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Nel primo capitolo della Gerusalemme si presenta l’esercito. La menzione di Tancredi si trova già nella nona stanza. Tancredi è colui che, attraverso l’occhio di Dio, ha «la vita a sdegno / tanto un suo vano amor l’ange e martira» (I 9, 4-5). Lo sguardo onnicomprensivo e celeste identifica subito le carenze degli eroi cristiani. Se Rinaldo, ad esempio, si dà a «d’onor brame immoderate, ardenti» (I 10, 6), Tancredi è perseguitato da una vera e propria furia, quella amorosa.9 L’occhio celeste riconosce l’amore di Tancredi come «vano» (I 9, 5), ne legge cioè la vanità, l’impossibilità. È un amore qui ancora senza oggetto, un demone senza volto.

Tasso sospende il motivo dell’amore di Tancredi per alcune stanze, per poi riprenderlo dalla strofe 45:

Vien poi Tancredi, e non è alcun fra tanti (tranne Rinaldo) o feritor maggiore, o più bel di maniere e di sembianti, o più eccelso ed intrepido di core. S’alcun’ombra di colpa i suoi gran vanti rende men chiari, è sol follia d’amore: nato fra l’arme, amor di breve vista, che si nutre d’affanni, e forza acquista. È fama che quel dì che glorïoso fe’ la rotta de’ Persi il popol franco, poi che Tancredi al fin vittorioso i fuggitivi di seguir fu stanco, cercò di rifrigerio e di riposo

8 SILVIO CURLETTO, Op. cit., p. 535.

9 È interessante al riguardo quanto dice il Chiappelli del personaggio storico di Tancredi: «A quanto risulta dai cronisti della crociata il ventenne Tancredi mosse con lo zio Boemondo da Taranto e i suoi Normanni al principio del 1097. Sulla via di Costantinopoli il carattere del giovane (che aveva dovuto essere persuaso a partecipare alla crociata con doni, lusinghe, e la carica di immediato secondo nel comando sotto lo zio) si rivelò in tratti di turbolenza, violenza senza scrupoli, ed efferato individualismo. […]. D’altra parte, la sua prodezza, il suo ardire, il suo talento tattico, la sua energia sono fuori discussione. […].

Dell’esistenza di tali misture nel carattere storico dei personaggi archetipali il Tasso è pienamente cosciente. […]. Di Tancredi, in particolare, egli nota [in una lettera del 1576] che per quanto fosse “cavaliero di somma bontà e di gran valore, fu nondimeno molto incontinente, ed oltremodo vago de gli abbracciamenti de le saracine”», FREDI CHIAPPELLI,

Il conoscitore del caos, cit., pp. 70-71. La «incontinenza» di Tancredi, e l’individualismo del personaggio storico, si

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a l’arse labbia, al travagliato fianco, e trasse ove invitollo al rezzo estivo cinto di verdi seggi un fonte vivo. Quivi a lui d’improviso una donzella tutta, fuor che la fronte, armata apparse: era pagana, e là venuta anch’ella per l’istessa cagion di ristorarse. Egli mirolla, ed ammirò la bella

sembianza, e d’essa si compiacque, e n’arse. Oh meraviglia! Amor, ch’a pena è nato, già grande vola, e già trionfa armato. Ella d’elmo coprissi, e se non era ch’altri quivi arrivâr, ben l’assaliva. Partì dal vinto suo la donna altera, ch’è per necessità sol fuggitiva; ma l’imagine sua bella e guerriera tale ei serbò nel cor, qual essa è viva; e sempre ha nel pensiero e l’atto e ’l loco in che la vide, esca continua al foco. (I 45-48)

Dal principio si sottolinea l’inferiorità di Tancredi rispetto a Rinaldo, inferiorità che si manifesterà nella selva incantata e nelle parole dello stesso Tancredi: «vinto mi chiamo» (XIII 49, 8). Già dal principio, Tancredi si presenta quale modello dello sconfitto. Non solo l’amore è «vano» (I 9, 5), ma sulla sua testa aleggia una «ombra di colpa» (I 45, 5), che è appunto la «follia d’amore» (I 45, 6), follia che fa di Tancredi un novello Cavalcanti dai «foll’occhi»,10 una riproposizione, forse, della figura ombrosa e tormentata del poeta, nota al Tasso, come si evidenzia dai varî riferimenti a Cavalcanti che si trovano nel dialogo La cavalletta ovvero della poesia toscana.11 E in effetti i versi 5-8 della strofe 45 («S’alcun’ombra di colpa i suoi gran vanti/ rende men chiari, è sol follia d’amore:/ nato fra l’arme, amor di breve vista, /che si nutre d’affanni, e forza acquista») sembrano un delicato contrappunto ad alcuni versi di Donna me priega, in cui l’amore è «per necessità obscurum, torbido»:

In quella parte – dove sta memora/

[Amore] Prende suo stato, – sì formato, – come/ Diaffan da lume, – d’una scuritate/

La qual da Marte – vène, e fa demora; (II stanza, vv. 15-18)

10 GUIDO CAVALCANTI, Li mie’ foll’occhi, che prima guardaro, in Poesie dello stilnovo, a cura di Marco Berisso, BUR, Milano 2006, p. 128.

11 A tale proposito, sento di dissentire da quanto scritto da EMILIO RUSSO, in Studi su Tasso e Marino, Antenore, Roma- Padova 2005, pp. 65-66: «Per il Tasso lirico il recupero delle ballate cavalcantiane si spiegava infatti entro la pratica di una medietà lirica, entro un registro ove era lecita “ogni dolcezza, ogni soavità e ogni grazia”, mancando ogni approfondimento della trama concettuale». Come spero di dimostrare in questo capitolo, il contrappunto a Cavalcanti in questo canto non pare solo formale, ma più profondo.

49 Tale oscurità verrebbe da Marte, in quanto «portatore di sofferenze e morte», ma anche perché «[l]o pseudo-Egidio (236) commenta che Marte tende a “conturbare, […] è riscaldativo e incensivo del corpo, […] muove a battaglia”»,12 come l’amore di Tancredi, che è una «ombra», e che, «nato fra l’arme», è intrinsecamente marziale. «Trasferiti dall’astrologia all’ambito della passione amorosa, liricamente intesa, queste nozioni divengono le stupende metafore cavalcantiane della battaglia d’amore, con ferite, sbigottimenti, fughe, distruzione, morte».13 L’amore di Tancredi è dunque, in qualche misura, ‘colposo’. Non c’è spiraglio che lasci sperare in una remota possibilità di riuscita. L’amore di Tancredi, che è «follia», è destinato a rimanere tale fino in fondo, e a plasmare completamente la vita e l’essenza del personaggio, il cui sussistere è, sino all’ultimo canto, relazione alla presenza o all’assenza di Clorinda.

Quello di Tancredi è un «amor di breve vista» (I 45, 7), un amore che passa dallo sguardo; e ancora Cavalcanti14 può farci da contrappunto:

Vèn da veduta forma che s’intende, Che prende – nel possibile intelletto, Come in subietto, – loco e dimoranza. (II stanza, vv. 21-23)

«Causa generante dell’amore è la veduta forma che s’intende; da qui in poi per tutta la stanza Cavalcanti segue il punto di vista non più del generico aristotelismo, ma di quello radicale, e addirittura averroistico in senso stretto».15 E ancora: «Nell’anima sensitiva ad opera della virtus visiva (tutto parte dagli occhi dell’amore) si produce col contributo delle altre virtutes di tale anima (imaginativa, memorativa, cogitativa, ecc.) il phantasma della persona o cosa, nel caso specifico della donna».16 Torneremo a breve su questo punto.

La donna si manifesta in un giorno preciso, «quel dì che glorïoso/ fe’ la rotta de’ Persi il popol franco» (I 46, 2-3) che, come riportato in nota da Chiappelli, è il giorno della battaglia contro i Persiani del giugno 1098.17 Tancredi, come Dante, come soprattutto Petrarca, in un giorno effettivo, inserito in un preciso contesto storico, incontra Clorinda. Ancora, quindi, vediamo come il rapporto amoroso si costruisca su fondamenta tra Stilnovo e Petrarca, in particolare. La visione della

12 MARIA CORTI, Guido Cavalcanti e una diagnosi d’amore, in La felicità mentale. Nuove prospettive per Cavalcanti e

Dante, Einaudi, Torino 1983, pp. 20-21. Mi baso sulla versione di Corti anche per quanto riguarda il difficile testo

cavalcantiano. 13 Ibidem.

14 Per quanto riguarda la questione della vista, e degli spiriti della vista cavalcantiani, si veda il sonetto Pegli occhi fere

un spirito sottile (in Poesie dello stilnovo, 25, pp. 174-175).

15 MARIA CORTI, Op. cit., p. 23. 16 Ibidem.

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Commedia non sembra contemplata: la donna non è una via verso l’alto, ma verso il basso, come

vedremo.

Dopo aver combattuto, «i fuggitivi di seguir fu stanco» (I 46, 4). Ecco due termini fondanti. Il movimento di Tancredi è sempre lo stesso, sempre nella stessa direzione. Cercando refrigerio e riposo da un inseguimento che non sembra niente più che un comune atto di guerra tra vincitore e vinti, Tancredi non sa di essere sul punto di fare di quel movimento il proprio stigma, e la propria identità. E così, colui che insegue i fuggitivi, i nemici, diventerà l’inseguitore delle fuggitive: Clorinda, Erminia travestita da Clorinda, Clorinda dalla nera armatura. «Se l’uomo è minaccia, la donna è fuga».18

Il cavaliere si avvicina a una fonte immersa nel verde. C’è quasi una trasfigurazione del «fonte», che lo «invita» (I 46, 7), e che è «cinto di verdi seggi» (I 46, 8). Il locus amœnus è il luogo per eccellenza in cui incontrare una fanciulla, una ninfa o una dea: è il luogo della «apparizione».19 Ed ecco la manifestazione: «d’improviso una donzella/ tutta, fuor che la fronte, armata apparse» (I 47, 1-2). La manifestazione è improvvisa, inaspettata. La «donzella» si presenta interamente rinchiusa nell’armatura. Solo il volto è esposto alla vista altrui. Il motivo dello sguardo si fa protagonista. Nulla viene detto di Clorinda, che appare qui come una fanciulla senza nome e senza corpo, fatta di puro volto. La scena si incardina sulle reazioni di Tancredi: la fanciulla «apparse» (I 47, 2), Tancredi «mirolla, ammirò la bella/ sembianza», e il risultato è la «meraviglia», i mirabilia del miracolo

amoroso.

Il movimento di Clorinda, involontariamente esposta alla vista di Tancredi, è opposto a quello del cavaliere. Se Tancredi, per così dire, ‘esce da sé’ nella contemplazione, e lascia che il suo sguardo si fissi sul volto di lei, lei si rinchiude ulteriormente: «Ella d’elmo coprissi» (I 48, 1). Clorinda è impermeabile a Tancredi, che ai suoi occhi non è altri che un nemico qualunque, tanto che è subito pronta all’attacco. Eppure, l’atto di coprirsi il viso è ormai vano. Tancredi ha già visto, e le ha già portato via qualcosa di suo: «ma l’imagine sua bella e guerriera/ tale ei serbò nel cor, qual essa è viva;/ e sempre ha nel pensiero e l’atto e ’l loco/ in che la vide, esca continua al foco» (I 48, 6-8). Lo sguardo ha serbato l’immagine di lei, ha tenuto per sé quella quidditas che Clorinda vuole celare. Il

18 NADIA FUSINI, La luminosa. Genealogia di Fedra, Feltrinelli, Milano 1990, p. 149. 19 EZIO RAIMONDI,I sentieri del lettore, cit., vol. I, p. 489.

51 ricordo si fa pensiero permanente, e l’immagine è materia che produce e alimenta la fiamma amorosa.20 In questo senso, dunque, Clorinda è apparizione, visione, phantasma di Tancredi.21

Clorinda è qui pura visione, visione senza nome, senza corpo, puro volto, o ancor meno, pura fronte, appunto:

Nonostante abbia un volto, o meglio sia un volto, la donna passa attraverso l’incontro paradigmatico senza ricevere un nome. Ciò agisce non soltanto da elemento spersonalizzante e da ulteriore garanzia della imprecisabilità della guerriera nella vicenda che condivide con l’eroe, ma ciò che più conta sottrae a Tancredi ogni possibilità di appropriazione della donna attraverso l’accesso al nome evitando anche in questo una particolarizzazione del rapporto.22

Non una parola, non un nome: Clorinda è un’epifania agli occhi di Tancredi, e indossando l’elmo e fuggendo, gli si sottrae definitivamente. Cosa possiede allora Tancredi? L’immagine, l’imago. Il simulacro.

«Partì dal vinto suo la donna altera,/ ch’è per necessità sol fuggitiva» (I 48, 3-4). Se Tancredi è già il vinto, (anche se tale consapevolezza arriverà solo al canto XIII 49, 7, al «vinto mi chiamo»), Clorinda non necessariamente è vincitrice: è piuttosto la «fuggitiva», e, nonostante la sua grande forza e il suo straordinario coraggio, continua a essere fuggitiva dinanzi a Tancredi fino all’ultima notte.