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Gildippe e Clorinda: «far prova di lor non è lor dato»

Il canto IX si apre sulle forze infernali, seguendo idealmente il flusso del canto VII, in cui Belzebù forma un simulacro di Clorinda. Qui è Aletto a dominare la scena e a richiamare Solimano, già atteso dal re Aladino. Solimano smette di farsi attendere, e parte per colpire i cristiani durante la notte.

La scena dell’attacco da parte dell’esercito di Solimano descrive un notturno spaventoso e soffocante:

Ma già distendon l’ombre orrido velo che di rossi vapor si sparge e tigne; la terra in vece del notturno gelo bagnan rugiade tepide e sanguigne; s’empie di mostri e di prodigi il cielo, s’odon fremendo errar larve maligne: votò Pluton gli abissi, e la sua notte tutta versò da le tartaree grotte. (IX 15)

126 L’orrore del notturno è causato dalle presenze oscure, infernali, che si mischiano agli eserciti. L’ambientazione ricorda da vicino, per la presenza di «ombre» (IX 15, 1), di un calore innaturale («rugiade tepide e sanguigne», IX 15, 4) e la sovrannaturalità dell’insieme («s’empie di mostri e di prodigi il cielo», IX 15, 5), la selva di Saron abitata dagli spiriti. Quello che accade in superficie è riflesso del Tartaro: la battaglia, sovversiva a motivo del momento notturno in cui viene combattuta, è specchio dell’oltremondo. Gli scontri vengono descritti insistendo sul sangue, sulle amputazioni, sulla macellazione. Il campo intorno a Gerusalemme è ingombro di cadaveri. In questa cornice spaventosa e macabra all’improvviso si avverte un «ululato» (IX 43, 4). E compare Clorinda come una furia infernale:

Sin da quei primi gridi erasi desto Goffredo, e non istava intanto a bada; già tutto è armato, e già raccolto un grosso drapello ha seco, e già con lor s’è mosso. Egli, che dopo il grido udì il tumulto, che par che sempre più terribil suoni, avisò ben che repentino insulto esser dovea de gli Arabi ladroni; ché già non era al capitano occulto ch’essi intorno scorrëan le regioni; benché non istimò che sì fugace vulgo mai fosse d’assalirlo audace. Or mentre egli ne viene, ode repente – Arme! arme! – replicar da l’altro lato, ed in un tempo il cielo orribilmente intronar di barbarico ululato.

Questa è Clorinda che del re la gente guida a l’assalto, ed have Argante a lato. Al nobil Guelfo, che sostien sua vice, allor si volge il capitano e dice: – Odi qual novo strepito di Marte di verso il colle e la Città ne viene; d’uopo là fia che ’l tuo valore e l’arte i primi assalti de’ nemici affrene. Vanne tu dunque, e là provedi, e parte vuo’ che di questi miei teco ne mene: con gli altri io me n’andrò da l’altro canto a sostener l’impeto ostíle intanto. –

(IX 41, 5 – 44)

Argante è in secondo piano (è «a lato», IX 43, 6). La voce di Clorinda si fa richiamo di guerra, primordiale, quasi animalesco grido, cui si oppone Goffredo, con la sua razionalità, il suo imperio, le

127 sue parole. Goffredo manda Guelfo ad affrontare l’esercito guidato da Clorinda, e sceglie per sé «l’altro canto» (IX 44, 7). L’incontro con la Furia viene in sostanza evitato, almeno per il momento.

Né la gente fedel più che l’infida, né più questa che quella il campo tinge, ma gli uni e gli altri, e vincitori e vinti, egualmente dan morte e sono estinti. Come pari d’ardir, con forza pare

quinci Austro in guerra vien, quindi Aquilone, non ei fra lor, non cede il cielo o ’l mare, ma nube a nube e flutto a flutto oppone; così né ceder qua, né là piegare

si vede l’ostinata aspra tenzone: s’affronta insieme orribilmente urtando

scudo a scudo, elmo ad elmo, e brando a brando. Non meno intanto son feri i litigi

da l’altra parte, e i guerrier folti e densi. Mille nuvole e più d’angeli stigi

tutti han pieni dell’aria i campi immensi, e dan forza a i pagani, onde i vestigi non è chi in dietro di rivolger pensi; e la face d’inferno Argante infiamma, acceso ancor de la sua propria fiamma. Egli ancor dal suo lato in fuga mosse le guardie, e ne’ ripari entrò d’un salto; di lacerate membra empié le fosse, appianò il calle, agevolò l’assalto, si ché gli altri il seguiro e fêr poi rosse le prime tende di sanguigno smalto. E seco a par Clorinda, o dietro poco se ’n gio, sdegnosa del secondo loco. (IX 51, 5 – 54)

La battaglia non ha per ora vincitori o vinti. E nella mischia, Argante, infero e di fiamma, si distingue per la violenza, cui Clorinda è «par […], o dietro poco» (IX 54, 7). Argante e Clorinda paiono combattere per sé, più che per una causa comune, e infatti, quando poi il re suonerà la ritirata: «La fera coppia d’esseguir ciò nega,/ ebra di sangue e cieca d’ira e stolta» (IX 94, 5-6). Al pari di due belve1 ubriache di sangue e non ancora sazie, e rese ormai ‘cieche e stolte’ da una violenza inumana, Argante e Clorinda sono sulle prime sordi all’ordine del re, come due guerrieri senza bandiera, senza capitano. Sono, a tutti gli effetti, due figure del caos, il rovescio di una coppia armoniosa, unico caso

1 Cfr. SERGIO ZATTI, Op. cit., p. 14.

128 di amore possibile e concretizzatosi nella cornice della Liberata, costituzione di una sorta di perfetto ermafrodita che si compensa e si compenetra: Odoardo e Gildippe.

Coppia eccezionale, legata dal vincolo matrimoniale e composta da due coniugi guerrieri, Odoardo e Gildippe si oppongono idealmente, con la misura e l’equilibrio, ai due titani sanguinari:

Ove voi me, di numerar già lasso, Gildippe ed Odoardo, amanti e sposi, rapite? o ne la guerra anco consorti, non sarete disgiunti ancor che morti. Ne le scuole d’Amor che non s’apprende? Ivi si fe’ costei guerriera ardita:

va sempre affissa al caro fianco; e pende da un fato solo l’una e l’altra vita:

colpo che ad un sol noccia unqua non scende, ma indiviso è il dolor d’ogni ferita;

e spesso è l’un ferito, e l’altro langue, e versa l’alma quel, se questa il sangue. (I 56, 5 – 57)

L’indivisibilità dei due («una strana creatura bicefala»,2 sostiene Laura Benedetti) è la costante che più li caratterizza nelle – poche – apparizioni all’interno del poema. La loro eccezionalità risiede proprio in quel formulare «amanti e sposi» (IX 56, 6), che li rende un unicum nella Liberata. La coppia Sofronia-Olindo, come si è già avuto modo di notare,3 compone una disarmonica diade in cui l’elemento femminile è dominante e resistente. Anche nel caso di Gildippe e Odoardo l’elemento femminile è quello posto in maggior rilievo, ma sotto un segno diverso: tanto Sofronia assume su di sé tutti i tratti virginali e si concede in matrimonio dopo essere stata ‘consorte del rogo’ (II 34, 6), quanto Gildippe, allieva delle «scuole d’Amor […]/ si fe’ […] guerriera ardita» (IX 57, 1-2). La sua essenza primigenia, pertanto, è quella di donna amante. Solo una conseguenza di questo è il suo farsi guerriera, al punto che il combattimento diventa parte integrante, ma non consustaziale, della coppia. Gildippe e Odoardo combattono per necessità, e la battaglia è motivo soprattutto di dolore, di timori, placati in parte – e in gran parte causati – dall’unione inscindibile dei due («colpo che ad un sol noccia unqua non scende,/ ma indiviso è il dolor d’ogni ferita;/ e spesso è l’un ferito, e l’altro langue,/ e versa l’alma quel, se questa il sangue», IX 57, 5-8). Se questo è forse l’unico caso di amore felice e reciproco della Liberata, va sottolineato il fatto che proprio per questo non può essere durevole. Subito, infatti, il Tasso mette in evidenza l’esito necessario della coppia: «o ne la guerra anco consorti,/ non sarete disgiunti ancor che morti» (IX 56, 7-8). La rima «consorti-morti» è parlante, e il futuro è già decretato, come si vedrà infine al canto XX. La compenetrazione sarà totale – parallela a

2 LAURA BENEDETTI, Op. cit., p. 114. 3 Supra, I.2.3-5.

129 quella auspicata da Olindo sul rogo, ma concretizzata: «Vorrian formar né pôn formar parole,/ forman sospiri di parole in vece:/ l’un mira l’altro, e l’un pur come sòle/ si stringe a l’altro, mentre ancor ciò lece;/ e si cela in un punto ad ambi il die,/ e congiunte se ’n vanno l’anime pie» (XX 100, 3-8). Al contrario della morte ‘divergente’ cui andavano incontro Sofronia e Olindo («è il tergo al tergo, e ’l volto ascoso al volto», II 32, 8), i due muoiono come sono vissuti: l’uno verso l’altro, l’uno per l’altro, l’uno nell’altro (XX 98-100).

Tenendo a mente tutto questo, comincia forse ad assumere un’altra rilevanza un appuntamento mancato di Clorinda: il combattimento con Gildippe. Il Tasso si limita a narrare quanto segue:

Non lontana è Clorinda, e già non meno par che di tronche membra il campo asperga. Caccia la spada a Berlinghier nel seno per mezzo il cor, dove la vita alberga, e quel colpo a trovarlo andò sì pieno, che sanguinosa uscì fuor de le terga; poi fere Albin là ’ve primier s’apprende nostro alimento, e ’l viso a Gallo fende. La destra di Gerniero, onde ferita ella fu già, manda recisa al piano: tratta anco il ferro, e con tremanti dita semiviva nel suol guizza la mano. Coda di serpe è tal, ch’indi partita cerca d’unirsi al suo principio invano. Così mal concio la guerriera il lassa, poi si volge ad Achille, e ’l ferro abbassa, e tra ’l collo e la nuca il colpo assesta; e tronchi i nervi e ’l gorgozzuol reciso, gio rotando a cader prima la testa. Prima bruttò di polve immonda il viso, che giù cadesse il tronco; il tronco resta (miserabile mostro) in sella assiso, ma libero del fren con mille rote calcitrando il destrier da sé lo scote. Mentre così l’indomita guerriera le squadre d’Occidente apre e flagella, non fa d’incontra a lei Gildippe altera de’ saracini suoi strage men fella. Era il sesso il medesmo, e simil era

l’ardimento e ’l valore in questa e in quella. Ma far prova di lor non è lor dato,

ch’a nemico maggior le serba il fato. (IX 68-71)

Clorinda massacra vari componenti dell’esercito nemico. La visione della sua strage è davvero infernale: Berlinghiero viene colpito al petto, e la vita esce «sanguinosa» (IX 68, 6); a Gerniero viene

130 amputata una mano, che cade orrendamente «semiviva» (IX 69, 4); Achille diventa un «miserabile mostro» (IX 70, 6), seduto in sella ma con la testa mozzata e rotolante nella polvere. L’ira di Clorinda è tremenda, e la sua ὕβρις sembra non conoscere limiti; quand’ecco che si offre Gildippe a paragone, e si dice che «non fa […]/ de’ saracini […] strage men fella» (IX 71, 3-4). Però il Tasso si tace, e non descrive oltre la violenza di Gildippe, il cui animus è solo secondariamente guerriero, ed è primariamente amante. Il Tasso rimarca: «Era il sesso il medesmo, e simil era/ l’ardimento e ’l valore in questa e in quella» (IX 71, 5-6). Sarebbe bello, allora, vederle duellare insieme. Ma il Tasso ce lo nega: «Ma far prova di lor non è lor dato,/ ch’a nemico maggior le serba il fato» (IX 71, 7-8). Una necessità impedisce l’incontro e lo scontro tra le due donne, portatrici di segni opposti: l’una vergine, l’altra coniuge; l’una pagana, l’altra cristiana; l’una nemica, l’altra amante. Se Gildippe infatti è la allieva delle «scuole d’Amor» in cui «si fe’ […] guerriera ardita» (IX 57, 1-2), Clorinda «in palestra/ indurò i membri ed allenogli al corso» (II 40, 3-4) e «armò d’orgoglio il volto, e si compiacque/ rigido farlo» (II 39, 7-8) per farsi «fera a gli uomini […], uomo a le belve» (II 40, 8). La misura di Gildippe va quindi nella direzione opposta rispetto a quella di Clorinda. Tanto la prima modifica la propria natura per amore, e per amore si fa guerriera – in funzione dell’altro, di Odoardo – quanto la seconda si fa guerriera per solipsismo, isolandosi così dalla comunità degli uomini e dalle belve. La natura, dunque, le separa irreparabilmente.

E in effetti in quest’ottica l’affermazione «a nemico maggior le serba il fato» (IX 71, 8) palesa i diversi, divergenti destini cui andranno incontro: Clorinda, monade uccisa dal proprio amante, e Gildippe, uccisa da Solimano, amante di Lesbino, manifestazione di odio e di violenza, e però, misteriosamente, tanto affine a Tancredi, come ha giustamente rilevato Enrica Salvaneschi.4

I confini tra le tre storie della Liberata, pur restando perfettamente definiti per quanto riguarda elementi esteriori della favola (i luoghi, i nomi ed i percorsi), si confondono, quando si leggono le parole con cui la poesia del Tasso esprime il vincolo d’amore: la prigionia, il duello, la morte, il riposo sereno accanto all’uomo o alla donna amata, che è sempre un’illusione magica o il sogno di un istante. Le stesse immagini, benché poste in contesti molto diversi, si sfiorano attraverso lo specchio della metafora, in cui è riflessa un’unica e complessa storia d’amore. […].

Seguire la trama sottile di echi e corrispondenze che percorre la Liberata, nella multiforme espressione di uno stesso possibile amore, rivela tra figure sovrapponibili non solo a livello teorico: più di una volta Armida, Erminia e Clorinda sono confuse all’interno del poema in uno stesso gesto, in una stessa parola, in cui è difficile leggere solo una curiosa casualità.5

4 «[…] si delineerà nel personaggio di Solimano un’osmosi sottile con la zona musical-semantica di Tancredi: così già vedemmo la vulnerabilità del guerrier forte alla morte dell’amato Lesbino [IX 81-6]; e il suo travagliando che poco fa citammo ci porta al travagliato fianco [X 6, 2], citazione diretta della prima scena di Tancredi [I 46, 6]; ci porta a una serie di moti interiori che flettono nella ferocia atteggiamenti tancrediani: i moti del pensier suo stanco; gli interni avoltoi,

sdegno e dolore [X 6, 4; 8]. Si veda soprattutto l’indimenticabile scena della morte, in cui il secreto […] terror che afferra

Solimano lo paralizza quale torbido sogno di un ammalato o di un pazzo [XX 104-107] e lo consegna irresoluto al

vincitore, di cui il poeta non dimentica di fornire l’adeguata soluzione musicale: in arrivando [XX 107, 2]. Non è chi non

veda l’affinità con la scena in cui Tancredi soccombe nella selva al fantasma di Clorinda: qual l’infermo talor ch’in sogno

scorge […] [XIII 44].», ENRICA SALVANESCHI, “Gerusalemme Liberata”, cit., pp. 71-72. 5 ILARIA GALLINARO, Op. cit., pp. 89-90.

131 Quanto sostenuto da Ilaria Gallinaro si può applicare anche alle altre figure femminili, tra le quali Gildippe. Tra le strane dissonanze che le separano e le rendono sorelle allo stesso tempo, vanno rimarcati altri due fattori: la morte, e il segno dell’albero.

Va percorso rapidamente il duello finale di Clorinda e Tancredi per poter meglio comprendere la distanza e la somiglianza tra la vergine e Gildippe. Sul resto torneremo a breve.6 Il combattimento è notturno e nel bosco, fuori del contesto sociale e preordinato della battaglia. Tancredi non sa chi ha davanti, e Clorinda si rifiuta di dirgli il suo nome (XII 61). La morte di Clorinda avviene a causa di un colpo in particolare:

Spinge egli il ferro nel bel sen di punta che vi s’immerge e’l sangue avido beve; e la veste, che d’or vago trapunta le mammelle stringea tenera e leve, l’empio d’un caldo fiume. Ella già sente morirsi, e’l piè le manca egro e languente. (XII 64, 3-8)

Tancredi colpisce Clorinda «nel bel sen» (XII 64, 3), in una delle scene più eroticamente connotate e più giustamente note del poema. La morte di Gildippe avviene, in tutt’altro contesto, con le stesse modalità, anche qui, ma in senso traslato, sessualmente connotate. Durante un combattimento in piena regola, Gildippe va ad affrontare Solimano:

La magnanima donna il destrier volse dove le genti distruggea quel crudo, e di due gran fendenti a pieno il colse: ferìgli il fianco e gli partì lo scudo. Grida il crudel, ch’a l’abito raccolse chi costei fosse: – Ecco la putta e ’l drudo: meglio per te s’avessi il fuso e l’ago, ch’in tua difesa aver la spada e’ l vago. – Qui tacque, e di furor più che mai pieno drizzò percossa temeraria e fera

ch’osò, rompendo ogn’arme, entrar nel seno che de’ colpi d’Amor segno sol era.

Ella, repente abbandonando il freno, sembiante fa d’uom che languisca e pèra; e ben se ’l vede il misero Odoardo, mal fortunato difensor, non tardo. (XX, 95-96)

6 Infra, I.6.

132 Il valore militare di Gildippe, come quello di Clorinda, sfuma. Gildippe subisce la violenza verbale di Solimano e diventa, da moglie, «putta» (XX 95, 6), opposta alla «trafitta vergine» (XII 65, 1-2). Se qui non compare il motivo dello scontro che si fa abbraccio («Tre volte il cavalier la donna stringe/ con le robuste braccia, ed altretante/ da que’ nodi tenaci ella si scinge», XII 57, 1-3), compare però la tematizzazione della sessualità e lo stesso colpo di spada che ha ucciso la «trafitta vergine» (XII 65, 1-2). Il colpo è pura violenza, espressione di brutalità, ma non di desiderio: «osò, rompendo ogn’arme, entrar nel seno/ che de’ colpi d’Amor segno sol era» (XX 96, 3-4). Anche qui si vìola un confine sacro, ma non c’è rivelazione di una femminilità sensuale. Piuttosto, c’è l’irruzione del «misero Odoardo», necessaria alla ricomposizione, anche in mortem, dell’ermafrodita. Tale tentata ricomposizione subisce una breve battuta d’arresto: Solimano taglia la mano con la quale Odoardo sostiene il corpo della moglie («avien che ’l Soldano a lui recida/ il braccio, appoggio a la fedel consorte,/ onde cader lasciolla, ed egli presse/ le membra a lei con le sue membra stesse», XX 98, 5- 8). Gildippe subisce perciò la triplice violenza del Soldano: chiamata «putta» (XX 95, 6), viene trafitta e viene divisa da Odoardo. Tutta la sua essenza subisce quindi un mutamento, proprio come Clorinda, che subisce la ‘trafittura’, che perde così, in qualche modo, l’essenza ‘impermeabile’ e ‘chiusa’ della propria verginità.

Nel cadere a terra, la coppia Odoardo-Gildippe si ricompone:

Come l’olmo a cui la pampinosa pianta cupida s’aviticchi e si marite,

se ferro il tronca o turbine lo schianta trae seco a terra la compagna vite, ed egli stesso il verde onde s’ammanta le sfronda e pesta l’uve sue gradite,

par che se ’n dolga, e più che ’l proprio fato di lei gl’incresca che gli more a lato; così cade egli, e sol di lei gli duole che’l Cielo eterna sua compagna fece. (XX 99-100, 1-2)

Odoardo si fa metaforicamente olmo, e Gildippe vite.7 Che però si tratti di metafore, o ancor meglio, di similitudini, è chiarissimo. Gildippe non è una vite, e Odoardo non è un olmo. Gildippe e Odoardo sono due figure realistiche, tratte dalle cronache, come il Tasso stesso mette in chiaro a Silvio Antoniano: «È scritto parimente ch’Odoardo, barone inglese, accompagnato dalla moglie che tenerissimamente l’amava, passò a questa impresa, et insieme vi morirono: nè sol la moglie di costui, ma molte altre nobili donne, in questo e negli altri passaggi, si trovarono ne gli esserciti cristiani».8

7 SILVIA CONTARINI, Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo, Pacini Editore, Pisa 2006, p. 11. 8 TORQUATO TASSO, Lettere, cit., LX, vol. I, p. 145; Lettere poetiche, cit., XXXVIII, p. 348.

133 Eppure il Tasso, benché in misura contenuta e squisitamente stilistica, sceglie di avvalersi della cifra che è propria di Clorinda e di Armida: li muta, nella similitudine, in piante. Ma se Gildippe è una vite, una pianta vitale, piena di frutto, che simboleggia fertilità già dall’Antico Testamento (si veda, uno su tutti, Michea 4, 4), Clorinda si farà albero di morte, cipresso, – e non metaforicamente, né allegoricamente. Questo è il significato che il Tasso stesso dà a queste piante, come si vede al canto III, in cui descrive sia «gli olmi mariti, a cui talor s’appoggia/ la vite, e con piè torto al ciel se ’n poggia» (III 75, 7-8) sia i «funebri cipressi» (III 75, 5).

Gildippe, nelle pagine del Tasso, è una sposa guerriera, sorella delle tante vergini guerriere che conosciamo nei poemi cavallereschi. Clorinda è qualcosa di più:

Clorinda doveva rientrare […], nel progetto di Tasso, non tanto tra le varie Bradamante, Marfisa, Mirinda della tradizione cavalleresca, la cui natura pienamente “umana” non si può porre in dubbio, quanto nella linea “classica” in cui è facilmente possibile o accettato che uomini e dei abbiano rapporti di qualsiasi tipo.9

Alla luce di quanto dice Antonella Perelli, si comprende il perché il duello tra Gildippe e Clorinda sia impossibile. Gildippe appartiene a una sfera completamente umana: è una donna guerriera. Clorinda, ancora una volta, sfugge a ogni definizione precisa e trova rifugio in un mondo di difficile accesso: il mondo del mito.