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Arsete, ormai a tutti gli effetti tutore della bambina, intraprende il proprio percorso di «sconosciuto» (XII 29, 5). Abbandona la torre e la città, e con la piccola Clorinda, appunto, «per foresta/ caminando di piante orride ombrosa» (XII 29, 5-6), incontra il primo immenso potenziale ostacolo, la tigre: «vidi una tigre, che minaccie ed ire/ avea negli occhi, incontr’a me venire» (XII 29, 7-8). Da questi versi comincia un raffinatissimo gioco che il poeta conduce e fa vertere tutto intorno allo sguardo, forse in virtù del fatto che ci troviamo dinanzi a vere e proprie mirabilia.

Arsete vede la tigre, e la tigre vede Arsete; negli occhi dell’animale, «minaccie ed ire» (XII 29, 7). La tigre non ha paura dell’uomo. Nel proprio ambiente naturale, nella foresta spaventosa, la tigre è regina, ed espressione massima di ferinità e alienità rispetto al mondo cittadino. Arsete è colui che se ne va «sconosciuto» (XII 29, 5) e non sospetto (XII 29, 4): cioè, si allontana dalla torre senza essere riconosciuto da nessuno, e senza che alcuno se ne accorga. Questo suo status resta tale anche nella foresta, che teme e nella quale non si riconosce. Arsete, figura complessa e contradditoria, è pagano tra cristiani (XII 21, 5), eunuco (XII 18, 7), «avolto in feminil mestiero» (XII 21, 6) e, quale servitore della regina, posto tra un «gregge/ d’ancelle» (XII 21, 5-6). Arsete è insomma un unicum nella torre, e tale singolarità riconduce in qualche modo a Clorinda, che è altrettanto unica.

Lo scopo di Arsete è fortemente legato al nutrimento di Clorinda; quando viene presentato nel poema, di lui si dice: «È quivi Arsete eunuco, il qual fanciulla/ la nudrì da le fasce e da la culla» (XII 18, 7-8); Arsete racconta: «Piangendo a me [la regina] ti porse, e mi commise/ ch’io lontana a nudrir ti conducessi» (XII 26, 1-2); «e preso in picciol borgo alfin soggiorno/ celatamente ivi nutrir ti fei» (XII 32, 3-4); «nudrita/ pagana fosti» (XII 38, 1-2). La crescita e l’alimentazione si fondono in un binomio nella normalità tanto scontato quanto screziato e particolarissimo per Clorinda. Ricordando che il latte bianco della nera madre le è stato negato (XII 27, 5-6), ecco che il nutrimento viene

66 Riguardo all’impossibilità di ritorno di Clorinda al proprio regno, si rimanda a ANTONELLA PERELLI, Op. cit., pp. 73- 75; concordo con l’autrice nell’affermare che il ritorno è per Clorinda chiuso al principio, non avendo con sé alcun segno di riconoscimento che possa far sì che, come Cariclea, i genitori la riaccolgano a casa. Mi sento di dover essere meno dogmatica a proposito di quel che accade infine alla regina. Perelli sostiene la necessità della morte della regina etiope. Tasso in realtà si tace, e il venir meno della regina è volutamente lasciato sospeso tra svenimento e morte. Come Clorinda, la regina è sospesa tra i due mondi (si vedano i capp. 6 e 7 di questo lavoro). Il fatto che, secondo Perelli, Clorinda, come Pentesilea, sia «eroina destinata alla morte» (cit., p. 75) non esclude, ma anzi evidenzia, la dimensione infera della guerriera, e della madre prima di lei.

38 commissionato all’eunuco. Se il verso ottavo della strofa 18, («la nudrì da le fasce e da la culla») significa indubbiamente, come mette in rilievo Chiappelli, che l’eunuco la allevò,67 va comunque considerata la pregnanza della scelta di questo termine, tanto più alla luce della problematica identità di Clorinda. Inoltre, è indubbiamente Arsete ad aver cresciuto Clorinda come pagana e ad averle negato, contrariamente alla richiesta della regina, il battesimo cristiano. Quindi è sua, in un certo senso, la fede che Clorinda lega al «latte […]/ che sugger mi fêsti» (XII 41, 2-4): quasi un nutrimento secondo, un latte spirituale. Ma anche il latte, elemento di vita, di crescita e naturalità, simbolo della purezza di un legame materno, di un nutrimento sano (si veda il lac sine dolo della seconda epistola di Pietro)68, può assumere una piega più cupa, e farsi quasi elemento mortifero, di sangue. Si riporta qui, a riprova di questo, un brano di Ateismo, di Silvio Endrighi:

Il neonato e la puerpera stavano ancora all’ospedale; e per M era uno spettacolo radioso e spaventoso quando, durante le sue visite, le capitava di assistere al rito dell’allattamento. Era certo un emblema della vita, il simbolo istintivo del legame tra figlio e madre; la viva mostra della necessità. Dicono che il bambino della zebra impari a riconoscere a memoria il mantello rigato della madre, stando a contatto soltanto con lei nel suo primo periodo di vita; e che questo sia il modo di salvezza, l’unico possibile, quando cresciuto dovrà seguire il branco, in fuga dall’assalto dei leoni. In modo simile M concepiva il legame carnale tra la madre umana e il piccolo essere che le martoriava il seno: quando vedeva il cucciolo agitare le braccia piccine, le mani ad artiglio minute, vanamente prensili nell’aria, e poi calmarsi nel momento in cui la bocca da uccello si applicava al capezzolo pronto e sofferente, quel ricostituirsi dell’antica unità carnale, quell’animalità fondamentale e pura, simbolica nel senso primitivo (perché simbiotica), le dava un brivido di pànico commosso. Era affascinata da quello spettacolo, e nello stesso tempo se ne sentivaseparata e distante: sapeva che non l’avrebbe a sua volta vissuto, che il suo seno non si sarebbe offerto mai all’assalto vorace di un amoroso appiglio, e tuttavia non poteva non riconoscere con tremore la genuina potenza di quel legame, la sua realtà insondabile e atroce. Soavi tratti, e macabri, componevano il quadro: i lunghi peli neri del capezzolo, le ragadi brucianti e incisive, ma soprattutto l’afflusso inesorabile del liquido al seno inturgidito e doloroso, per cui il neonato è necessario alla puerpera quasi altrettanto che la madre al figlio – lei nutritiva, lui liberatore; un altro ed alto, assiduo magistero veniva poi dalla discorde reciprocità del siero di latte e del sangue mestruale: come se il grumo rosso-bruno, ferrigno, graveolente, si mutasse nel suo càstore bianco, colostro nutritivo e zuccherato, sì che l’alimento della vita denunciava la propria gemellare parentela con la deiezione della vita, virtualità inutilizzata e fracida.69

L’allattamento, un «rito» che unisce madre e figlio in maniera «simbolica» perché «simbiotica», necessario tanto all’uno quanto all’altra, ha un elemento opposto e parente: il sangue mestruale. Il latte, potremmo glossare, è (anche) sangue, e l’atto nutritivo per eccellenza ha, quale «càstore», il segno della sterilità e della non-essenza. Come la M di Endrighi, la madre di Clorinda è privata di questa relazione. E Clorinda, lungi dal poter essere «liberatrice» della madre, diventa una ‘senzaterra’ che dovrà scegliere altri orizzonti, altri legami.

67 TORQUATO TASSO, Gerusalemme liberata, a cura di Fredi Chiappelli, cit., nt. 3, p. 489. Cfr. “Nudrire”, Vocabolario

della Crusca, (IV ed.): il primo rimando è a “Nutricare”; due citazioni dantesche chiariscono ulteriormente lo spettro

ampio del significato della voce: «E quel di mezzo, ch'al petto si mira,/ È ’l gran Chirone, il qual nudrì Achille» (Inf., XII, vv. 70-71); «Mele, e locuste furon le vivande,/ Che nudriro ’l Batista nel diserto» (Purg. XXII, vv. 150-151). Se Chirone ha “nutrito” Achille, cioè lo ha allevato, il miele e le locuste furono gli elementi che a tutti gli effetti “nutrirono” il Battista. 68 Epistula Petri I, 2, 2: sicut modo geniti infantes rationale sine dolo lac concupiscite ut in eo crescatis in salutem. 69 SILVIO ENDRIGHI, Ateismo, Book Editore, Bologna 2000, pp.79-80.

39 La prosa di Endrighi fa riaffiorare, nella descrizione apparentemente quotidiana di una visita ad una puerpera, un motivo mitico. Il latte, generatore della via Lattea, portatore di immortalità se offerto da una dea, o ad essa estorto,70 è più che nutrimento. Nella vicenda di Clorinda, il latte offerto dall’eunuco Arsete, il paganesimo, è sangue e morte. Non rinunciandovi (risponderà Clorinda alla preghiera di Arsete: «Quella fé seguirò che vera or parmi,/ che tu co ’l latte già della nutrice/ sugger mi fêsti e che vuol dubbia or farmi», XII 41, 2-4), Clorinda partirà per l’ultimo combattimento, andando incontro al proprio morire.

Se quello che si è visto fin qui era il ‘nutrimento’ offerto da Arsete, la narrazione presenta la prima nutrice che si offre a Clorinda:

Sovra un arbore i’ salsi e te su l’erba lasciai, tanta paura il cor mi prese. Giunse l’orribil fera, e la superba testa volgendo, in te lo sguardo intese. Mansuefece e raddolcio l’acerba vista con atto placido e cortese; lenta poi s’avvicina e ti fa vezzi con la lingua, e tu ridi e l’accarezzi; ed ischerzando seco, al fero muso la pargoletta man secura stendi.

Ti porge ella le mamme e, come è l’uso di nutrice, s’adatta, e tu le prendi. Intanto io miro timido e confuso, come uom faria novi prodigi orrendi. Poi che sazia ti vede omai la belva del suo latte, ella parte e si rinselva; (XII 30-31)

Arsete, terrorizzato all’apparizione della tigre, pensa alla propria salvezza. In quanto proveniente dal «gregge/ d’ancelle» (XII 21, 5-6), non ci si aspettano da lui grandi manifestazioni di coraggio. Arsete è più pecora che lupo, come presto dimostrerà ancora raccontando dell’episodio del fiume, con la rassegnata espressione: «Ti lascio allor» (XII 35, 5). Sale su un albero per cercare riparo, e racconta questo suo gesto ad una Clorinda ormai adulta, senza vergognarsi di lasciato la bambina sull’erba senza difese. Non sa, in quell’arrampicata tremebonda, che su quell’albero si farà Zaccheo71 di una visione che altrimenti non avrebbe potuto verosimilmente verificarsi.72 Dall’albero è dato ad Arsete di assistere a un prodigio.

La tigre continua la propria marcia, e il suo sguardo si fissa su Clorinda. E a questo punto, «l’acerba/ vista», (XII 30, 5-6) cioè l’aspetto feroce, si addolcisce, e la tigre si avvicina alla bambina e la lecca, quasi l’avesse riconosciuta quale uno dei propri cuccioli. Clorinda ride e la accarezza a sua

70 Come nel caso di Eracle e di Era. Vd. infra. 71 Cfr. il racconto nel vangelo di Luca 19, 1-5.

40 volta (XII 30, 8), e la risata, la carezza, stridono fortemente con la reazione, diremmo naturale, di Arsete. La piccola Clorinda, come riconosciuta dalla tigre, della tigre non ha paura. Il poeta compone il delicato disegno della «pargoletta man» che si stende «sicura» sul «fero muso» (XII 31, 1-2). La tigre «s’adatta» come una «nutrice», e offre il proprio latte alla bambina, che lo prende. La scena si chiude, così come si è aperta, nel tema della vista. Tra la tigre e la bambina si è creato un legame che non si avvale di parole, ma di gesti e di una muta comprensione. La tigre «vede» Clorinda sazia del latte, e si «rinselva» (XII 31, 7-8), che senz’altro si intende nel senso del «ritornare nella selva», ma che forse potrebbe anche significare un ritorno allo stato selvatico precedente.

Quella appena descritta è la prima scena in cui Clorinda è sottratta alla dimensione mostruosa e recupera una misura dolcissima d’infante. Il secondo rimando di Tasso all’allattamento da parte delle tigri – un topos che rientra nel gusto dell’epoca ma che qui, come spesso accade col Tasso, assume un significato più profondo – torna nelle parole di un’Armida sconfitta, che vede Rinaldo partire per farsi eroe. Tra le accuse della donna respinta: «[…] te l’onda insana/del mar produsse e ’l Caucaso gelato,/ e le mamme allatâr di tigre ircana» (XVI 57, 2-4). La profonda dolcezza della scena assume allora un altro significato. La «tigre ircana» che avrebbe allattato Rinaldo lo avrebbe condizionato con la sua ferocia. La tigre nutrice di Clorinda non sottrae la bimba al proprio destino di outsider, ma anzi lo rafforza.

Arsete segue la scena dal suo strategico punto di vista, «com’uomo faria novi prodigi orrendi» (XII 31, 6). Chiappelli glossa il verso all’espressione «prodigi orrendi»: «Raccapriccianti in quanto portano un fremito di divinità ignota».73 Il rapporto di questa immagine al mondo del divino e dell’ignoto è compreso molto chiaramente da Braghieri: «Clorinda, che in grembo alla terra partecipa del potere della tigre trasmessole col latte, viene a condividere con la belva, come i gemelli capitolini con la lupa, la natura».74 Romolo e Remo, esiti, come Clorinda, di una gravidanza in qualche modo divina, subiscono un iter inverso e parallelo a quello della bambina: prima affrontano le acque, poi vengono allattati dalla fiera.75 Il legame tra Clorinda e i gemelli, peraltro, risulta cristallino alla luce di Virgilio, come ben dimostra la comparazione di Perelli tra Aen. VIII e le strofe 30 e 31 del XII della Gerusalemme;76 tramite e snodo di tale legame è Camilla, che beve latte di una cavalla e che indossa la pelle di una tigre (Verg., Aen., XI, vv. 570-572, 576-577).77

73 Fredi Chiappelli in TORQUATO TASSO, Gerusalemme liberata, cit., nt. p. 494. 74 PAOLO BRAGHIERI, Op. cit., p. 134.

75 Cfr. Liv., I, 4; Ov., Fasti, III, 49-54. 76 ANTONELLA PERELLI, Op. cit., p. 58.

77 Si confronti LAURA BENEDETTI, La sconfitta di Diana. Un percorso per la «Gerusalemme liberata», Longo Editore, Ravenna 1996, pp. 33 sgg. Se è indubbia una parentela tra Camilla e Clorinda che Benedetti evidenzia, mi sento però di prendere con molta più cautela il confronto con le altre “femmine guerriere”, tra le quali Bradamante e Marfisa, paragone utile, ma la cui utilità risiede forse nel segnare le distanze, più delle similitudini.

41 Che l’allattamento crei un vincolo complesso, come sostiene Endrighi in Ateismo, e che tale legame, soprattutto quando unisce creature appartenenti a due mondi, sia tanto più importante da un punto di vista mitografico e simbolico, si intravede nella storia dell’allattamento di Eracle da parte di Era. Nella versione del mito sulla nascita di Eracle proposta da Diodoro Siculo nella Bibliotheca

historica (IV, 9, 6), il piccolo Eracle, abbandonato dalla madre per timore della vendetta della dea,

viene dalla dea stessa, ignara dell’identità del piccolo, allattato. In Catasterismi XLIV di Erastotene si scopre che ai figli di Zeus erano vietati gli onori celesti (l’immortalità?) a meno che non fossero stati nutriti con il latte di Era, cosa che appunto accade a Eracle, portato di nascosto nel letto della dea da uno spavaldo Hermes. Essere allattato dalla dea fa, in queste peculiarissime trascrizioni – reinvenzioni – del mito, del mortale un dio. Essere allattata da una tigre fa di Clorinda una creatura a metà tra i due mondi – la torre e la foresta, l’uomo e la fiera. Si comprende meglio, in questa luce, l’affermazione su Clorinda: «seguì le guerre, e ’n esse e fra le selve/ fèra a gli uomini parve, uomo a le belve» (II 40, 7-8). Quasi prigioniera di due identità, Clorinda resta, come Arsete, ma in misura più profonda, un vero e proprio unicum. Né gli esseri umani né le fiere possono davvero esserle compagni, perché lei, essendo l’uno e l’altro, non è né l’uno né l’altro.

L’ultimo intarsio che Tasso dà al motivo del latte è la contrapposizione delle due figure, l’eunuco e la bambina. Arsete, dopo aver passato alcuni mesi nascosto con la bambina in un «picciol borgo» (XII 32, 3), ormai è «[…] giunto ove dechina/ l’etate omai cadente a la vecchiezza» (XII 33, 1-2), e decide perciò di fare ritorno in Egitto. A questa immagine che si appressa inesorabilmente alla vecchiaia è contrappunto la vitalissima e tenera evocazione di Clorinda, che ha sedici mesi: «Tu con la lingua di latte anco snodavi/ voci indistinte, e incerte orme segnavi» (XII 32, 7-8). Il latte, finalmente, giunge a caratterizzare la purezza infantile. Clorinda, anche se per poco, è una bambina al pari degli altri, un cucciolo pieno di latte e incerto sulle gambe.

Il peregrinare dei due non è ancora finito. Prima di arrivare in Egitto, Clorinda affronterà la seconda prova che ne determinerà in qualche modo la misura ‘divina’.