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Arsete prosegue quindi il suo racconto. Sulla strada per l’Egitto, l’eunuco viene circondato da una banda di briganti, e si trova costretto a scegliere se affrontare gli uomini o buttarsi in un fiume con Clorinda:

Che debb’io far? te, dolce peso amato, lasciar non voglio, e di campar desio. Mi gitto a nuoto, ed una man ne viene rompendo l’onda e te l’altra sostiene.

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Rapidissimo è il corso, e in mezzo l’onda in se medesma si ripiega e gira;

ma, giunto ove più volge e si profonda, in cerchio ella mi torce e giù mi tira. Ti lascio allor, ma t’alza e ti seconda l’acqua, e secondo a l’acqua il vento spira, e t’espon salva in su la molle arena; stanco, anelando, io poi vi giungo a pena. (XII 34, 5–35, 8)

Clorinda qui affronta le acque, proseguendo il proprio sentiero di «fanciullo divino», cioè, secondo Jesi: «Il fanciullo primordiale, il divino fanciullo dei miti delle origini, l’orfano abbandonato che vive la prima ora del mondo»; il fanciullo divino «affronta precisamente questi pericoli e presta orecchio a queste voci della natura. Dinanzi a lui, privo di padre e di madre, la natura è simultaneamente materna e pericolosa, soccorritrice e mortale. Egli gode di eccezionali poteri sulle forze naturali, ma è anche esposto a minacce di ogni sorta».78 Anche se la categoria del «fanciullo divino» cui fanno magistralmente riferimento Jung e Kerényi apre prospettive diverse rispetto alla categoria della «fanciulla divina», si potrebbe considerare che Clorinda e Camilla rientrino nell’infanzia più in quella del “fanciullo” che della “fanciulla”, a motivo dell’identità complessa e nel loro caso condivisa di vergini guerriere, intessuta tra fanciulla ed eroe. Clorinda si può inscrivere in questa categoria in qualità di orfana e di creatura esposta alla natura (la tigre prima, il fiume poi). Per quanto riguarda il «fanciullo divino», il padre «è spesso il nemico, o egli è soltanto assente […]. La madre ha una parte singolare: essa è e non è allo stesso tempo»79. Se Senapo è assente di fatto e potenzialmente nemico di Clorinda, che apparirebbe come figlia illegittima, la madre è in uno stato indefinito tra la vita e la morte alla partenza della bimba, ed è una figura alla quale non si può tornare. Tuttavia, «il destino dell’orfano, sul piano meramente umano, non costituisce il motivo sufficiente di una simile rivelazione»80. Serve qualcosa di più per poter assurgere a «fanciulli divini»: «la forza dell’acqua»,81 che è elemento primordiale per eccellenza82. «Infanzia e destino d’orfano dei fanciulli divini non si formano del materiale della vita umana, bensì del materiale della vita cosmica»83. La conclusione cui giunge Kerényi sul «fanciullo divino» è che questa figura cosmica sia simbolo di morte e rinascita, «il sicuro ritorno in su della direzione che porta in giù: l’evolvimento fino al più alto, il farsi avanti

78 FURIO JESI, Orfani e fanciulli divini in Letteratura e mito, [1968], Einaudi, Torino 1981, p. 10.

79 CARL GUSTAV JUNG e KÁROLY KERÉNYI,Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, [1940-1941], traduzione di Angelo Brelich, Boringhieri, Torino 1972, pp. 50-51.

80 Ivi, p. 52. 81 Ivi, p. 70. 82 Ivi, pp. 70 sgg. 83 Ivi, p. 75.

43 del più forte di tutti dal più debole di tutti»84: come Clorinda, orfana esposta agli elementi, già ‘mostro’, tra stupor e draco.

Oltre a Camilla (Verg., Aen. XI 547-566), altri infanti, che possono in qualche modo essere stati presi a modello da Tasso, attraversano le acque, quali il piccolo Mosè (Ex, 2, 3-10), e Romolo e Remo (Liv., I, 4; Ov., Fasti, III, 49-54).

L’attraversamento delle acque condiziona l’esistenza di Mosè al punto da restare alla base del significato del suo nome (vocavitque nomen eius Mosi dicens quia de aqua tuli eum, Ex 2, 10). Questo movimento corrisponde al cambiamento culturale, dal mondo degli ebrei a quello degli egiziani. Anche qui il latte si fa simbolo di una assunzione di identità: è la madre di Mosè che continua ad allattare il bambino, facendosi passare per una nutrice (Ex 2, 7-9), e Mosè resterà, nonostante la cultura egizia nella quale viene cresciuto, evidentemente attaccato alle proprie radici.

Con Romolo e Remo, come si è parzialmente già visto, Clorinda ha in comune l’allattamento da parte di una fiera e la problematica paternità (ma qui al santo si sovrappone Marte). Sia la madre di Clorinda sia Rea Silvia rinunciano alla prole per un’impossibilità a farsi madri: Rea Silvia è una vestale, e in quanto tale deve preservare la propria verginità; la madre di Clorinda non può giustificare il biancore della propria figlia se non ammettendo un tradimento mai avvenuto.

Camilla ha dovuto attraversare un fiume, ma lo fa legata a un’asta: dunque per via aerea, e non nell’acqua.85 Clorinda è il «dolce peso amato» (XII 34, 5), come Camilla (Ille innare parans infantis

amore/ Tardatur caroque oneri timet, Aen. XI 549-550). Sottile, nell’episodio virgiliano, l’intreccio

che lega Camilla al mondo vegetale: Camilla è legata all’asta, fasciata nel sughero e nella corteccia (Aen., XI 554-555), e atterra su una zolla fiorita (Aen., XI 566). Metabo dedica in questo episodio la bambina a Diana, che la preserva nell’attraversamento delle acque.

Rispetto a tutti questi «fanciulli divini», comunque, uno in particolare sembra offrirsi quale ‘doppio’ di Clorinda: ancora il piccolo Perseo. Nel frammento di Simonide, il Lamento di Danae, la madre di Perseo, chiusa con il bambino nell’arca e abbandonata alle acque, piange sul proprio destino. Il bambino è ignaro del pericolo, e dorme, così come apparentemente ignara del pericolo è Clorinda. Nel celebre frammento, Danae si rivolge a Zeus. In molte traduzioni, il termine μεταβουλία è reso “mutamento”.86 Pertanto, l’espressione μεταβουλία δὲ τις φανείη,/ Ζεῦ πάτερ, ἐκ σέο (vv. 23-24) è stata tradotta, ad esempio, «Un mutamento/ avvenga ad un tuo gesto, Zeus padre». Una posizione interessante, e controcorrente, è sostenuta in questo senso da Enrica Salvaneschi a fronte di una sua interpretazione del frammento:

84 Ivi, p. 106.

85 Cfr. ANTONELLA PERELLI, Op. cit., pp. 57 sgg.

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Ho reso con «pentimento» il termine μεταβουλία (vs. 23 Page) – hapax congetturale altamente probabile – perché tale mi sembra essere il suo significato, se guardiamo ai valori semantici del connesso verbo μεταβουλεύω; parimenti, e specularmente, ho rifiutato l’usuale traduzione di σύγγνωθι con «perdona»: questo termine, capitale ma purtroppo usurato, di origine piuttosto post-evangelica che evangelica, mi pare etimologicamente e concettualmente improprio a rendere la nozione greca del «conoscere assieme» quale presupposto dello «scusare, scagionare, giustificare». Giustificare, ho detto; con questo alludendo a un’altra mia intemperanza: la dittologia con cui ho reso il termine δίκα, «giustizia» e «misura». Ma credo che l’intemperanza sia più apparente che reale: è appena il caso di ricordare la stretta attinenza di δίκη a μέτρον (-α) nel celebre frammento di Eraclito (DK, 22B 94) sulle Erinni che, assistenti di Δίκη, scoverebbero il Sole se questi oltrepassasse i «limiti». Il Sole-Zeus, violando Danae, i limiti, in qualche modo, li ha sorpassati; la preghiera della creatura, reagendo al male «senza metro», ἄμετρον, che consegue alla violazione, è dunque costitutivamente νόσφι δίκας. In questo consiste il θάρσος, il «coraggio temerario» della parola con cui la vittima si fa mite erinni e chiede, al dio che l’ha perseguita e perseguitata, il «pentimento» e il cosiddetto «perdono».87

Salvaneschi svela una innervatura fondamentale del frammento, del mito di Perseo e di coloro che come lui hanno avuto una nascita ‘divina’: nel caso di Romolo e Remo, di Perseo e di Clorinda, il dio ha reso «vittima» la donna a cui ha scelto di unirsi: Rea Silvia è condannata, Danae è chiusa nell’arca e abbandonata ai flutti, e la regina d’Etiopia è costretta ad allontanare la bambina, forse poi morendo. Il dio, in questo caso, sembra richiedere un sacrificio materno a motivo del prodigio dell’unione. In questo senso, perciò, Danae potrebbe chiedere ‘pentimento’ a Zeus: pentimento per un atto che va contro natura, e che ha conseguenze sulla vita delle madri e dei loro bambini.

Possiamo allora rileggere le parole che il santo pronuncia ad Arsete, e che sono perfettamente in linea con questo spirito. Giorgio appare all’eunuco una prima volta la notte che segue il salvataggio di Clorinda dal fiume, e dice: «ella è diletta/ del Cielo, e la sua cura a me s’aspetta» (XII 36, 7-8); e poi, all’alba che precede l’ultimo combattimento di Clorinda, Giorgio riappare: «Ecco, […] l’ora s’appressa/ che dée cangiar Clorinda e vita e sorte:/ mia sarà mal tuo grado, e tuo fia il duolo» (XII 39, 5-7). Il movimento degli «strani accidenti» che il «Ciel minaccia» (XII 40, 1-2) è proprio in questo senso: Giorgio minaccia, e poi esegue, per senso del possesso. Dopo aver in qualche misura modellato l’esistenza di Clorinda dal principio, a motivo di quella nascita bianca, il santo ne pianifica e modella l’esito, terribile e distruttivo. Essere posseduti dal santo è, per Clorinda, morire. Il paganesimo di tale sacralità è evidente se si paragona quest’atto a quello, più sessualmente esplicito ma affine, di Zeus verso Danae. Le vite di Perseo, di Danae e di Andromeda si intessono nel personaggio di Clorinda in modo mirabile, e sempre più fitto e decisivo man mano che si costruisce l’azione.

Dopo aver cercato di tratteggiare gli elementi mitici della sua infanzia, è tempo di muoversi verso il suo essere guerriera. E si vedrà come Clorinda è san Giorgio e principessa, Perseo e Andromeda, e drago.

87 ENRICA SALVANESCHI, Parafrasi “dal greco di Simonide”: un petit poème en prose, in Gli antichi e noi. Scritti in

onore di Antonio Mario Battegazzore, a cura di Walter Lapini, Luciano Malusa, Letterio Mauro, Glauco Brigati, Genova

45 2. Imaginatio, imagine ed effigie. Clorinda e i suoi avatara

Nata bianca tra neri in seguito all’impressione assunta dall’immagine sul muro, Clorinda è intrinsecamente un personaggio dell’imaginatio, e in quanto tale è imago. Fondamentale pertanto è il ruolo che gioca la vista nell’intessitura del personaggio. Clorinda compare infatti come pura immagine a Tancredi, e la struttura del suo personaggio si intreccia necessariamente con l’episodio dell’effigie e di Sofronia e Olindo, che la vedrà protagonista nel ruolo di vergine guerriera. Tale episodio del II canto verte sull’idea dell’immagine e sul ruolo fondamentale dello sguardo e della vista, di ciò che è velato, coperto, segreto, celato, e di ciò che si disvela, che si palesa, che si manifesta. Durante questo episodio Clorinda per la prima volta ‘guarda’, e il movimento dello sguardo si fa riconoscimento e assunzione di una varietà di simboli, di un’identità complessa e precisa che è importante indagare al fine di comprendere meglio la ricchezza del personaggio e il legame ambiguo e fondamentale con la vergine, il drago e il santo.