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Poco prima di partire per il campo cristiano, Clorinda dice fra sé:

Io […]

d’alto rinchiusa oprai l’arme lontane, sagittaria, no ’l nego, assai felice. Dunque sol tanto a donna e più non lice? (XII 3, 5-8)

Da un lato, perciò, la reclusione è appagamento; dall’altro, è limitazione. Clorinda si rivolge ad Argante: «Ma s’egli averrà pur che mia ventura/ nel mio ritorno mi rinchiuda il passo» (XII 6, 1-2)… la guerriera, insomma, sembra in qualche modo presentire l’impossibilità di ritorno; sembra presentire che una volta compiuta l’azione bellica nel campo cristiano, cioè verso l’esterno, non potrà più riacquistare una dimensione interna: quasi debba sacrificare la misura virginale, dell’internamento, della chiusura su di sé. E in effetti proprio questo accade.

La dimensione virginale – ninfale – di Clorinda si percepisce in un primo movimento nel celeberrimo combattimento:

Solo Tancredi avien che lei conosca; egli quivi è sorgiunto alquanto pria; vi giunse allor ch’essa Arimon uccise: vide e segnolla, e dietro a lei si mise. Vuole ne l’armi provarla: un uom la stima

23 Il testo di Güntert viene in nostro soccorso avvalorando la tesi di Clorinda come luogo liminale, in quanto «anzitutto la parola “porta” che riecheggia in “morte” e ricompare, nelle ottave 52 e 71, nelle rime “porte” (qui paronomasia, da “portare”) e “morte”, rispettivamente “porte” e “morta”; nell’ottava 62, in “morta” – “spaziosa porta” (detto della ferita che apre il corpo di Clorinda, rivelandone l’intima verità di donna vulnerabile e infranta), mentre altrove “porta” s’associa a “forte” o a “sorte” (altra parola chiave, legata alla tematica del destino, ved. ott. 39 e 81); poi, dipendenti dal concetto di porta, i verbi “chiudere” e “escludere” che presuppongono l’antiteto “aprire” nel senso di “ferire, rilevare”, ma anche di concedere l’accesso allo spazio prima vietato (“S’apre il cielo; io vado in pace”); […]», GEORGES GÜNTERT, Op. cit., p. 148. Se Clorinda è la donna-città, e finora è rimasta chiusa come Gerusalemme, presto dovrà essere ferita – schiusa – e violata.

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degno a cui sua virtù si paragone. Va girando colei l’alpestre cima verso altra porta, ove d’entrar dispone. Segue egli impetuoso, onde assai prima che giunga, in guisa avien che d’armi suone, ch’ella si volge e grida: – O tu, che porte, che corri sì? – Risponde: – E guerra e morte. – (XII 51, 5 – 52)

C’è, in questa rappresentazione della fuga e dell’inseguimento, un movimento noto: quello della ninfa che sfugge al satiro o al dio, con tutta la violenza che a questo movimento soggiace. Clorinda-lupo ebbra di sangue si trova infine in trappola: e nella morsa della misura dell’esterno, dell’aperto, comincia la caccia. «Solo Tancredi avien che lei conosca» (XII 51, 5): in che senso? Tancredi non ha, come è noto, riconosciuto Clorinda in quanto Clorinda, ma in quanto membro dell’esercito pagano, partecipante all’azione incendiaria. Nel caos del campo cristiano, comunque, è «solo Tancredi» a vederla, ed è solo lui a seguirla, come se ancora Clorinda fosse un suo phantasma. E mentre lei si affretta a cercare un altro varco, a tentare di venire riaccolta dalle mura, dalla propria città – che non è la sua, come abbiamo appreso da Arsete – in altre parole, mentre lei cerca di sottrarsi, lui la segue «impetuoso» (XII 52, 5): come un guerriero, come un amante. Si ritrova, in questa precipitosa fuga iniziale di Clorinda, un cenno a Dafne che vuole sottrarsi ad Apollo per poi farsi albero – come si farà Clorinda: non alloro, ma cipresso. Prima di cedere a quest’ultima manifestazione di sé, però, Clorinda rivendica la propria identità guerriera:

– Guerra e morte avrai; – disse – io non rifiuto darlati, se la cerchi –, e ferma attende.

[…].

E impugna l’uno e l’altro il ferro acuto, ed aguzza l’orgoglio e l’ire accende; e vansi a ritrovar non altrimenti che duo tori gelosi e d’ira ardenti. Degne d’un chiaro sol, degne d’un pieno teatro, opre sarian sì memorande. Notte, che nel profondo oscuro seno chiudesti e ne l’oblio fatto sì grande, piacciati ch’io ne ’l tragga e ’n bel sereno a le future età lo spieghi e mande. Viva la fama loro; e tra lor gloria splenda del fosco tuo l’alta memoria. (XII 53, 1-2, 5-8; 54)

Risuonano, nelle parole di Tancredi e di Clorinda, quelle dell’Aletto virgiliana dinanzi a un pietrificato Turno, quando infine riassume la forma di Erinni per rispondere alle ingiurie del giovane:

bella manu letumque gero (Aen. VII 455). Qui Aletto sembra mediare tra Tancredi e Clorinda, quale

159 primo luogo. E Clorinda di rimando. I due si fanno nodi di pura violenza: il combattimento assurge pertanto a guerra privatissima, che nulla, o quasi nulla, ha più a che vedere con la crociata. Vertiginosamente i due scendono a manifestazioni di pura animalità (sono appunto «duo tori gelosi e d’ira ardenti», XII 53, 8): «Questo motivo della sfida rabbiosa si sviluppa appoggiandosi soprattutto sul motivo dell’incendio. […]. E si arriva al feroce scambio di parole (“Guerra e morte”) che unisce e divide i due combattenti in un sentimento d’odio e in un’azione di sangue».24

Se Getto registra lucidamente il profondo legame tra l’incendio e la violenza dei due personaggi – quasi uno fosse riflesso dell’altra – dà forse minore importanza al clima notturno, favorendo invece il contrasto della luce crescente corrispondente alla morte e al battesimo di Clorinda. Senza nulla togliere alla fondamentale lettura di Getto, andrebbe forse qui sottolineata con maggior forza l’importanza del notturno che, come Tasso pone in evidenza alla strofe 54, è ben altro rispetto a una «forma decorativa» la quale «lungi dal ridursi ad offrire l’appiglio di una scenografica decorazione, si risolve in poetica nota di un paesaggio che, ponendosi quale sfondo e commento dell’episodio, va trascolorando da una cupa tonalità verso celesti splendori».25 Il notturno ha uno spessore, una rilevanza fondamentale: perché il duello non è sotto la luce del sole, non rientra nel mondo degli uomini, in cui la guerra ha valore politico, e sancisce e difende una struttura; questo è un duello notturno, già infero, tra due creature dell’oscurità. Tancredi infine ha assunto il tratto gorgonico di Clorinda: «– O tu, che porte,/ che corri sì? – Risponde: – E guerra e morte. –» (XII 52, 7-8). In questo senso, allora, la strofe 54 assume un più profondo significato: la battaglia sarebbe stata degna di essere vista di giorno, ma c’è un’impossibilità strutturale che impedisce che questo accada. E la notte stessa, qui personificata dal Tasso, in un gesto che sappiamo ormai essere caratterizzante di Clorinda, chiude «nel profondo oscuro seno» (XII 54, 3-4) questo momento. Tasso chiede alla Notte il permesso di poter rievocare il duello (v. 5-8), così come, appunto, si rievoca una larva notturna. L’interpretazione che Massimo Stella dà al notturno shakespeariano, in particolare per quanto riguarda Romeo & Juliet, è funzionale anche per questo passaggio tassiano:

La scena di Romeo & Juliet è duplice: diurna e notturna. È come un gioco di cerchi inizialmente sovrapposti, che, poi, progressivamente, si separano e vengono dunque ad opporsi finché uno dei due, diventando sempre più potente, inghiotte l’altro: il cerchio della notte divora il cerchio del giorno, per sempre. Il cerchio diurno è la città, quello notturno è il bosco. Dentro il perimetro del cerchio diurno, in città, si svolge la storia apparente, la storia pubblica e falsa. Dentro il perimetro del cerchio notturno, nel bosco, si svolge la storia segreta, quella vera.26

24 GIOVANNI GETTO, Nel mondo della «Gerusalemme», cit., p. 125. 25 Ivi, p. 126.

26 MASSIMO STELLA, Il romanzo della regina. Shakespeare e la scrittura della sovranità, Bulzoni Editore, Roma 2014, pp. 39-40.

160 Ed ecco palesarsi la «storia segreta, quella vera»: Tancredi vede Clorinda e «impetuoso» (XII 52, 5) la insegue. Clorinda fugge. Il movimento, appunto, è quello di un Apollo, di un dio, di un satiro, di un amante. Ma qui Tancredi non ha ancora riconosciuto Clorinda: quel che insegue è un nemico sconosciuto. Un nemico che è rappresentante del mondo igneo e notturno, che noi sappiamo aver rifiutato espressamente di schierarsi dalla parte del santo protettore («Quella fé seguirò che vera or parmi,/ che tu co ’l latte già de la nutrice/ sugger mi fêsti e che vuol dubbia or farmi;», XII 41, 2-4), che cela, come si è visto fino a qui, le fattezze di una Grande Madre. Ciò che è fortemente legato al mondo igneo,27 che si oppone a san Giorgio per antonomasia, che è segno della Grande Madre, è il serpente:

Il drago o il serpente sono la Grande Madre stessa. Tra i primi draghi mitici, Tiamat non è che una delle forme della Dea, come quello ucciso da Perseo lo è di Andromeda-Astarte […].

In quanto forma teriomorfa della Dea e daimon della fertilità, il drago-serpente non è dunque, nello spazio di Clorinda e della Madre, una presenza straordinaria bensì una componente fondamentale che espande la portata simbolica dell’icona […].28

C’è un legame sotterraneo che nelle Metamorfosi di Ovidio lega il serpente alla ninfa: il racconto di Apollo e Pitone che causa, di fatto, il folle innamoramento del dio per Dafne. È a motivo della morte di Pitone, e della superbia di Apollo, che il dio subisce la vendetta di Amore (Ov., Met., I 452-567). Solo in quanto sauroctono Apollo si innamora di Dafne. E Clorinda, colei che «deve» morire (XII 64, 2), è colei che deve, al tempo stesso, subire lo stesso percorso di Pitone e, come Dafne, farsi albero. Clorinda è tentazione e peccato di Tancredi; è «mostro» (XII 24, 4);29 è Medusa e drago dal sangue di dracontite.30 Comprendiamo allora meglio l’oscuro presagio avuto da Arsete in sogno:

Ier poi su l’alba, a la mia mente oppressa d’alta quiete e simile a la morte,

nel sonno s’offerì l’imago stessa,

ma in più turbata vista e in suon più forte: «Ecco,» dicea «fellon, l’ora s’appressa che dée cangiar Clorinda e vita e sorte: mia sarà mal tuo grado, e tuo fia il duolo.» (XII 39, 1-7)

Clorinda deve diventare ‘sua’, del santo: e non solo ‘mal grado’ di Arsete, ma ‘mal suo grado’, di Clorinda stessa, che ribadisce di non voler cambiare né «vita» né «sorte» (XII 39, 6) quando Arsete le chiede di farlo. La regina d’Etiopia, subito prima di morire, si volge a san Giorgio dicendo: «Tu, celeste guerrier, che la donzella/ togliesti del serpente a gli empi morsi» (XII 28, 1-2); nel dipinto che

27 VLADIMIR JAKOVLEVIČ PROPP, Op. cit., cit., pp. 343-446. 28 PAOLO BRAGHIERI, Op. cit., p. 130.

29 Supra, I.1. 30 Supra, I.3.4.

161 la regina ha dinanzi agli occhi, la fanciulla è «presso un drago avinta» (XII 23, 4). Vergine e drago sono tutt’uno, come emerge tra le righe della leggenda riscritta da Iacopo da Varagine in particolare, in cui il segno della cintura che la principessa lega intorno al collo del drago ha un valore forte di cessazione di una precedente identità e di acquisizione di una nuova, e in cui la scomparsa dalla scena della principessa, che corrisponde all’uccisione del drago, sembra significare, in ultimo, una sovrapposizione, una identificazione delle parti.31 E perché il santo possa accogliere la promessa della regina, ecco ciò che deve fare: «Se costui [san Giorgio] liberava la bella vergine dal drago, Tancredi dovrà uccidere quanto essa [Clorinda] abbia in sé di mostruoso».32 E che cos’ha «di mostruoso» Clorinda? Güntert non lo esplicita, ma noi lo abbiamo visto fino a qui. L’argomentazione di Francesco Ferretti conferma la natura ‘peccaminosa’, e quindi dragonesca, di Clorinda: «In quanto pagana e affidata al peccato [Clorinda] viene trafitta, come il drago».33 E in effetti è quel che intende anche Güntert, che prosegue la propria argomentazione: «Tancredi dovrà uccidere quanto essa abbia in sé di mostruoso, perché possa sprigionarsi da lei la forma armoniosamente composta».34 Quel che resta di Clorinda lo vedremo a breve.35 Ciò su cui invece vogliamo soffermarci qui è l’idea, sostenuta da Braghieri, Ferretti e Güntert, che Clorinda sia il drago, il mostro, che una forma di eroe ‘solare’ deve uccidere.36 Che la morte di Clorinda sia necessaria è un fatto. Subito prima di citare la morte di Clorinda, Mazzacurati scrive: «Cavalieri cristiani ed eroine pagane attratte nella loro orbita si muovono sulla scena del poema sepolti sotto insegne, armature, simboli, travestimenti; e quando affiorano dalla prigionia delle vesti, è quasi sempre per affrontare un rito sacrificale».37 Clorinda- drago, colei che ha colpito Goffredo, deve sottoporsi a un rito perché infine il campo cristiano possa risollevarsi, come una sorta di esorcismo. E l’unico che può, che deve farlo, è colui che più di tutti ne subisce l’incanto. «Clorinda è vittima cosmica», dice Salvaneschi.38 E Tancredi, a tutti gli effetti “dragon-slayer”, dovrà muoversi «in una dimensione schizofrenica all’intersezione di due mondi»39 prima di potere – e se potrà – tornare a se stesso.

Clorinda perciò non è solo il drago, ma è anche la vergine. E in quanto tale, subisce il duello – notturno, perturbante – in modo del tutto differente rispetto ai combattimenti compiuti da lei stessa

31 Rimando qui a due miei articoli e relativa bibliografia: Di un eroe, di una principessa e di un cane, cit., pp. 182-196;

Una cintura in filigrana. San Giorgio, la principessa e il drago tra Iacopo da Varagine e Tintoretto, in Ut pictura poesis. Il testo, le immagini, il racconto, a cura di Sonia Maura Barillari e Martina di Febo, VirtuosaMente, Aicurzio 2018, pp.

315-326.

32 GEORGES GÜNTERT, Op. cit., p. 156. 33 FRANCESCO FERRETTI,Op. cit., p. 336. 34 GEORGES GÜNTERT, Op. cit., p. 156. 35 Infra, I.6.3-7.3.

36 A proposito dell’incontro tra l’eroe e la dea, che «è incarnata in ogni donna», si rimanda a JOSEPH CAMPBELL, L’eroe

dai mille volti, [1949], Lindau, Torino 2016, pp. 132-144.

37 GIANCARLO MAZZACURATI, Op. cit., p. 35.

38 ENRICA SALVANESCHI, “Gerusalemme liberata”, cit., p. 54. 39 PAOLO BRAGHIERI, Op. cit., p. 150.

162 fino a qui. Il duello si fa prima atto sensuale, inconsapevole per colui che tale atto andava cercando, che era pronto a spogliarsi nel campo di fronte a lei in pieno giorno; consapevolissimo per lei, che conosce Tancredi40 e che resiste:

Tre volte il cavalier la donna stringe con le robuste braccia, ed altrettante da que’ nodi tenaci ella si scinge, nodi di fer nemico e non d’amante. Tornano al ferro, e l’uno e l’altro il tinge con molte piaghe; e stanco ed anelante e questi e quegli al fin pur si ritira, e dopo lungo faticar respira. (XII 57)

Tancredi stringe «la donna» in una morsa che somiglia all’abbraccio. Clorinda si libera, perché, lo ribadiamo, qui Tancredi è «nemico», non «amante».41 Certo c’è un moto di sensualità, di vero erotismo, in questa pausa, nel respiro corto dei due. Tancredi comunque a ciò non bada – perché appunto, non sa, come il Tasso rimarca alla strofe 59. Pensa alla gloria:

– Nostra sventura è ben che qui s’impieghi tanto valor, dove silenzio il copra.

Ma poi che sorte rea vien che ci neghi e lode e testimon degno de l’opra, pregoti (se fra l’arme han loco i preghi) che ’l tuo nome e ’l tuo stato a me tu scopra, acciò ch’io sappia, o vinto o vincitore, chi la mia morte o la vittoria onore. – Risponde la feroce: – Indarno chiedi quel c’ho per uso di non far palese. Ma chiunque io mi sia, tu inanzi vedi un di quei due che la gran torre accese. –

40 Nonostante su questo punto la critica sia discorde, appare evidente dal testo che Clorinda conosca e riconosca Tancredi. Per una disamina su questo punto, rinvio a quanto riportato da MICHELE CROESE nella poderosa tesi di dottorato, presso l’Università di Genova (Facoltà di Lingue e Letterature Straniere), Tancredi e Clorinda al paragone. Genesi,

riformulazione, traduzioni e trasmutazione di un archetipo, pp. 287-302.

41 Mi sentirei di distaccarmi, in questo senso, dalla lettura dell’episodio fatta da Chiappelli, il quale sostiene che: «Non c’è più il “guerriero” e la “guerriera”, ma il cavalier e la donna; la forza di lui non sembra prevaricante né ostile: la stringe

con le robuste braccia, espressione che non implica necessariamente brutalità, e si colloca piuttosto al livello di una

virilità equilibrata; femminile è il gesto di lei, quando si scinge: e anche il gruppo plastico dei due insieme perde per un istante l’apparenza della lotta, nell’intensità ambigua dell’espressione da que’ nodi tenaci», Fredi Chiappelli in TORQUATO TASSO, Gerusalemme liberata, cit., nt. 1 a strofe 57, p. 505. Che «la forza di lui non sembra prevaricante né ostile» e che non ci sia implicata la brutalità sembra più il frutto di un’elaborazione mentale che della lettura del testo. Il Tasso ribadisce la posizione di Clorinda: Tancredi – che lei conosce, che riconosce, e che non vuole – è un «nemico». E l’atto dello sciogliersi dalla stretta può certamente essere un gesto «femminile», e verrebbe quasi da dire vezzoso, ma in altro contesto. Lo sciogliersi, il liberarsi, è il movimento tipico della ninfa che si sottrae alla violenza del satiro o del dio. La tesi di fondo che Chiappelli costruisce intorno a Clorinda ha diversi punti convincenti, che ho puntualmente riportato ove opportuno, ma l’argomentazione secondo la quale Clorinda si deve liberare della corazza per manifestarsi quale «immagine dell’evento nuziale», (FREDI CHIAPPELLI, Il conoscitore del caos, cit. p. 64) cioè come “trafitta vergine”, mi sembra limitante. Certo, Clorinda di fatto «vive una vita ninfale, preparatoria» (ivi, p. 60), ma forse non nel senso di “sposa mancata”. Piuttosto, di creatura mitica, di eterna vergine che subisce metamorfosi per preservare se stessa.

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Arse di sdegno a quel parlar Tancredi, e: – In tal punto il dicesti – indi riprese – il tuo dire e’l tacer di par m’alletta, barbaro discortese, a la vendetta. – (XII 61-62)

Ecco l’ultima possibilità per disvelarsi. Clorinda gode del volto della Gorgone. Potrebbe pietrificare Tancredi con il potere del proprio nome, o del proprio viso. Eppure non lo fa, e anzi, subito prima di venire uccisa, ribadisce il proprio ruolo di incendiaria – di portatrice del fuoco, al punto che perfino Tancredi, contagiato, ‘arde’ (XII 62, 5): come Ecate, Clorinda è pronta per attraversare il limen, perché «[…] ecco omai l’ora fatale è giunta/ che ’l viver di Clorinda al suo fin deve».