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Il canto XIII riprende ancora una volta – probabilmente per l’ultima volta – il parallelismo tra Clorinda e la torre: le «ceneri» di Clorinda (XII 97, 2) si rifrangono ne «l’immensa/ machina espugnatrice de le mura» ridotta «in cenere» (XIII 1, 1-2), quasi che per effetto omeopatico Clorinda, incendiaria della torre, sia infine diventata un tutt’uno con la torre stessa, come la regina d’Etiopia, felice abitante della torre, torre lei stessa. Il canto XIII sembra insomma aprirsi nel segno di un’assenza, di un annichilamento che non ha lasciato traccia dietro di sé. Come la torre, Clorinda è polvere. C’è però un subitaneo rivolgimento, un desiderio ardente di permanenza e di sopravvivenza ad ogni costo da parte del mondo pagano. Ed è così che a Ismeno viene un’idea. Bisogna impedire a

1 NADIA FUSINI, La luminosa, cit., p. 131. 2 GIOVANNA SCIANATICO, Op. cit., pp. 193-225.

3 ABY WARBURG, Il rituale del serpente, Adelphi, Milano 1998, p. 54.

4 Segnalo, in parallelo all’argomento principale di questo capitolo, il bel lavoro di ENRICA SALVANESCHI, L’alma pianta:

184 Goffredo di costruire un’altra torre – di attentare ancora una volta alla sicurezza delle mura, che nel frattempo vengono meticolosamente ricostruite (dopo essere state colpite da «l’impeto» degli arieti [XIII 16, 4], come Clorinda, appunto, dall’«impetuoso» Tancredi, [XII 52, 5]). Goffredo punta sulla ricostruzione delle macchine da guerra, e l’unica fonte di legname è la selva di Saron, luogo, a detta degli abitanti di Gerusalemme, di sabba, di raduni di streghe che giungono su cavalcature magiche come il caprone o, appunto, il drago (XIII 4, 3-4):

Così credeasi, ed abitante alcuno del fero bosco mai ramo non svelse; ma i Franchi il vïolâr, perch’ei sol uno somministrava lor machine eccelse. (XIII 5, 1-4)

Un alone di sacralità, nel senso più proprio del termine, circonda la selva. Il narratore stesso non è convinto che quello sia davvero un luogo di spiriti e stregonerie («Così credeasi», appunto); il fatto è, comunque, che a livello popolare nessuno ha mai osato toccare un ramo del bosco. Tale consuetudine non è osservata però dai Franchi, di cui si dice che «il vïolâr» (v. 3), che violarono il bosco; la stessa espressione si ritrova curiosamente sulle labbra di una cristiana che abbiamo già incontrato:

Qui comincia il tiranno a risdegnarsi; poi le dimanda: – Ov’hai l’imago ascosa? – Non la nascosi, – a lui rispose – io l’arsi, e l’arderla stimai laudabil cosa;

così almen non potrà più vïolarsi per man di miscredenti ingiurïosa. (II 24, 1-6)

La falsa incendiaria Sofronia – che tanto somiglia all’incendiaria Clorinda – reclama su di sé il diritto alla colpevolezza per aver bruciato l’effigie che sarebbe stata, altrimenti, ‘violata’ dai pagani, e il suo agire la rende martire. Ora, l’effigie sarebbe stata usata da Ismeno come arma contro i cristiani. Allo stesso modo, gli alberi della selva ‘sacra’ fungono da armi cristiane contro i pagani. La violenza dei due eserciti – che si riduce a segno e cenno alla strofe 5 del canto XIII – è speculare e non meno terribile se perpetrata da una fazione o dall’altra.5 E se l’effigie celeste, verosimilmente è stata celata dal Cielo o da un fedele (II 8-10) ed è scomparsa, la selva, in tutta la sua materialità – è infatti a motivo del suo essere potenzialmente ‘materiale da costruzione’ che è stata violata dai Franchi – subisce una metamorfosi di valore opposto. Non potendosi smaterializzare, si ‘spiritualizza’:

5 «[…] uno stesso istinto di crudeltà serpeggia nelle file cristiane: dietro l’ideologia della guerra santa traspare il volto della violenza e della strage messa in atto dalle “arme pietose” portatrici dell’ordine nuovo», GIOVANNA SCIANATICO,

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– Come il corpo è de l’alma albergo e veste, così d’alcun di voi sia ciascun legno, […]. –

Venìeno innumerabili, infiniti

spirti, parte che ’n aria alberga ed erra, parte di quei che son dal fondo usciti caliginoso e tetro della terra;

lenti e del gran divieto anco smarriti, ch’impedì lor di trattar l’arme in guerra, ma già venirne qui lor non si toglie e ne’ tronchi albergare e tra le foglie. (XIII 8, 3-4; 11)

Ismeno si rivolge a dei demonî («ministri […] de li eterni pianti», XIII 7, 6), ordinando loro di impossessarsi dei tronchi degli alberi. E così, quella che non può – non ancora – essere una guerra frontale diventa una guerriglia basata su astuzie e resistenze da parte, si direbbe, degli elementi naturali stessi che, vivificati, a quanto pare si oppongono fermamente alla ‘riconquista’. La strategia non dovrà durare indefinitamente. Ismeno ha uno scopo più a lungo termine, e aver stregato la selva serve solo a prendere tempo. Come infatti il mago ricorda al re, i pagani sono in attesa dell’«egizia gente» che venga ad aiutarli sul campo (XIII 14, 8). A questo punto, dopo aver stregato il bosco, in attesa dell’arrivo del perturbante mondo egizio, il terreno dell’Unheimlich è pronto:

La foresta, al confine tra mitologie classiche e tradizione popolare, simbologia dell’inconscio e regno dei morti, visualizza la zona oscura dell’inquietudine da attraversare, il luogo topico dell’erranza nel genere cavalleresco, che racchiude però, nel suo intrico labirintico di sentieri, la strada che conduce alla salvezza, alla «patria», alla città santa (solo l’accesso alla foresta può determinare, secondo l’intreccio, la liberazione di Gerusalemme).6

Attraversare la foresta diventa una necessità che Goffredo vede come priorità assoluta («[…] il pio Buglion non vòle/ che la forte cittade in van si batta,/ se non è prima la maggior sua mole/ ed alcuna altra machina rifatta./ E i fabri al bosco invia […]» (XIII 17, 1-5). Si è già visto che il capitano dell’esercito cristiano è stato promotore e ‘inventore’ delle macchine belliche (III 71); a quella notte insonne descritta nel III canto, passata a pensare ai preparativi per l’attacco alla città, si era contrapposta un’alba funebre, dedicata alla sepoltura di Dudone. A tale cerimonia senza dubbio doveva aver partecipato Tancredi stesso. Il segno della sepoltura di Dudone era il seguente: «A Dudon d’odorifero cipresso/ composto hanno un sepolcro a piè d’un colle» (III 72, 3-4). Goffredo pensava

6 Ivi, p. 123. Giovanna Scianatico si avvale della categoria freudiana dell’Unheimlich per affrontare in particolar modo il canto XIII della Liberata (pp. 126 sgg.). E in effetti, è verissimo che: «Ciascuno dei crociati […] ritrova il problema più proprio, più intimo del sé, nello spazio profano dell’estraneo, dell’eterno nemico; il “meraviglioso”, l’irrazionale esterno, il diabolico svela nella sua profondità il rovello interiore di ciascuno, i fantasmi della coscienza. È qui il motivo ultimo dell’inquietudine diffusa: la presenza dell’irrazionale dentro di sé, la paura concepita per l’esternarsi di qualcosa che si sente urgere nell’intimo, quel che vanamente la cultura dell’epoca si sforza di espungere e di esorcizzare», ivi, p. 131.

186 alla torre, e ornava il cipresso. Adesso, distrutta la torre, ritorna il cipresso – che si farà torre e vincerà Tancredi. Come dice Scianatico, nella selva bisogna attraversare l’inconscio, che forse potremmo chiamare altrimenti: Tancredi prima e Rinaldo poi dovranno affrontare non solo le inquietudini più sepolte, ma anche i segni più inquietanti, perturbanti, – l’Unheimlich, appunto – del femminile, un femminile che guarda alla morte o al corpo, ma non alla vita, e che inghiotte, o rischia d’inghiottire, nella paura o nel desiderio, la creatura frammentata che è l’uomo.

Goffredo manda i «fabri» (XIII 17, 5) come ha già fatto in precedenza per tagliare gli alberi e farne legname. Stavolta però qualcosa è cambiato: «Vanno costor su l’alba a la foresta,/ ma timor novo al suo apparir gli arresta» (XIII 17, 7-8). Lo schema, come si diceva, è parallelo a quello del canto III, strofe 71 e seguenti. La notte è il momento della pianificazione di una strategia, l’alba della presenza dell’albero – del cipresso di Dudone, nel canto III. E all’alba, che come si è visto al canto XII è peraltro momento di ascensione e dissolvimento di Clorinda, il marchio di Clorinda si manifesta:

Qual semplice bambin mirar non osa dove insolite larve abbia presenti, o come pave ne la notte ombrosa, imaginando pur mostri e portenti, così temean, senza saper qual cosa siasi quella però che gli sgomenti, se non che’l timor forse a i sensi finge maggior prodigi di Chimera o Sfinge. (XIII 18)

Il timore, apparentemente immotivato, dei «fabri» (XIII 17, 5) è comparato a quello del bambino che si trova di fronte ad apparizioni o, e forse si tratta di un dato ancora più inquietante, al buio. Nella foresta, coraggiosi uomini di guerra diventano indifesi (XIII 20-28). All’origine del terrore c’è l’immaginazione (XIII 18, 4): nulla, nella selva, è ciò che appare. Nulla è reale; o meglio, reale è l’incantamento, reali sono le presenze: i giochi di prestigio che creano, no. Si prepara uno scenario fittizio e peculiare, che evidentemente sembra già evocare una figura fantasmatica, dragonesca e mostruosa, indubbiamente liminare – come liminare è la Chimera e chi l’ha uccisa, Bellerofonte. Tancredi ha ucciso Clorinda. Tancredi si è rivestito dei tratti del melanconico, di Bellerofonte. E il melanconico, ricordiamo, ha a che fare per natura con i mostri, come ha scritto il Tasso stesso: «E per fermo non fu più faticosa operazione il vincer la chimera che ’l superar la maninconia».7 Aver ucciso la Chimera, uccidere la melanconia: due compiti ugualmente difficili, soprattutto considerando che non deve essere semplice il viaggio di ritorno di chi ha ucciso la Chimera, l’essere straordinario. Pensando poi che quella Chimera potesse esser Clorinda, il ritorno alla norma si fa forse ancora più

187 difficile. Come vincere la melanconia di chi ha ucciso la Chimera? Questa è una domanda a cui Tancredi ancora non sa rispondere.

Nello scenario della strofe 18 è evocata anche un’altra creatura mostruosa, femminile, liminare e metamorfica: la Sfinge. Il cenno alla Sfinge non è casuale. L’elemento del mostruoso si combina, in questo segno, con la sfera perturbante dell’Egitto antichissimo, enigmatico, teso alla morte. I due elementi della Sfinge e della Chimera si andranno mescolando nella scena che vede l’ultima apparizione di Clorinda nell’orizzonte della Liberata.

Tancredi, dopo la morte di Clorinda, si riveste più che mai della personalità del melanconico: di Bellerofonte, in particolare, uccisore della Chimera8 e in spregio agli dèi. Ecco qui che la Chimera compare per la prima volta sotto il profilo di Clorinda, insieme alla figura della Sfinge. La Chimera è il mostro sacrificato dall’eroe, il mostro complesso, antico, un nodo di presenze animali. La Sfinge è la creatura mostruosa che per eccellenza proviene dall’Egitto, un nodo su cui occorrerà tornare.9

«Il serpente può infilarsi nella terra e riemergerne. Il ritorno dalla terra, dove riposano i morti, e insieme la capacità di rinnovare la spoglia fanno del serpente il simbolo più naturale dell’immortalità e della rinascita».10 È davvero morta Clorinda, il serpente? La sua è davvero una pacificata, pacificante presenza nel luminoso aldilà? Ricordiamo che all’inabissarsi di Kore corrisponde l’emersione di Proserpina; che la donna – e in particolare, la donna-serpente, la donna- drago – quando violata, scivola nell’ombra della metamorfosi e prosegue in altra forma il proprio cammino. Da Clorinda non dovremmo aspettarci nulla di diverso.