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Fantasmagorica Clorinda (parte II): il simulacro di Belzebù

Se Tancredi viene inghiottito dal castello di Armida e scompare dall’azione, Clorinda, tra la fine del canto VI e il VII, è in sostanza una controfigura, un’assente. Eppure in pochi canti della Liberata la sua presenza, la sua immagine, ha tante ripercussioni e tanta forza. I critici non si sono particolarmente occupati di questi episodi, che però hanno una notevole rilevanza per la configurazione del personaggio, perché mettono in luce degli aspetti conturbanti della guerriera che sono fondamentali per una comprensione d’insieme.

36 Ivi, p. 87.

119 Il nome della guerriera è menzionato alla strofe 83:

Piene intanto le mura eran già tutte di varia turba, e ’l barbaro tiranno manda Clorinda e molte genti instrutte, che ferme a mezzo il colle oltre non vanno. (VII 83, 1-4)

Non c’è traccia della Clorinda divina che come una Madre Montana si ergeva, di bianco vestita, sul colle. Qui Clorinda è solo una tra tanti, la passiva, quasi inosservata spettatrice di un duello. In uno stato di quasi-assenza, ecco che la sua immagine si fa forte, agisce e causa un’altra concatenazione di eventi:

Argante, il tuo periglio allor tal era quando aiutarti Belzebù dispose. Questi di cava nube ombra leggiera (mirabil mostro) in forma d’uom compose; e la sembianza di Clorinda altera

gli finse, e l’arme ricche e luminose: diegli il parlare e senza mente il noto suon de la voce, e ’l portamento e ’l moto. Il simulacro ad Oradin, esperto

sagittario famoso, andonne e disse: – O famoso Oradin, ch’a segno certo, come a te piace, le quadrelle affisse, ah! gran danno saria s’uom di tal merto, difensor di Giudea, così morisse, e di sue spoglie il suo nemico adorno securo ne facesse a i suoi ritorno. Qui fa’ prova de l’arte, e le saette tingi nel sangue del ladron francese, ch’oltra il perpetuo onor vuo’ che n’aspette premio al gran fatto egual dal re cortese. – Così parlò, né quegli in dubbio stette, tosto che ’l suon de le promesse intese; da la grave faretra un quadrel prende e su l’arco l’adatta, e l’arco tende. (VII 99-101)

Quello che si sta verificando qui è ancora un’appropriazione dell’immagine di Clorinda: prima Erminia, con un travestimento e una rapina; adesso, niente meno che Belzebù in persona. È a motivo delle persone a lei più vicine che la guerriera perde temporaneamente la propria identità. Erminia, si è visto,37 era alla ricerca della propria libertà, e inseguiva il proprio violento desiderio. Argante, in difficoltà a motivo del sostegno celeste di Raimondo, ha bisogno a sua volta di intercessione, che

37 Supra, I.4.3.

120 ottiene dall’Inferno profondo. Se Erminia si è avvalsa dell’armatura, Belzebù «di cava nube» (VII 99, 3) si avvale, e la plasma a suo piacimento. La forma che sceglie è quella di Clorinda: anche in questo caso, si tratta di una «non vera Clorinda» (VI 112, 2), di una «ombra leggiera» (VII 99, 3).

Chi, o cosa, è Clorinda? L’immagine che crea Belzebù è «mirabil mostro» (VII 99, 4), e senz’altro possiamo qui intendere, ancora una volta, il termine «mostro» come legato alla sfera della meraviglia. Eppure non può non risuonare quella prima espressione che definisce l’essenza di Clorinda alla nascita: «novo mostro» (XII 24, 4).38 Cosa c’è di mostruoso, qui? Mostruoso è il miracolo, mostruosa è la somiglianza; ma non è forse mostruoso, o mostruosamente blasfemo, che l’ancella del santo sia strumento, figura, di Belzebù?

Si potrebbe ribattere sostenendo che il diavolo spesso usa i prescelti di Dio per spregio: un esempio su tutti, il corpo di Mosè conteso tra Satana e Michele, così come descritto nella lettera di Giuda. Ma qui si tratta di altro: non è un corpo – un’immagine – già esistente l’oggetto del contendere: è un’immagine creata. La cultura pagana viene così in soccorso, raccontando di un altro eroe a cui è stata ‘rubata’ l’immagine dagli dèi; lo segnala Chiappelli: Enea (Aen. X, 634 sgg). Qui Giunone

nimbo succincta (v. 634) viene in soccorso di Turno, e crea un simulacro di Enea, un mirabile monstrum pari a Clorinda. La ripresa di Virgilio è, si potrebbe dire, quasi una traduzione parola per

parola:

tum dea nube cava tenuem sine viribus umbram in faciem Aeneae visu mirabile monstrum Dardaniis ornat telis, clipeumque iubasque divini adsimulat capitis, dat inania verba, dat sine mente sonum gressusque effingit euntis […].

(vv.636-640)

Ci sono però delle differenze rilevanti. Ad esempio, Enea, il simulacro di Giunone, appartiene allo schieramento inviso alla dea, e la proiezione, il phantasma, serve per proteggere Turno, non per attaccare l’esercito. Un’altra differenza da notare è che Virgilio si avvale della sovrana tra gli dèi, mentre Tasso sceglie Belzebù, sovrano dei demoni (o così, almeno, per Dante, come si vedrà a breve), in un interessante rovesciamento dei generi. Se insomma Giunone tiene occupato Turno con un fantasmatico inseguimento di un simulacro, Belzebù passa all’azione, al sangue, alla violenza, evocando l’immagine di chi parteggia per il suo schieramento. E la tempesta che Giunone, infuriata, porta giù con sé esplode nella Liberata in una bufera demonica.

Ma qui l’episodio si arricchisce di altri dettagli importanti: l’immagine, il «simulacro» (VII 100, 1) veste l’armatura bianca e ha la voce simile a quella di Clorinda, proprio come Erminia.

38 Supra, I.1-5.

121 Belzebù cade forse in trappola e dimentica che Clorinda non ha più l’armatura e la sopravveste bianche perché «Erminia gliele ha prese, gliele ha rubate, anche simbolicamente»?39 Forse Belzebù non si è ingannato: ha voluto raffigurare Clorinda al massimo grado della sua riconoscibilità, con quella che è cifra di Clorinda, della divina Clorinda, della mortale Clorinda: il suo mortal coil (Ham., 3.1.67). E in effetti, venuta meno l’armatura bianca, indossate le «spoglie […] ruginose e nere» (XII 18, 1, 4), Clorinda si prepara per la morte. Anche il Tasso, come Belzebù, sostiene, come sulla scorta di «un lapsus»,40 che Clorinda deponga «le sue spoglie inteste/ d’argento e l’elmo adorno e l’armi altere» prima di indossare l’armatura nera. Evidentemente, perciò, il significato dell’armatura bianca è profondo. Abbandonare l’armatura significa scoprirsi, e quindi prepararsi alla metamorfosi cui si sottopongono Sofronia e l’effigie: violate, scompaiono. Clorinda, violata, assumerà la natura che le spetta. Ma alcuni eventi devono ancora verificarsi.

Belzebù si comporta come Erminia, l’ingannevole, l’«infingevole» Erminia (III 19, 1), quasi ci fosse una comunanza tra i due. E questo non deve stupire, perché se la natura di Clorinda è complessa e ‘mostruosa’, va ricordato che Erminia è a lei profondamente affine, è, in sostanza, ‘gemella’ di segno opposto.

Quello che fa Erminia è creare una realtà alternativa attraverso il suo travestimento e la fuga. Alternativa e distruttiva per Tancredi – ma non abbastanza, perché ancora non avrà espiato fino in fondo – alternativa e vivificante per lei, per lei che «apporta salute» (VI 99, 6), che è «medica […] pietosa» (XIX 114, 2), che sa curare, che vive e vuole continuare a farlo («cercando al viver mio soccorso» XIX 97, 7). Erminia è però anche colei che mente, e lo fa dall’inizio, nei confronti del re Aladino,41 lo fa nei confronti di Clorinda («Questo sol [l’amore per Tancredi] tiene Erminia a lei secreto,/ e s’udita da lei talor si lagna,/ reca ad altra cagion del cor non lieto/ gli affetti, e par che di sua sorte piagna», VI 80, 1-4), e lo ha fatto nei confronti di Vafrino («– Erminia, – mi dicesti – ardi d’amore/ Io te ’l negai, ma un mio sospiro ardente/ fu più verace testimon del core», XIX 96, 4-6). Che sia «infingevole» (III 19, 1) è evidente fin dalla sua prima apparizione. È quindi parte della sua natura l’operazione che le viene richiesta e che racconta a Vafrino, per quanto lei dichiari di aborrirla:

E perché fra’ pagani anco risassi ch’io so vostr’usi ed arme e sopraveste fêr che le false insegne io divisassi; e fui costretta ad opere moleste.

Queste son le cagion che’l campo io lassi: fuggo l’imperïose altrui richieste;

schivo ed aborro in qual si voglia modo contaminarmi in atto alcun di frodo. (XIX 89)

39 ENRICA SALVANESCHI, “Gerusalemme Liberata”, cit. p. 33. 40 Ibidem.

122 E probabilmente qui dice il vero. Ma se la ‘frode’ qui è deliberata e la disgusta (o la disgusta forse perché andrebbe a detrimento di Tancredi e del suo esercito) come definire allora l’aver sottratto e indossato l’armatura di Clorinda, e l’essersi definita Clorinda? Erminia è appunto complessa, contraddittoria, sempre in oscillazione.

Il furto dell’armatura e dell’identità – che è ‘frode’ – ricade sotto un’importante sfaccettatura: quella del gioco. E il gioco di Erminia è molto serio. Secondo Huizinga, alla base del gioco la sfumatura del «“darsi l’apparenza di”» sembra, in latino, stare in primo piano. Anche i composti

alludo, colludo, illudo, tendono tutti al senso dell’irreale, dell’ingannevole».42 E chi gioca, appunto, «crea un secondo mondo immaginato accanto a quello della natura».43 Chi per eccellenza compie quest’opera, però, culturalmente parlando, è la simia dei. E non è un caso, allora, che Belzebù si manifesti qui come controcanto di Erminia. Belzebù segue le orme di Erminia passo passo, al punto che la creazione del simulacro di Clorinda potrebbe sembrare a tutti gli effetti imitazione dell’imitazione di Erminia. Il diavolo è peraltro colui che viene definito come mendax […] et pater

eius (Iohannes 8:44). E in effetti l’esito dell’azione di Erminia è speculare a quello di Belzebù: se

Erminia contribuisce, portando Tancredi alla fuga, a un forte indebolimento dell’esercito cristiano e a una crisi complessiva dei paladini, Belzebù, usando l’immagine di Clorinda per incitare Oradino a scagliare una freccia durante il duello tra Argante e Raimondo per colpire il conte, dà il via a una sanguinosa battaglia che vedrà la partecipazione diretta delle forze sovrannaturali.

Curioso è il legame che si crea tra Belzebù ed Erminia, in Clorindae absentia. Curioso, perché riporta a un altro interessantissimo legame, a un altro complessissimo tessuto testuale. Nel Faust goethiano esiste un legame tra Mefistofele e un personaggio femminile che sembrerebbe un modello di Erminia: Elena. Si è già detto, infatti, che Erminia, come Elena (Il. III, 161 sgg.), si presenta sulla torre al fianco del re, a indicare a dito i guerrieri cristiani (III 12); che Erminia, come Elena (Od. IV 220-232), conosce le erbe e la magia (VI 67, 1-3);44 va anche annotato che Erminia, come Elena (Od. IV, 277-279) sa imitare le voci altrui (VI 95-96), e nello specifico, di Clorinda – tratto, appunto, che la accomuna a Belzebù. C’è però un ultimo aspetto perturbante che disserra il legame, e che sembra svelare l’eterno femminino di cui Elena, Erminia e Clorinda sono manifestazione: Elena, come Clorinda, è simulacro, è εἴδωλον (Eur., Elena, 34), fatto con l’aria del cielo.45 Ecco che, passando

42 JOHAN HUIZINGA, Homo ludens [1939], Einaudi, Torino 2002, p. 44. 43 Ivi, p. 7.

44 Cfr. Supra, I.3.1.

45 Tasso conosceva la Elena di Euripide, come dimostra in particolare una sua postilla ai Due discorsi di Faustino Summo scritta tra il 1590 e il 1595, in cui si legge: «Euripide / ne la/ favola d’ / Helena / si parte / d’Homero / in quella / di Giocasta / da Sofocle»; cfr. EMILIO RUSSO, L’ordine, la fantasia e l’arte, cit., p. 146. Benché la postilla sia più tarda rispetto alla stesura della Liberata, si può plausibilmente pensare che Tasso già fosse addentro alla lettura dei classici, come suggerito nelle Istruzioni per l’uso di questa sezione, ricordando appunto che: «La familiarità con i classici volgari,

123 attraverso Erminia, si giunge a vedere una traccia che a tutta prima passa inosservata: Clorinda, simulacro, è davvero creatura divina dalle radici antichissime, e assume a suo modo «Helen’s cosmic role […] to destroy the race of heroes».46

Infine Clorinda, la vera Clorinda – ammesso che tale espressione sia ammissibile, alla luce di quanto visto fin qui – coglie l’occasione offerta dal suo simulacro e fa ciò che da lei tutti si aspettano. Agisce, e le parole che spingono all’azione sembrerebbero più di Goffredo che sue:

Ma Clorinda, ché quindi alquanto è lunge, prende opportuno il tempo e ’l destrier punge. – Per noi combatte,

compagni, il Cielo, e la giustizia aita; da l’ira sua le faccie nostre intatte sono, e non è la destra indi impedita, e ne la fronte solo irato ei batte de la nemica gente impaurita, e la scote de l’arme, e de la luce

la priva: andianne pur, ché ’l fato è duce. – Così spinge le genti, e ricevendo

sol nelle spalle l’impeto d’inferno, urta i Francesi con assalto orrendo, e i vani colpi lor si prende a scherno. (VII 116, 7-8; 117; 118, 1-4)

La tempesta infernale colpisce prevalentemente i cristiani, preservando i volti dei guerrieri pagani. Così questi possono continuare a vedere e a combattere. Clorinda, che finora è stata ai margini dell’azione, e il cui «simulacro» (VII 100, 1) ha inconsapevolmente dato il via a una serie di eventi, scende davvero in campo, e interpreta correttamente i segni come sovrannaturali, ascrivendoli però naturalmente al cielo. Si fa così incarnazione dell’esercito, come un’Erinni sospinta dalla tempesta infernale.

La figura di Belzebù può in qualche modo essere apparentata a Clorinda. Per vedere in che senso, però, bisogna fare ricorso a colui che verosimilmente ha portato il Tasso a scegliere il nome del Signore delle mosche quale signore dei demonî, ancora Dante:

Lo 'mperador del doloroso regno

da mezzo 'l petto uscia fuor de la ghiaccia; e più con un gigante io mi convegno, che i giganti non fan con le sue braccia: […].

Oh quanto parve a me gran maraviglia

latini e greci (questi ultimi, tuttavia, per lo più letti in traduzione) fu acquisita in tempi precoci, precoci anche per quei tempi di sollecite vocazioni letterarie, trasfusa già nelle prove degli anni ’60 e poi sempre allargata» (EMILIO RUSSO,

L’ordine, la fantasia e l’arte, cit., p. 71).

124

quand' io vidi tre facce a la sua testa! L'una dinanzi, e quella era vermiglia; l'altr' eran due, che s'aggiugnieno a questa sovresso 'l mezzo di ciascuna spalla, e sé giugnieno al loco de la cresta: e la destra parea tra bianca e gialla; la sinistra a vedere era tal, quali vegnon di là onde 'l Nilo s'avvalla. […].

Io levai li occhi e credetti vedere Lucifero com' io l'avea lasciato, e vidili le gambe in sù tenere; […].

Luogo è là giù da Belzebù remoto tanto quanto la tomba si distende, che non per vista, ma per suono è noto d'un ruscelletto che quivi discende per la buca d'un sasso, ch'elli ha roso, col corso ch'elli avvolge, e poco pende. (Inf. XXXIV 28-31; 37-45; 88-90; 127-132)

«Lo 'mperador del doloroso regno» (Inf. XXXIV, v. 28) ha qui due nomi. Il primo, Lucifero; il secondo, Belzebù. E come è noto è caratterizzato da una dimensione gigantesca («e più con un gigante io mi convegno,/ che i giganti non fan con le sue braccia», vv. 30-31), e da «tre facce» (v. 38), che curiosamente riprendono i colori della Grande Madre, così come descritti ad esempio nel celebre incontro con la dea da parte di Lucio nell’Asino d’oro (11, 3).47 Una di queste facce è descritta come «tra bianca e gialla» (v. 43).48 Ritorna perciò il colore di Clorinda; e anche se l’articolo di Michele Feo spiega in modo piuttosto convincente che esiste una differenza non trascurabile tra il bianco e il pallido nel Cinquecento,49 non possiamo ammettere però che nel caso di Clorinda una accezione escluda l’altra; come si è già detto, il biancore di Clorinda non è l’attributo della donna angelicata, ma è una cifra distintiva ben più pregna di significati, ben più perturbante. Dare al testo di Tasso una lettura univoca in questo senso significa perderne il cuore.

47 Cfr. MASSIMO PERI, Op. cit., pp. 175-179. 48 Ivi, pp. 349-353.

49 MICHELE FEO, “Pallida no, ma più che neve bianca”, in «Giornale Storico della Letteratura Italiana», 152, 1975, pp. 321-361.

125 5. Un duello mancato e una trafittura imperfetta

Appressandosi alla fase conclusiva della propria esistenza, Clorinda si trova ad affrontare due combattimenti ‘imperfetti’: il primo, che non potrà realizzarsi, è con Gildippe, unica altra figura guerriera femminile della Liberata appartenente all’esercito cristiano; il secondo è un combattimento ‘a distanza’, non caratterizzato, per una volta, dal corpo a corpo, che vede Clorinda come arciera e come ipotetica feritrice di Goffredo da Buglione. Ipotetica, appunto, perché sul merito di tale ferimento scivola un’ombra. Il ferimento, comunque, garantisce solo una vittoria parziale. Il corpo di Goffredo si ristabilirà miracolosamente, mentre il corpo di Gerusalemme comincerà ad essere violato dall’esercito cristiano, per venire poi, almeno parzialmente, sanato dal sangue dei crociati stessi.

I canti IX e XI, studiati in questo capitolo, mostrano ancora un volto diverso di Clorinda, che è indubitabilmente guerriera, ma che sembra lentamente astrarsi dal proprio ruolo in una inesorabile preparazione a un passaggio tanto misterioso e incerto quanto evidentemente legato alla natura più profonda del personaggio stesso. Questi due combattimenti ‘atipici’ – il primo inattuabile, e il secondo dubbio e problematico – sembrano segnare una cesura all’interno di questa strana biografia, una sorta di congedo dal campo. E fungono ancora da mise en abîme, nel tentativo disperante – ma mai disperato – di cristallizzare sulla carta un personaggio così metamorfico.

Centrale sarà naturalmente il ruolo della torre: Clorinda-torre, da una parte, che veglia la città dalla torre Angolare, contrapposta alla torre cristiana, di segno contrario, come si vedrà, alle torri viste finora. Come il premonitore canto funebre di un uccello, il segno della torre si profila al canto XI come premonizione: Clorinda-torre dovrà necessariamente farsi incendiaria della torre.