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Ritornanza (parte II): il cavaliere «vinto»

Clorinda torna a suo modo dall’aldilà: torna in figura di incubo. Rappresentata come Pier delle Vigne, Clorinda, nel suo Inferno, non è colei che subisce la pena, ma colei, si direbbe, che la infligge. Infernale, appunto, è la ripetizione infinita dello stesso atto: potenzialmente infinita è la ripetizione del ferimento da parte di Tancredi.

Virgilio, mellifluo, invita Dante: «[…] Se tu tronchi/ Qualche fraschetta d’una d’este piante,/ Li pensier c’hai, si faran tutti monchi» (Inf., XIII 28-30). Dante ubbidisce al maestro, e provoca dolore ulteriore al povero Pier delle Vigne. Tancredi, dinanzi all’invito a non «turbar questa secreta sede» (XIII 39, 6), si ferma, medita, e poi assesta «con gran forza» un colpo alla scorza (XIII 41, 1). Se

28 DANTE DELLA TERZA, Op. cit., p. 411.

195 Dante agisce dietro al sadico invito di Virgilio, Tancredi fa da sé, irrazionalmente, e si condanna a ripetere – ancora e ancora – lo stesso gesto di violenza su Clorinda. Lo «spirto di fé, di carità, di speme» (XII 65, 6), quel «[…] non so che di flebile e soave» (XII 66, 6) che Tancredi aveva sperimentato alla morte e al battesimo di Clorinda cede a «[…] un non so che confuso» che «[…] instilla al core/ di pietà, di spavento e di dolore» (XIII 40, 7-8). Il canto XIII sembra essere una versione in chiasmo del canto XII, in cui la luce si ottenebra, e l’angelico si volge al demoniaco. Tancredi stesso, che abbiamo visto disperarsi per il dolore, sembra essere improvvisamente impermeabile all’esperienza passata, quasi si tratti di un eroe solare a prescindere, che colpisce il serpente ancor prima di riconoscerlo perché non sa farne a meno.29

Pierpaolo Fornaro ha ben messo in rilievo la funzione delle Arpie nei confronti dei dannati al canto XIII dell’Inferno dantesco: «Proprio dalle Arpie il suicida riceve, come estremo rimedio alla privazione della parola naturale, la ferita».30 La ὕβϱις di Tancredi, come quella di un’Arpia, è quella che strappa Clorinda al silenzio, la costringe alla parola; e va di pari passo con la ὕβϱις dei crociati.31

29 Interessante, in questo ambito, la lettura che dà Scianatico all’episodio: «Il gesto violento di Tancredi è la ripetizione del rito – erotico – di morte, compiuto sul corpo di Clorinda. Il passato rimosso viene richiamato in vita dalla coazione a ripetere che deriva da moti pulsionali profondi, in cui la sbarra della rimozione cambia segno al desiderio, trasformandolo in colpa e paura. L’albero che Tancredi colpisce è già Clorinda, già ne ha assunto, allo sguardo interpretante del cavaliere, il linguaggio e i lamenti», GIOVANNA SCIANATICO, Op. cit., p. 131.

30 PIERPAOLO FORNARO, Arpie, Servio e lamenti (Inf. XIII 15), in «Lettere italiane», XLVIII, 2, 1991, p. 177.

31 Si è già visto che il Tasso ha posto la violenza di entrambe le parti (guerrieri pagani e cristiani) al centro della sua opera. È difficile credere che una sensibilità pari a quella tassiana, così pronta a cogliere e soffrire le incoerenze e i nodi del credo cattolico e della Controriforma, non abbia riletto le cronache delle crociate comprendendone le criticità, le aporie. Da questo punto di vista, per quanto porti in un’altra direzione e s riferisca a un altro contesto storico e geografico, può essere significativa – e può cogliere un’atmosfera parallela, benché traslata in un altrove cronologico – la riflessione di MARTIN BERNAL inBlack Athena. The Afroasiatic Roots of Classical Civilization, vol. I: The Fabrication of Ancient Greece 1785-1985, Free Association Books, London 1987, pp. 121-122: «In 390 AD the temple of Serapis and the

adjacent great library of Alexandria were destroyed by a Christian mob; twenty-five years later, the brilliant and beautiful philosopher and mathematician Hypatia was gruesomely murdered in the same city by a gang of monks instigated by St. Cyril. These two acts of violence mark the end of Egypto-Paganism and the beginning of the Christian Dark Ages». La tesi di fondo di Bernal è molto controversa, e questo non è il luogo per affrontarla. La vicenda di Tancredi e di Clorinda sembra però, almeno in qualche misura, ribadire questa inquietante e atroce realtà. C’è stato un filone della cristianità – quella non più perseguitata ma perseguitante, quella non più volta a un Regno dei cieli ma ai regni degli uomini – che ha incarnato una congerie di violenza che nulla aveva del cristianesimo delle origini – durato davvero troppo poco e velocemente sovvertito e pervertito. Ipazia, e la fine di un mondo pagano con lei, ne subiscono la implacabile, fanatica sete di sangue – e ai fini di questo lavoro potrebbe far pensare il fatto che questo avvenga, a quanto pare, proprio sulla scorta di quello che sarebbe poi stato considerato un santo, Cirillo. Clorinda subisce la stessa sorte quale simbolo di un mondo sull’orlo della conquista, quello che il Tasso definisce ‘pagano’ e che vive a Gerusalemme – quella stessa Gerusalemme che verrà inondata di sangue da Goffredo stesso. Il ferimento reiterato di Clorinda sembrerebbe perciò esemplificare con il segno – senza esplicitarlo, ma facendo uso, per così dire, di un ‘geroglifico’ – questa sorta di ferocia animale e irrazionale. Tale sentimento contribuirebbe a spiegare il perché del continuo lavorìo tassiano intorno a quest’opera, e la continua esigenza di subire i controlli di amici e addetti ai lavori: c’è, al fondo della Gerusalemme, qualcosa di intangibilmente eretico, e forse la figura di Clorinda, più di altre, sintetizza, a segni, non a parole, questo miserioso e inquieto quid.

Va peraltro rilevato che il cartiglio in cui Mantegna avvolge Dafne nel suo dipinto è un’invocazione alla virtù che deve opporsi alla mostruosità del vizio. Se è vero che Clorinda è per eccellenza la creatura ‘mostruosa’ della Liberata, è altresì vero che Tancredi assume spesso le caratteristiche di lei, fino ad assurgere, appunto, al ruolo dell’Arpia. La ‘virtù’ della verginità di Clorinda è continuamente insidiata dalla mostruosità della violenza di Tancredi.

196 Tancredi dichiara così guerra a una Dafne incubica, ritornante, e dalla perturbante purità. Il ruolo persecutorio che ricopre si ritorce però contro di lui:

Qual l’infermo talor ch’in sogno scorge drago o cinta di fiamme alta Chimera se ben sospetta o in parte anco s’accorge che ’l simulacro sia non forma vera, pur desia di fuggir, tanto gli porge spavento la sembianza orrida e fera, tal il timido amante a pien non crede a i falsi inganni, e pur ne teme e cede. E, dentro, il cor gli è in modo tal conquiso da vari affetti che s’agghiaccia e trema, e nel moto potente ed improviso

gli cade il ferro, e’l manco è in lui la tema. Va fuor di sé: presente aver gli è aviso l’offesa donna sua che plori e gema, né può soffrir di rimirar quel sangue né quei gemiti udir d’egro che langue. Così quel contra morte audace core nulla forma turbò d’alto spavento, ma lui che solo è fievole in amore falsa imago deluse e van lamento. Il suo caduto ferro intanto fore portò del bosco impetüoso vento, s che vinto partissi; e in su la strada ritrovò poscia e ripigliò la spada. (XIII 44-46)

«Trafitto»,32 come il melanconico, come Bellerofonte, dal proprio mostro dopo aver trafitto a sua volta, Tancredi si ritrova infine, per l’ultima volta, dinanzi al suo drago, alla sua «alta Chimera» (XIII 44, 2; da notare il richiamo ennesimo all’altezza, alla verticalità, alla grandezza, alla sproporzione), quella che di Clorinda ha solo il nome, che è proiezione di sé – ma questo, ai fini di una lettura del segno mitico, non ha importanza. Tancredi «sospetta o in parte anco s’accorge/ che ’l simulacro sia non forma vera» (XIII 44, 3-4), ma la sua reazione non cambia. Del resto, giunti fino a qui, conosciamo già le due espressioni «simulacro» e «non forma vera», le abbiamo già trovate riguardo a Clorinda, e abbiamo già visto che la natura di esse era solo l’ennesima conferma della natura fantasmagorica, fantasmatica della vergine guerriera. In qualità di «simulacro» (VII 100, 1), Clorinda – Belzebù nei panni di Clorinda – dà inizio a una guerra; e in quanto «non vera Clorinda» (VI 112, 2), la forma di Clorinda (Erminia) trascina via Tancredi, privando Goffredo dell’ultimo fiore della cavalleria e lasciando Argante campione del campo.33 La forma, anzi, per quanto non vera, simulata, nella Liberata coincide con la realtà – forse non con la verità, ma la verità non è l’assillo di Tancredi.

32 TORQUATO TASSO, Il Messaggiero, in Dialoghi, cit., vol. I, p. 19. 33 Supra, I.4.3-4.

197 E infatti, benché non credendo «a pieno» (XIII 44, 7), «pur ne teme e cede» (XIII 44, 8). La perdita della spada è in questo contesto molto significativa: Tancredi, «fuor di sé» (XIII 45, 4), perde il segno della propria identità. L’uccisore del drago non riesce a uccidere il mostro che sta in agguato, che attacca dall’interno. La foresta invitta sputa fuori quell’ultimo segno di lui, e si richiude alle sue spalle, imperturbata, impenetrabile:

l’avventura dei crociati nella foresta della magia diabolica equivale a una discesa agli inferi […]. […] il rito iniziatico dell’Eneide comporta un processo di rinnovamento che giunge al suo termine, nella terra degli Elisi, dopo un ciclo di prove della coscienza infelice, mentre nella Gerusalemme l’iniziazione si arresta, l’ostacolo non viene superato: prevale il disordine e l’impuro, che solo Rinaldo potrà rimuovere più tardi.34

Clorinda resta non-morta. Si pietrifica il momento in cui era morente nell’endecasillabo «né quei gemiti udir d’egro che langue» (XIII 45, 8), che è pendant prezioso del «piè» che «manca egro e languente» (XII 64, 8). L’immagine di Clorinda nel momento che precede la morte è confitto nella mente di Tancredi, e il suo è un continuo, pressante riproporsi con scarne variazioni sul tema.

Tornato al campo cristiano, Tancredi si presenta di fronte a Goffredo, e dopo aver brevemente raccontato la prima parte dell’avventura, quella dell’attraversamento della città infuocata, aggiunge:

Di più dirò: ch’a gli alberi dà vita spirito uman che sente e che ragiona. Per prova sollo; io n’ho la voce udita che nel cor flebilmente anco mi suona. Stilla sangue de’ tronchi ogni ferita, quasi di molle carne abbian persona. No, no, più non potrei (vinto mi chiamo) né corteccia scorzar, né sveller ramo. (XIII 49)

Tancredi non nomina Clorinda – è Clorinda, abbiamo visto, ad aver nominato lui. La sua presenza vegetale è numinosa e terribile. La sua permanenza, in qualunque forma, è disturbante e non dà pace. Al cavaliere non resta perciò che chiamarsi vinto (fortissima è l’espressione «vinto mi chiamo», XIII 49, 7, con cui definisce se stesso) e sostenere, dinanzi a Goffredo, che non entrerà più nella selva. La guerra, apparentemente, è perduta. Tancredi non sa sconfiggere il proprio albero – che come ricorda Jung è segno materno, ancestrale e problematico, e può portare l’uomo alla follia.35 Verrà Rinaldo a

34 EZIO RAIMONDI,I sentieri del lettore, cit., vol. I, p. 505.

35 «Nei misteri di Ecate si usava spezzare una verga chiamata leukόphyllos [dalle bianche foglie]. Questa vera proteggeva la purezza delle vergini e rendeva folle chiunque la toccasse. Ritroviamo qui il motivo dell’albero sacro che […] non poteva essere toccato; solo un pazzo avrebbe osato farlo», CARL GUSTAV JUNG, Simboli della trasformazione, cit., pp. 360-361; e in effetti, Tancredi, già «forsennato» (XII 77, 2), «[v]a fuor di sé» (XIII 45, 5) dopo aver percosso il cipresso e ascoltato la voce di Clorinda. Interessante e rilevante è, di nuovo, il riferimento a Ecate che si affianca alla figura della vergine guerriera.

198 combattere vittoriosamente il proprio mirto-Alcina. Eppure il segno del cipresso ha ancora un’ultima cosa da dire. Per ascoltarne la flebile voce, bisogna volgersi ancora una volta a Ovidio, a Ciparisso, e più in particolare a come questa storia fu interpretata da un grande bulimico del mito, Marino:

In epoca barocca si tentò anche un’altra interpretazione allegorica della vicenda di Ciparisso che così riassunse il cavalier Marino nell’Allegoria che precede il canto quinto dell’Adone: «Per Ciparisso mutato in cipresso, siamo avvertiti a non porre con ismoderamento la nostra affezione alle cose mortali, acciocché poi mancandoci, non abbiamo a menar la vita sempre in lacrime ed in dolori». Il poeta, sulla scia di Ovidio, cantava la metamorfosi:

Sorge piramidal tronco funesto, rozzo legno si fan polpe e l’ossa.

Verdeggia il crin frondoso e quanto al resto tutta da lui l’antica forma è scossa.

Funeral pianta e tragica diviene e, quant’uom desiava, arbore ottiene.36

Questa la lettura del mito di Ciparisso da parte del Marino: il cipresso (da notare l’aggettivo «piramidal» al primo verso, che non si trova in Ovidio) come espressione ultima di un attaccamento smodato alle cose del mondo. E come fa notare Michele Tallero, a legare Ciparisso a Dafne, appunto, è Apollo, il sauroctono, che nel primo caso concede, e nel secondo causa, la metamorfosi.37 Aveva dunque ragione Pier l’Eremita, nella sua impietosa sentenza contro Clorinda? Tancredi, nel suo attaccamento a Clorinda, manifestava oltraggiosamente un eccesso di affezione «alle cose mortali»? Clorinda è separata da un velo dall’universo degli uomini: figlia dell’imaginatio, «novo mostro» (XII 24, 4), Gorgone, dea, ninfa, è la contraddizione dell’alterità, è l’erede di san Giorgio, è il serpente, è l’angelicata e la demoniaca. È, in una parola, il sacro. E il sacro apre mondi su cui spesso si perde il controllo. Il sacro fa paura, e trattarlo, sondarlo, in un periodo come quello della Controriforma, era aventure ancora più temibile. Che il Tasso ha affrontato con coraggio, penetrando fino ai più fondi, oscuri, opaci recessi: forse, però, non potendone emergere più.

36 ALFREDO CATTABIANI, Op. cit., p. 177.

37 MICHELE TALLERO,Sulla figura della donna albero in Andrea Mantegna, ovvero Minerva scaccia i Vizi dal giardino, in «Hebenon. Rivista internazionale di letteratura», 3, 6, Maggio 2006, p. 128.

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