnia sovente de la guerriera far lunga dimora. Seco la vide il sol da l’occidente, seco la vide la novella aurora; e quando son del dì le luci spente, un sol letto le accolse ambe talora: e null’altro pensier, che l’amoroso l’una vergine a l’altra avrebbe ascoso. Questo sol tiene Erminia a lei secreto, e se udita da lei talor si lagna,

reca ad altra cagion del cor non lieto gli affetti, e par che di sua sorte piagna. Or in tanta amistà, senza divieto venir sempre ne pote a la compagna: né stanza al giunger suo giamai si serra, siavi Clorinda, o sia in consiglio o ’n guerra. (VI 79-80)

Il legame tra le due vergini è in qualche misura perturbante:

Erminia e Clorinda sono una il simbolo dell’altra nel senso originario del Simposio platonico: pezzi scissi di realtà che, riuniti, darebbero l’intero. Solo che la loro direzione, il loro vettore, non è, platonicamente, verso il riunirsi, ma verso il separarsi – perdersi, disamarsi, non più riconoscersi, non più esser riconosciuti. Un punto le divide, un punto solo; ma è quello fatale: e null’altro pensier che

l’amoroso/ l’una vergine a l’altra avrebbe ascoso.// Questo sol tiene Erminia a lei secreto […]. Con

un’intuizione poetica che, nella sua incantata semplicità espressiva, non saprei dire se psicologicamente o storicamente più profonda, il Tasso presenta questo legame del gineceo, questo appena accennato, delicatissimo lesbismo, come la matrice, la placenta che serra l’identità gemellare e poi divisa, discorde, divergente.24

20 Fredi Chiappelli, in TORQUATO TASSO, Gerusalemme liberata, cit., nt. 1 a strofe 68, p. 267.

21 Si rimanda qui a un articolo in particolare che rimarca la complessità e l’arguzia del personaggio di Erminia: MARYLIN MIGIEL, Tasso’s Erminia: Telling an Alternate Story, in «Italica», vol. 64, n. 1, Spring 1987, pp. 62-75.

22 FRANCESCO FERRETTI, Narratore notturno. Aspetti del racconto nella Gerusalemme liberata, Pacini Editore, Pisa 2010, p. 118.

23 ENRICA SALVANESCHI, “Gerusalemme Liberata”, cit., p. 25. 24 Ivi, p. 27.

110 Tancredi irrompe nell’amicizia tra le due donne e la travolge, la sconvolge. Una volta comparso sulla scena, si fa puntello tra le due e le separa irrimediabilmente. Tancredi perturba, nella sua assenza, quello strano notturno, tutto femmineo, che vede unite le due donne: «Seco la vide il sol da l’occidente,/ seco la vide la novella aurora;/ e quando son del dì le luci spente,/ un sol letto le accolse ambe talora» (VI 79, 2-6). Il pensiero di Tancredi qui s’incunea, tra le cortine della femminea notte, nell’alveo del letto: «e null’altro pensier, che l’amoroso/ l’una vergine a l’altra avrebbe ascoso» (VI 79, 7-8). In questo senso è indicativo che benché possiamo supporre che Erminia, dalla torre, assista allo scontro di Clorinda e Tancredi del canto III, su questo si taccia. Ma i sentimenti che nutre nei confronti di Argante, la volontà, poi temperata, dell’omicidio, non varrebbero forse anche per Clorinda, che continuava a colpire l’uomo che non replicava? Il punto divisivo è davvero «fatale»,25 tanto più qualora si pensi a come Erminia chiama Tancredi parlando a se stessa: il «tuo fedele» (VI 74, 6). Ma Tancredi, si sa, è il ‘fedele’ di Clorinda, e in senso anche trascendente. Il legame tra Clorinda e Tancredi è appunto quello della divinità e del ‘fedele’.26 Erminia si appropria di questo termine, così come si appropria dell’armatura di Clorinda, e di quella sua peculiarità: la libertà – quella stessa libertà che Argante persegue. E lo fa spinta da un solo motore: «Deh! vanne omai dove il desio t’invoglia» (VI 74, 1).

Io guerreggiar non già, vuo’ solamente far con quest’armi un ingegnoso inganno: finger mi vuo’ Clorinda; e ricoperta sotto l’imagin sua, d’uscir son certa. (VI 87, 5-8)

Il desiderio è ciò che alimenta Erminia, ed è il segno opposto a Clorinda e alle vergini viste fino a qui, che, pur essendo desiderate, non desiderano, e che pur essendo guardate, non guardano. Ma quel che vale per le vergini vale in una qualche misura per Erminia, benché si rovescino gli elementi: se per tornare ad essere celate bisogna scoprirsi, e poi trasfigurarsi,27 Erminia per scoprire il proprio desiderio deve coprirsi, celarsi: o meglio, per usare le sue parole, deve ‘ricoprirsi’ (VI 87, 7), e ricoprirsi «sotto l’imagin sua» (VI 87, 8), quella di Clorinda. Erminia, vergine che si manifesta da una torre, ma che usa la torre quale occhio sul mondo, che, non vista, desidera e ama, che nell’oggetto amato vede una chiusa armatura, assume qui l’identità di Clorinda, colei che è celata per eccellenza, per poter svelare ciò che è.

Erminia prende l’armatura di Clorinda, sull’impronta, evidentissima, di Patroclo che assume l’armatura di Achille (Il. XVI, vv.1-144), benché qui siamo sotto un segno diverso: l’azione di

25 Ibidem.

26 Supra, I.3.5-4.1. 27 Cfr. supra, I.2.3-5.

111 Patroclo avviene sotto gli occhi, e secondo volontà, di Achille in virtù del bene pubblico – se non la caduta di Troia, perlomeno la salvezza delle navi dal fuoco dei troiani; quel che fa Erminia avviene di nascosto, senza il permesso di Clorinda, e in virtù del conseguimento di un potenziale bene privatissimo: incontrare Tancredi. Erminia – e in questo senso, il paragone con Patroclo tiene – non assume solo l’armatura, ma «l’imagin» di Clorinda, proprio come Patroclo finisce per diventare Achille. Clorinda, come si è visto, è immagine, imago, fantasma – come il semidivino Achille? Che cosa prende allora Erminia? Che cosa ruba veramente?

Lo sguardo di Clorinda si è levato e fissato su un’immagine in particolare: quella di Sofronia. E fissando Sofronia, Clorinda si è appropriata di quella peculiarissima, virginale identità, di quel percorso tra disvelamento e metamorfosi, tra cielo e fuoco. Erminia fissa l’armatura di Clorinda: «Mentre in vari pensier divide e parte/ l’incerto animo suo che non ha posa,/ sospese di Clorinda in alto mira/ l’arme e le sopraveste: allor sospira» (VI 81, 5-8).

L’armatura di Clorinda è sospesa «in alto» (VI 81, 7): ancora si insiste sull’altezza, elemento distintivo del personaggio. Erminia, il cui movimento non è verticale, ma è piuttosto oscillante, inquieto, irregolare (VI 81, 5-6), alza gli occhi, vede l’armatura e «allor sospira» (VI 81, 8). Il desiderio è ancora la sua misura: alla strofe 82 Erminia comincia il monologo sull’invidia che nutre verso la «fortissima donzella» (VI 82, 2), non per gli onori a lei riservati o per la bellezza, ma perché: «A lei non tarda i passi il lungo manto/ né ’l suo valor rinchiude invida cella,/ ma veste l’armi, e se d’uscirne agogna/ vassene, e non la tien tema o vergogna» (VI 82, 5-8). La libertà di Clorinda, ecco appunto ciò che Erminia vuole. Non sa – o così immaginiamo – che il suo non è un mero gioco di travestimenti, non è un escamotage intelligente e fine a se stesso. Il suo gioco è pericoloso, e non perché non è una guerriera, ma perché Tancredi ama Clorinda – e con lei, l’armatura che parla di lei, che sempre ha visto chiudergli dinanzi, come in una scorza, le fattezze desiderate. Dov’era però Erminia quando Tancredi ha dichiarato il suo amore a Clorinda? Non era come sempre sulla torre a seguirlo con lo sguardo? E Clorinda, speciale compagna, non le ha riferito nulla? Noi sappiamo del silenzio di Erminia, ma evidentemente anche Clorinda ha mantenuto il suo segreto per sé, forse proprio a motivo di quell’espressione criptica e indicativa del Tasso stesso: «e null’altro pensier che l’amoroso/ l’una vergine a l’altra avrebbe ascoso» (VI 79, 7-8). Il «pensier amoroso» è ciò che verte intorno alla passione. E se Clorinda non è amante, è forse silenziosa amata. Ecco che nel letto si intesse un’altra specularità: il silenzio dell’amante e quello dell’amata.

Nel frattempo, Erminia si fa portatrice ignara (o no?) di qualcosa che ha ben più valore di un’armatura: si tratta, per dirla con Amleto, del mortal coil di Clorinda (Ham., 3.1.67). Erminia vuole, più o meno inconsapevolmente, presentare a Tancredi la spoglia, il rivestimento, la forma dell’amica. E a seguito della sua rocambolesca fuga, in quel suo significativo farsi fuggitiva rispetto all’oggetto

112 amato, si abbandona all’ultima forma di esistenza ninfale possibile in quel periodo storico: quella pastorale.

All’insegna della libertà – libertà ricercata da colei che poi si definirà «tante volte liberata e serva» (XIX 100, 8), e che implorerà Vafrino di essere ricondotta a Tancredi, sperando con tutto il cuore che «ne l’antica mia prigion m’accoglia» (XIX 101, 6), in un anelito, perciò, alla prigionia d’amore, – Erminia mette a punto il suo piano. Nella descrizione della vestizione si palesa la distanza da Clorinda:

Co ’l durissimo acciar preme ed offende il delicato collo e l’aurea chioma, e la tenera man lo scudo prende, pur troppo grave e insopportabil soma. Così tutta di ferro intorno splende, e in atto militar se stessa doma. (VI 92, 1-6)

Il carico e la durezza della corazza non si confanno ad Erminia, che non ne sostiene il peso e la consistenza. Eppure Erminia lo fa, e per quanto la sua natura si opponga alla mutazione in guerriera, il risultato è migliore delle aspettative. Quando finalmente è pronta, con i suoi due aiutanti Erminia si appresta a uscire dalla città nella notte nera. Temendo di venir fermata alle porte, dice alla sentinella:

– Io son Clorinda […] apri la porta, che ’l re m’invia dove l’andare importa. – La voce feminil sembiante a quella de la guerriera agevola l’inganno […]

sì che ’l portier tosto ubidisce, ed ella n’esce veloce […].

(VI 95, 7-8; 96, 1-2, 5-6)

L’inganno è compiuto. Erminia dichiara di essere Clorinda, e la voce è somigliante a quella della guerriera. La sentinella la lascia passare. Ora, Clorinda una sola volta dichiara la propria identità: lo fa quando si rivolge al re Aladino per chiedergli di cedere Sofronia e Olindo («– Io son Clorinda», II 46, 1). Rivelare il nome è qui preludio a una forma di appropriazione, che è identificazione. Erminia qui procede in maniera speculare. Dichiarandosi Clorinda, assume su di sé il destino della guerriera, almeno fino a che non permetterà al desiderio di riappropriarsi di lei, potendo così tornare a porsi nel luogo del racconto che le spetta. E per compiere questo movimento di appropriazione fino in fondo, ecco cosa ordina di fare al suo servitore una volta raggiunte le prossimità dell’accampamento cristiano:

113

– Essere, o mio fedele, a te convien mio precursor; ma sii pronto e sagace. Vattene al campo, e fa’ ch’alcun ti mene e t’introduca ove Tancredi giace, a cui dirai che donna a lui ne viene che gli apporta salute e chiede pace: pace, poscia ch’Amor guerra mi move, ond’ei salute, io refrigerio trove; e ch’essa ha in lui sì certa e viva fede ch’in suo poter non teme onta né scorno. Di’ sol questo a lui solo; e s’altro ei chiede, di’ non saperlo; e affretta il tuo ritorno. Io (ché questa mi par secura sede) in questo mezzo qui farò soggiorno. – (VI 99; 100, 1-6)

Erminia chiede al servitore di essere presentata a Tancredi come «donna» (VI 99, 5). Questo è un particolare fondamentale per lo svolgimento dell’intera vicenda. Clorinda non ha mai rivelato personalmente il proprio nome a Tancredi, e il fatto che Erminia mantenga questa forma di anonimato, questa sacralità del nome, contribuisce alla confusione del cavaliere. Erminia, conosciuta da Tancredi, non si presenta. Resta, inconsapevolmente (o volontariamente, ma tacendolo al lettore?), nell’aura di Clorinda. Ma Clorinda non può essere, perché Erminia dichiara di essere colei che◌ ֿ«gli apporta salute e chiede pace» (VI 99, 6). Clorinda, ricordiamo, è colei che dirà a Tancredi: «Guerra e morte avrai» (XII 53, 1). Allo stesso tempo, però, in punto di morte, come vedremo, è anche colei che «in vece di parole/ gli dà pegno di pace» (XII 69, 6-7) e chiede ‘salute’, o salvezza, per l’anima sua (« – Amico, hai vinto: io ti perdón… perdona/ tu ancora, al corpo no, che nulla pave,/ a l’alma sì; deh! per lei prega, e dona/ battesmo a me ch’ogni mia colpa lave», XII 66,1-4): questi gli atti, i gesti e le parole estreme di Clorinda, che muore di un «morir lieto e vivace» (XII 68, 7), che muore di una morte ‘vivificante’, appunto, e la cui ultima parola di vergine guerriera è proprio «pace» (XII 68, 8). Il chiasmo che si forma in queste poche battute illumina ulteriormente il triangolo composto dai tre personaggi, il rovesciamento e il rispecchiamento che continuamente li allontanano e li avvicinano.

Erminia attende il ritorno del servitore, portatore della sua dichiarazione d’amore, così diversa da quella che Tancredi ha fatto a Clorinda: tanto questa è improntata alla vita e alla salvezza, quanto l’altra era volta alla distruzione e all’annichilamento. E il suo carattere inquieto ancora si manifesta: Erminia non può aspettare. Così, venendo meno a quanto detto da lei stessa, si avvicina pericolosamente alle tende cristiane, ripensando alla «vita combattuta e rea» (VI 104, 5) che, pur distanziandosene enormemente, tanto somiglia per definizione a quella di Clorinda. Nell’avvicinarsi al campo, succede il prevedibile:

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Ella era in parte ove per dritto fiede l’armi sue terse il bel raggio celeste, sì che da lunge il lampo lor si vede co ’l bel candor che le circonda e veste, e la gran tigre ne l’argento impressa

fiammeggia sì ch’ognun direbbe: «È dessa». […].

Al giovin Poliferno, a cui fu il padre su gli occhi suoi già da Clorinda ucciso, viste le spoglie candide e leggiadre, fu di veder l’alta guerriera aviso, e contra le irritò l’occulte squadre; né frenando del cor moto improviso (com’era in suo furor sùbito e folle)

gridò: – Sei morta –, e l’asta in van lanciolle. (VI 106, 2-8; 108)

Erminia usa l’armatura di Clorinda come strumento per l’inganno, ma finisce irretita dalla sua stessa trappola – e ritorna così l’ombra di Patroclo su di lei. L’armatura è un segno troppo ‘parlante’, che lei mal sostiene e mal sopporta. Quasi animata da una volontà propria, dal biancore dominante di colei che di solito la porta, che è autorizzata a portarla, perché guerriera, l’armatura cattura un raggio di luna e dà il segnale della presenza di lei nel campo nemico. Poliferno, ingannato a sua volta, si convince di vedere in Erminia «l’alta guerriera» (VI 108, 4) e comincia a inseguirla. Il fratello di Poliferno, Alcandro, dà l’allarme perché vuole che sia Goffredo a decidere come gestire la situazione, che appare, di fatto, un’imboscata (VI 113). Goffredo ancora non ha parlato, ed ecco che subito lo sguardo del narratore cerca Tancredi:

Tancredi, cui dinanzi il cor sospese quell’aviso primiero, udendo or questo, pensa: «Deh! forse a me venia cortese, e ’n periglio è per me», né pensa al resto. E parte prende sol del grave arnese, monta a cavallo e tacito esce e presto; e seguendo gli indizi e l’orme nove, rapidamente a tutto il corso il move. (VI 114)

Senza aspettare cenno o parola da Goffredo, questa volta Tancredi agisce completamente da solo. Non è più qui un cavaliere crociato. Non è più un membro di un esercito. È un guerriero isolato, senza bandiera o vessillo, spinto da una volontà che non può controllare, dalla cieca necessità di raggiungere quella che è – ma lui non sa – una «non vera Clorinda» (VI 112, 2). Inseguendo «l’imagin» di Clorinda (VI 87, 8), Tancredi di fatto insegue un fantasma. E si perde.

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[Q]ui Erminia-cerva rivive la situazione che fu di Clorinda e di Tancredi al loro primo incontro. […]. L’affinità delle sfaccettature verbali è evidente a ogni lettore; stanchezza di Tancredi all’inseguire i nemici, stanchezza di Erminia dall’essere inseguita dai nemici – travagliato fianco di lui, corpo lasso di lei; refrigerio e […] riposo cercato da lui, ristoro, cercato ad un tempo e con identico termine, da Clorinda (per l’istessa ragion di ristorarse) e da Erminia (ristorarse crede a l’onde […]); identico sfondo del locus amoenus: rezzo estivo da un lato, a l’onde, a l’ombre estive (si noti la musica assonante!) dall’altro; identica impossibilità del meriggiare anelato; inoltre, il ricadere di Tancredi dalla sete fisica alla sete d’amore percorre in Erlebnis il rapporto tra la cerva assetata d’acqua ed Erminia assetata d’amore su cui si fonda e si giustifica la similitudine. Le rispondenze, come si vede, sono tanto innegabili quanto dissimmetriche […].28

Come fa notare Salvaneschi, il percorso di Erminia, quello di Tancredi e quello di Clorinda si intersecano al punto che diventa complesso trovare i confini tra un profilo e l’altro.29 Se certi elementi si ripetono e si rinnovano (la stanchezza, la voglia di riposo, di acqua), altri invertono il proprio segno, mettendo in luce le «rispondenze […] dissimmetriche»:30 una di queste è il movimento delle due donne. Clorinda fugge da un locus amoenus verso la battaglia, verso il campo, nel canto I. Erminia dal campo fugge, nel canto VII, al locus amoenus. Se Clorinda si presenta la prima volta come creatura ninfale alle sponde del fonte, Erminia è la vergine della torre che prova a farsi ninfa. Al contatto con il mondo pastorale, Erminia prima s’addormenta, e poi, all’alba, vedendo avvicinarsi dei pastori, «risorge» (VII 6, 5), e si spoglia lentamente dell’armatura («gli occhi scopre e i bei crin d’oro», VII 7, 4), fino al punto di vestirsi da pastorella e decidere di fermarsi lì, almeno per un po’. Ma Erminia non ha una natura ninfale. Quello non è il suo ubi consistam, e infatti neppure nel momento di maggior trascinamento emotivo pensa a un definitivo non ritorno («consiglio prende/ in quella solitudine secreta/ insino a tanto almen farne soggiorno/ ch’agevoli fortuna il suo ritorno», VII