• Non ci sono risultati.

Un Tancredi glorioso, trionfante («Vede Tancredi in maggior copia il sangue/ del suo nemico, e sé non tanto offeso./ Ne gode e superbisce . […]», XII 58, 5-7), trafigge infine il drago, come l’eroe solare che egli incarna. E trafiggendone la corazza, mette a nudo un’essenza:

Ma ecco omai l’ora fatale è giunta che ’l viver di Clorinda al suo fin deve. Spinge egli il ferro nel bel sen di punta che vi s’immerge e ’l sangue avido beve; e la veste, che d’or vago trapunta le mammelle stringea tenera e leve, l’empie d’un caldo fiume. Ella già sente morirsi, e ’l piè le manca egro e languente. Segue egli la vittoria, e la trafitta

vergine minacciando incalza e preme. (XII 64; 65, 1-2)

Il «ferro» di Tancredi (XII 64, 3) penetra infine la corazza, ‘scorza’ di Clorinda: che consisteva prima nel «durissimo acciar» (VI 92, 1) della prima armatura, quella rubata da Erminia, e adesso nelle «spoglie ruginose» (XII 18, 1, 4). Il ferro riconosce il ferro, e vince contro se stesso.42 Aperta la corazza, c’è una membrana che separa il ferro dalla pelle, la «veste, […] d’or vago trapunta» (XII 64, 5), una sorta di Porta Aurea del corpo-città. Dall’oro offerto a san Giorgio dalla regina d’Etiopia (XII 28, 3-4) ai capelli medusei (III 21, 7), alla Porta chiusa dinanzi alla guerriera, alla veste: una vena d’oro attraversa l’esistenza di Clorinda, e la luminosità assoluta sembra infine prevalere sul nero – il nero misterioso e ‘impossibile’, in quanto latente dalle origini, dell’infanzia, fino all’assunzione dell’armatura nera. La «fortissima donzella» (VI 82, 2) allora è costretta ad abbandonare quella che

42 Come insegna Propp, serve un drago per sconfiggere il drago: cfr. VLADIMIR JAKOVLEVIČ PROPP, Op. cit., pp. 380, 440-444.

164 Chiappelli chiama «forma assunta», e come l’icona del canto II, come Sofronia, comincia la propria metamorfosi:

Ella, mentre cadea, la voce afflitta movendo, disse le parole estreme; parole ch’a lei novo una spirto ditta, spirto di fé, di carità, di speme: virtù ch’or Dio le infonde, e se rubella in vita fu, la vuole in morte ancella. – Amico, hai vinto: io ti perdón… perdona tu ancora, al corpo no, che nulla pave, a l’alma sì; deh! per lei prega, e dona battesmo a me ch’ogni mia colpa lave. – In queste voci languide risuona

un non so che di flebile e soave

ch’al cor gli scende ed ogni sdegno ammorza, e gli occhi a lagrimar gli invoglia e sforza. (XII 65, 2-8; 66)

Ritorna, nella stanza 66, un termine chiave che era, in modo peculiare, riferito alla regina: «colpa». Se, dinanzi all’immagine di san Giorgio, della principessa e del drago «sovente ella s’atterra, e spiega/ le sue tacite colpe, e piange e prega» (XII 23, 7-8), Clorinda qui richiede il battesimo che lavi ogni «colpa» (XII 66, 4). Come la regina, il desiderio di liberarsi dalla colpa si palesa nella posizione: madre e figlia sono entrambe a terra. E se la madre «piange e prega», Clorinda, senza lacrime, ha come interlocutore non Dio, non il santo, ma Tancredi, al quale chiede di pregare per lei. Clorinda insomma vuole un intercessore, un ultimo legame con l’aldiqua, a cui chiede un ‘dono’ (XII 66, 3), che non è quel che Tancredi le aveva proposto al canto III. Non il cuore, non l’incendio della passione, dell’invasamento: ma il battesimo. Clorinda non piange, così come non piangeva Sofronia – piangeva Clorinda, allora (II 43). Piange Tancredi (XII 66, 8), come Olindo (II 42). E Clorinda da «rubella» si fa «ancella» (XII 65, 7-8), rendendo possibile così, in morte, l’adempimento della preghiera che la madre rivolse al santo («tu per lei prega, sì che fida ancella/ possa in ogni fortuna a te raccôrsi», XII 28, 6), benché Clorinda non ‘ricorra’ al santo, né a Dio: solo a Tancredi che, come san Giorgio, si fa intercessione tra la donna e il Dio. La temuta «non bianca fede» della madre (XII 24, 8) s’incarna quindi in questa atipica ‘bianca fedele’, che pur resta da molti punti di vista lontana dalla figura materna. Ben diversa è l’adesione alla fede cristiana da parte della Marfisa ariostesca, che abbraccia la fede nel momento in cui riscopre le proprie origini, e si fa cristiana perché quella era la fede del padre: «Io fo ben voto a Dio (ch’adorar voglio/ Cristo Dio vero, ch’adorò mio padre)» (OF XXXVI 78, 1-2) è l’evidenza di questa volontà di comprensione all’interno della linea familiare. Ben diverso, appunto, è l’iter di Clorinda – matrilineare, innanzitutto, e in negativo, dopo un primo disconoscimento di sé e delle proprie origini.

165 Tancredi si dispone a battezzare Clorinda – ma ancora, ai suoi occhi, Clorinda non è Clorinda:

Poco quindi lontan nel sen del monte scaturia mormorando un picciol rio. Egli v’accorse e l’elmo empié nel fonte, e tornò mesto al grande ufficio e pio. Tremar sentì la man, mentre la fronte non conosciuta ancor sciolse e scoprio. La vide, la conobbe, e restò senza e voce e moto. Ahi vista! ahi conoscenza! Non morì gia, ché sue virtuti accolse

tutte in quel punto e in guardia al cor le mise, e premendo il suo affanno a dar si volse vita con l’acqua a chi co ’l ferro uccise. (XII 67; 68, 1-4)

L’effetto meduseo di Clorinda ritorna anche in morte. Tancredi, alla sua vista, alla vista della «fronte» di lei (XII 67, 5), resta di pietra. La variante della Conquistata riserva tuttavia, in merito a questo celeberrimo passo, una sorpresa. Tornando al momento in cui Tancredi insegue Clorinda, che cerca di rientrare in città, nella Conquistata si legge:

Vuol ne l’arme prouarla; vn’huom la ſtima, Degno, à cui ſua virtù ſi paragone.

Và girando colei l’alpestre cima; Peròch’à quella porta entrar diſpone, Che da la graggia è detta; e giunge inprima Doue con l’ali aperte alto Dragone. Chiara acqua ſparge entro marmorea cōca; Onde la via non l’è rinchuisa, ò tronca. (XV 65)

Il drago Clorinda verrà quindi battezzato con l’acqua di una fonte dragonesca.43 Il drago vince il drago, perché appunto è solo il drago a poter uccidere il drago: «Amministrata dall’eroe, e insieme forma vivificante della divinità della guerriera, l’acqua del rito che nella Conquistata significativamente sgorga dall’idrico drago stesso fonde in un unico definitivo sovrumano destino coloro che la vicenda umana inesorabilmente separa».44 Il «ferro» (XII 68, 4) di Tancredi, nel caso

43 Sulla scorta dell’annotazione di Braghieri in merito alla presenza della fonte in forma di drago della Conquistata (Op.

cit., pp. 129 sgg.), si riporta qui l’interessante annotazione di MICHELE CROESE, Op. cit., pp. 329-330: «Alla luce di queste osservazioni è facile constatare come l’ottava aggiunta nella Conquistata si proponga a tutti gli effetti come una sintesi mirabile dei grandi Leitmotive che accompagnano il personaggio di Clorinda:

- il drago infatti, legato tradizionalmente all’iconografia di San Giorgio, è già una presenza misteriosa al momento del concepimento di Clorinda, ed ora, con perfetta circolarità, diventa il testimone silente del Combattimento e della sua morte;

- l’acqua è l’elemento provvidenzialmente legato all’eroina, in tutti i momenti più significativi dell sua vita: dal prodigio infantile narrato da Arsete (Lib., I, 44-47), fino al Combattimento che si terrà in riva torrente, e al conseguente battesimo finale; battesimo che, nella Conquistata, verrà amministrato, in una sorta di ulteriore ridondanza simbolica, con il purissimo elemento che sgorga dall’idrico drago; […]».

166 specifico di questo episodio è segno della violenza maschile – evidente l’impronta di marcato erotismo della strofe 64 – ed è mortifero. L’«acqua» (XII 68, 4) è segno ambivalente, tra maschile e femminile.45 Tancredi, mediatore tra cielo e terra, tra morte e vita, è colui che somministra entrambi. E forse, versando l’acqua ‘dragonesca’, lascia che ancora una volta il drago batta il drago. Questo movimento sembra funzionare, soprattutto alla luce di qualche ottava del IV canto del Floridante, opera tarda di Bernardo Tasso, curata poi da Torquato Tasso stesso.46 Qui leggiamo che:

Ma, mentre l’ira lor tien l’arte in mano, Anzi ’l desio de la seconda vita, Vider venir, non molto indi lontano, Per mezzo de la valle erma e romita, Un drago in vista spaventoso e strano, Di grandezza non più letta od udita, Che, spirando di fuor fiato di foco, Sembra ch’ovunque passa arda ogni loco. Volge ciascun di lor l’ardita faccia, Ove ’l serpente vien con tal fracasso Che par ch’arda il terreno e che disfaccia Ogni arbore che tocchi ed ogni sasso; E se ben tema onesta gli minaccia, Non può l’usato ardir lor porre al basso, Anzi d’accordo ambo a la lor difesa Contra ’l gran mostro ebber la pugna presa. Lo Spagnolo è più lieve, ed è ragione, Perché non ha di molto sangue sparso, E come fu vicino al gran dragone, Tanto che ’l colpo suo non fosse scarso, Menò col fiero brando un stramazzone, Il qual, se lo cogliea, gli saria parso, Ancor che ’l capo fosse forte e duro, Macchina ch’apre e spinge a terra un muro. Ma non lo colse, ch’una nebbia oscura Glielo coperse ed andò ’l colpo in fallo. Tornata l’aria poi serena e pura, Vide una donna uscir sovra un cavallo (Come ch’a creder paia cosa dura) Da quel serpente ch’era di metallo, Che con allegre ed amorose ciglia Accrebbe in lor la prima meraviglia. E con molta creanza e cortesia

45 L’acqua è un elemento intrinsecamente ricco di sensi, che può farsi pertanto facilmente portatore del segno maschile e di quello femminile. Nel caso, ad esempio, della nascita di Afrodite, così come riportato da Poliziano, in Giostra, I, XCIX, vv. 1-4, l’elemento equoreo è evidentemente femminile: «Nel tempestoso Egeo in grembo a Teti/ si vede il fusto genitale accolto/ sotto diverso volger di pianeti, errar per l’onde in bianca schiuma avvolto»; altrove, predomina il segno maschile: un esempio è rappresentato dalle Danaidi di Eschilo, (fr. 44, Radt), in cui la pioggia, penetrando nel terreno, feconda la terra (si confronti questo passo, ad es., con Georg. II 325-327, in cui Giove, attraverso la pioggia, feconda il ventre della terra). Tale incertezza di segno ben esprime l’ambivalenza del personaggio di Clorinda, il cui elemento preponderante è, come sostiene Croese in Op. cit., pp. 329-330, proprio quello dell’acqua.

167

Amboduo stretti abbraccia, ambo saluta; […]

(IV 30-34, 1-2)

Il drago è la ‘scorza’ della vergine dalle «allegre ed amorose ciglia» (IV 33, 7), che la vergine abita. Una volta colpito l’acciaio che lo riveste, la fanciulla viene come liberata, espulsa dal drago stesso – che pure, come figura della vergine, permane, e nel Floridante ne è addirittura casa. La natura dragonesca di Clorinda, lo vedremo, si manifesterà un’ultima volta.47

Tancredi è trait d’union tra Clorinda e cielo. Ma poi lo scarto è brusco e repentino: prima Clorinda si rivolge a Tancredi chiamandolo «amico» (XII 66, 1), garantendogli e chiedendogli il perdono, sollecitandolo al ‘dono’ del battesimo. E poi, pietrificandolo nel suo svelamento, lo dimentica per volgersi altrove:

Mentre egli il suon de’ sacri detti sciolse colei di gioia trasmutossi, e rise;

e in atto di morir lieto e vivace,

dir parea: «S’apre il cielo; io vado in pace». (XII 68, 5-8)

Dimentica del cavaliere, Clorinda ride e comincia la propria migrazione in un altrove, in una realtà che a Tancredi non appartiene. Come l’effigie del canto II, Clorinda violata smette di appartenere a questo mondo, ripristinando così «la propria natura metafisica dell’assenza, di segno dell’essere, di “ciò che si sottrae”».48 Ci sono altri indizi che possono aiutarci a leggere questo episodio più in profondità:

D’un bel pallor ha il bianco volto asperso, com’a gigli sarian miste viole:

e gli occhi al cielo affisa, e in lei converso sembra per la pietate il cielo e ’l sole; e la man nuda e fredda alzando verso il cavaliero, in vece di parole

gli dà pegno di pace. In questa forma passa la bella donna, e par che dorma. (XII 69)

Va innanzitutto messa in rilievo la specularità tra il riso e il gesto di Clorinda nelle stanze 68 e 69 e il riso e il gesto di Clorinda, che soli la descrivono, nelle stanza 30 e 31 del medesimo canto XII, in cui la Clorinda infante ride (XII 30, 8) mentre, nella foresta, la tigre la lecca, e in cui solleva «secura» la «pargoletta mano» (XII 31, 2) verso il «fero muso» (XII 31, 1). C’è insomma una sorta di ritorno

47 Infra, I.7.

168 a un momento primevo, fondativo del personaggio, una riassunzione dell’infanzia. Solo in questi due momenti Clorinda ride e solleva la mano in un gesto di tenerezza, di pacificazione.49

Inoltre, va notato che alcuni elementi testuali rimandano al petrarchesco sonetto CCVIII, il cui protagonista è il fiume al quale il poeta si rivolge in quanto trait d’union tra lui e Laura. Laura qui, significativamente, è «[…] vivo et dolce sole,/ ch’addorna e ’nfiora la tua riva manca» (vv. 9-10): figura luminescente, radiosa, che si fa fiore sulla riva del Rodano. Caratterizzata sineddoticamente dalla «man bella et bianca» (v. 12), come Clorinda lo è dal «bianco volto» (XII 69, 1), Laura viene lambita dal fiume, che carezza la mano bianca, come l’acqua battesimale lambisce la fronte candida della guerriera. Il poeta chiede al fiume di riferire alla donna un messaggio: «basciale’l piede, o la man bella et bianca;/ dille, e’l basciar sie ’n vece di parole:/ Lo spirto è pronto, ma la carne è stanca» (vv. 12-14). Il bacio è l’elemento rimosso dall’ottava tassiana. Clorinda non riceve un bacio «’n vece di parole» (RVF CCVIII, 13), ma diventa colei che «in vece di parole» dà a Tancredi «pegno di pace» (GL XII 69, 6-7). Ed è in Clorinda forse che si può vedere una incarnazione delle parole del poeta – parole che il poeta, Petrarca, riprende ardito da quel che il Cristo stesso dice ai discepoli nel Getsemani – «Lo spirto è pronto, ma la carne è stanca»: Clorinda infatti «passa […] e par che dorma» (XII 69, 8) dello stesso sonno che fa apparire «stanca» Laura nella morte (Triumphus Mortis, I, 168) e l’«atto di morir lieto e vivace» (XII 68, 7) di Clorinda riprende quell’«anima contenta» di Laura che «se n’andò in pace» (Triumphus Mortis, I, 162).

A ritroso, da Laura si risale a un’altra mirabile fanciulla-fiore. Vanno isolati alcuni segni in particolare: il riso di Clorinda, la similitudine con i fiori – elemento topico, sì, tradizionale, sì, ma qui precisamente connotato – il fiume, l’appellativo «bella donna» (XII 69, 8), l’oltremondo e il fatto – esplicitato alla strofe 58, 4 – che si sta facendo giorno. Ritroviamo gli stessi elementi in un personaggio che forse non ci aspetteremmo, e in un luogo che poco ha a che fare con un campo di battaglia: Matelda nel Paradiso terrestre.50 Matelda infatti appare «subitamente» (Purg. XXVIII, 38) – e Clorinda si manifesta allo stesso modo, nel momento in cui Tancredi le scopre la fronte e lei cessa di essere un nemico, un «barbaro discortese» (XII 62, 8) – all’alba, quando «li augelletti» cantano (Purg. XXVIII, 14-17), presso un «rio» dalle «picciole onde» (Purg. XXVIII, 25-26) – che si fa «picciol rio» nell’episodio tassiano (XII 67, 2).

Il fiume separa Dante da Matelda – e l’acqua del battesimo, pur unendo Tancredi a Clorinda, porta la guerriera a volgersi a un altrove. Matelda appare come «una donna soletta che si gia/ e cantando e scegliendo fior da fiore/ ond’era pinta tutta la sua via» (Purg. XXVIII, 40-42). È

49 Si veda CHIARA ITALIANO, Pargolette mani: Tasso, Spenser e i loro fanciulli, in via di pubblicazione.

50 A proposito del «mythe nymphal» di Matelda, si rimanda al bell’articolo di ANDRÉ PEZARD, Nymphes platoniciennes

au Paradis terrestre, in Medioevo e Rinascimento. Studi in onore di Bruno Nardi, Sansoni, Firenze 1955, vol II, pp. 543-

169 interessante il fatto che, mentre Matelda sceglie «fior da fiore/ ond’era pinta tutta la sua via», Clorinda, potremmo dire usando le parole di Dante, di «fior da fiore/ […] era pinta». Se di Matelda Dante dice: «Tu mi fai rimembrar dove e qual era/ Proserpina nel tempo che perdette/ la madre lei, ed ella primavera» (Purg. XXVIII, 49-51), Clorinda assume la figura di Persefone, che l’Inno omerico mirabilmente definisce καλυκῶπις κούρη (v. 8): “la fanciulla dal volto in fiore”; il viso di Clorinda insomma, come quello di Persefone, si fa fiore, tra il giglio e la viola (XII 69, 2). Matelda e Clorinda sono entrambe, dunque, figure della fanciulla-fiore.51

La risata di Matelda è enigmatica e marca la distanza tra la fanciulla-fiore e il poeta:

Ella ridea da l’altra riva dritta trattando più color con le sue mani, che l’alta terra sanza seme gitta. Tre passi ci facea il fiume lontani; ma Elesponto, là ‘ve passò Serse, ancora freno a tutti orgogli umani, più odio da Leandro non sofferse per mareggiare intra Sesto e Abido, che quel da me perch’allor non s’aperse. (Purg. XXVIII, 67-75)

La risata di Clorinda, forse altrettanto misteriosa, è un atto al quale Tancredi non può partecipare.52 Clorinda vede qualcosa che a lui è precluso – così come precluso, benché visibile, è il mondo che Matelda abita, quello del Paradiso terrestre, di un aldilà che il poeta può solo osservare, senza poter compartecipare. Matelda e Clorinda mettono inoltre in scena una danza speculare, perché è una danza, in effetti, il loro movimento: «Come si volge, con le piante strette/ a terra e intra sé, donna che balli,/ e piede innanzi piede a pena mette» (Purg. XXVIII, 52-54); «[…] e ’l piè le manca egro e languente» (GL., XII 64, 8). Danza, però, di segno opposto: se quella di Matelda è la danza della vita – dell’immortalità, dell’oltrevita – quella di Clorinda è una danza della morte – del venir meno, dello svanire, del trasvenire.53 E infatti, tanto Matelda si apre alla comunicazione con Dante («E tu che se’

51 A proposito del rapporto tra ninfa e acqua, peraltro, va ricordato che: «Proserpine est exactement le type de la nymphe, telle que la définissent les lexicographes. D’Elien à Hugutio de Pise et Jean de Gênes, en passant par Servius et Isidore de Séville, on rappelle que le nom de “nymphe” est donné à la fiancée conduite aux noces, et prête pour l’amour après qu’on l’a lavée d’eau lustrale», ANDRÉ PÉZARD, Op. cit., p. 562. Il battesimo di Clorinda appare così come un atto preparatorio a tutti gli effetti per, verrebbe da dire, un matrimonio nella morte, come vedremo nei prossimi paragrafi. Peraltro va aggiunto che il Tasso era assolutamente addentro a questa interpretazione della figura ninfale, essendo, come spiega Giovanna Scianatico, un lettore de L’antro delle ninfe di Porfirio (GIOVANNA SCIANATICO, Op. cit., nt. p. 137). 52 Sul riso quale elemento disturbante, che segna una distanza e che anticipa l’aldilà, e l’interpretazione di questo in particolare tra Medioevo e Cinquecento si veda GEORGES MINOIS, Storia del riso e della derisione, trad. di Manuela Carbone, Edizioni Dedalo, Bari 2004, pp. 15-176, 379-439.

53 Nella Presentazione al volume di JEAN SEZNEC, Op. cit., Salvatore Settis, riferendosi al protagonista del romanzo

Gradiva (1903) di Wilhelm Jensen, scrive: «Il “movimento” è l’essenziale della figura (così vitale, che sembra “volare”):

170 dinanzi e mi pregasti,/ dì s’altro vuoli udir; ch’i’ venni presta/ ad ogne tua question tanto che basti»,

Purg. XXVIII, 82-84), quanto Clorinda «in vece di parole/ gli dà pegno di pace» (XII 69, 6-7). Parole

e silenzio, vita e morte, dunque. E in relazione a questo – al loro essere, pur diversamente, volte alla morte – c’è un ultimo dato fondamentale: Matelda è chiamata da Dante per due volte nel canto XXVIII con l’appellativo di «bella donna» (vv. 43, 148). Clorinda, al termine della sua trasfigurazione in fiore, è infine una «bella donna» (XII 69, 8). Le due fanciulle-fiore, legate così intrinsecamente al mondo vegetale – floreale in particolare – si fanno fiore del sonno, dell’aldilà, della morte: belladonna, appunto. Che, come ricorda Cattabiani, oltre a essere usato dalle veneziane per la preparazione di un cosmetico:

Secondo un’altra interpretazione il nome deriverebbe dal francese belle-femme, termine usato nel Medioevo per designare le streghe che si servivano della pianta nella preparazione di unguenti e pozioni. […] la pianticella con i suoi alcaloidi […] provoca – ingerendone le foglie, i fiori o le bacche nere, simili a mirtilli o a piccole ciliegie – fenomeni di depressione delle terminazioni nervose del vago con diminuzione della secrezione salivare, gastrica e sudorale, dilatazione dei bronchi, diminuzione del tono muscolare intestinale, intensificazione dei battiti cardiaci, sensazione di ubriachezza, allucinazioni e stato comatoso che può sfociare, a dosi elevate, persino nella morte. […] Nel 1960 Will-Erik Peukert, direttore dell’Istituto di Etnologia dell’Università di Göttingen, si unse il corpo con una pomata a base di belladonna, preparata secondo una ricetta descritta da Giambattista Della Porta nel suo Magia naturalis: cadde in un sonno profondo durato per circa venti ore, durante il quale ebbe tutte le visioni e sensazioni descritte dalle «streghe» partecipanti ai sabba. […]. Divenne anche simbolo del Silenzio, che è uno degli attributi della morte.54

che Warburg attribuisce al movimento in relazione alla figura della ninfa. La duplice danza, di segno opposto, di Matelda e di Clorinda sembra andare proprio in questa direzione.