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Molto ha fatto discutere il secondo canto della Gerusalemme liberata, e in particolare l’episodio di Olindo e Sofronia:23

L’episodio di Olindo e Sofronia è stato sempre segno di contraddizione nel giudizio della critica. Già al tempo della revisione del poema da parte della commissione eletta dallo stesso poeta esso fu insistentemente censurato per un duplice ordine di considerazioni: morali, in quanto l’episodio sembrava troppo profano; e artistiche, in quanto esso appariva disforme dall’intonazione epico-eroica e non strettamente connesso con la

favola, cioè con la trama del poema.24

20 Sull’immagine serbata della donna, cfr. il sonetto cavalcantiano Veggio negli occhi de la donna mia, in particolare ai vv.10-11: dall’immagine di lei «ne nasce un’altra di bellezza nova,/ da la qual par ch’una stella si mova». In Poesie dello

stilnovo, (cit., 23, p. 161) Berisso glossa questi due versi: «[D]alla bellezza disincarnata dall’oggetto che pure la origina

si passa qui infatti a una bellezza assoluta, quasi trascendente (per questo “nova”, ‘straordinaria’: perché non è dato normalmente agli uomini di farne esperienza)». Sempre sulla scorta cavalcantiana, infine, si confronti l’esito di questo episodio («E ben nel volto suo la gente accorta/ legger potria: “Questi arde, e fuor di spene”», GL, I 49, 1-2) con le ultime due terzine del sonetto Li mie’ foll’occhi, che prima guardaro, in cui si ritrova la «gente» (v. 10) che osserva il poeta innamorato e dice: «Fatto sé di tal servente,/ che mai non dèi sperare altro che morte».

21 Cfr. GIORGIO PETROCCHI, I fantasmi di Tancredi, Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta-Roma 1972, in particolare pp. 67-75.

22 PAOLO BRAGHIERI,Op. cit., p. 39.

23 Si rimanda, per uno studio sintetico e puntuale in merito all’espunzione dell’episodio di Sofronia e Olindo, a GEORGES GÜNTERT, Op. cit., p. 81 sgg.

52 E a quanto pare, il Tasso per primo sembrava che sentisse esserci qualcosa di più dietro a questo episodio, come si legge ad esempio nella lettera LXV a Luca Scalabrino:

Parlando a lo Sperone, desidero che li diciate ch’io m’induco a rimover l’episodio di Sofronia, non perch’io anteponga l’altrui giudizio al suo, dal quale fu accettato per buono; ma perch’io non vorrei dar occasione a i frati co quella imagine, o con alcune altre cosette che sono in quell’episodio, di proibire il libro. E certo, in quanto a quel c’appartiene a l’arte, io persisto ancora ne la mia opinione: ma veggio che costoro giudicano che ci siano soverchi amori; e non vorrei dar loro alcun pretesto da sfogarsi contra l’amore.25

Tasso ha timore che il libro venga «proibito» a motivo dell’episodio di Sofronia, che poi decide di non eliminare. L’episodio insomma risulta disturbante, a tutta prima, come già evidenziato da Sozzi, perché giudicato «profano» e «disforme» rispetto all’insieme. Entrambe le motivazioni, comunque, appaiono sospette. Molto materiale della Gerusalemme può essere giudicato «profano», e sulla «disformità» si resta perplessi: in fondo, è un episodio come un altro che serve a spiegare, volendo, la malvagità del campo nemico, la superiorità del pantheon cristiano e la rettitudine morale di Clorinda. Nonostante le paure, giustificate o meno, della censura, Tasso non abbandona l’episodio, anche se molto ne discute in varie lettere. Arriverà a farlo solo con la Conquistata.

Si può concordare con Güntert, che afferma: «Se il Tasso, sulle prime, esitava a sacrificare l’episodio e se, infine, nonostante la quasi generale condanna, si risolvette a salvarlo, è perché sapeva che vi era in gioco la stessa concezione poetica della Liberata»,26 e trovo indubbiamente interessanti le ragioni che il critico espone in merito: per Güntert, l’episodio di Sofronia e Olindo è esplicativo della poetica stessa della Liberata, tra epos e romanzo. Credo però sia necessario intendere l’episodio nella sua interezza, in particolare considerando la parte del canto II che è forse tra le più trascurate dagli studi sulla Liberata, la parte iniziale sull’effigie della Dea, quella che evidentemente, e più di tutte, il Tasso e i suoi censori percepivano come problematica; ricordiamo, il Tasso stesso scrive: «perch’io non vorrei dar occasione a i frati co quella imagine, o con alcune altre cosette che sono in quell’episodio, di proibire il libro».27 All’interpretazione di Güntert, interessante e convincente, andrebbe forse aggiunto un terzo punto per completare il quadro, un punto fondamentale, che soggiace all’intera Gerusalemme: tra il romanzo e l’epos, non bisogna scordare la rilevanza del mito. E in tale luce è necessario provare a rileggere il II canto, tenendo bene a mente che l’episodio dell’effigie, antecedente a quello di Sofronia e Olindo e fortemente legato a esso, doveva rivestire

25 TORQUATO TASSO, Lettere, a cura di C. Guasti, Le Monnier, Firenze 1854, vol. I, p. 164; si veda anche TORQUATO TASSO, Lettere poetiche, a cura di Carla Molinari, Fondazione Pietro Bembo / Guanda, Milano-Parma 1995, XLII, p. 406.

26 GEORGES GÜNTERT, Op. cit., p. 82.

27 TORQUATO TASSO, Lettere, a cura di C. Guasti, cit., vol. I, p. 164; Lettere poetiche, a cura di Carla Molinari, XLII, p. 406.

53 grande importanza per l’autore se, nonostante i timori ricorrenti dell’Inquisizione, sceglie di non rinunciarvi fino alla scrittura della Conquistata. Paolo Braghieri si è espresso a proposito dell’episodio dandone un’interpretazione affascinante, e che potrebbe giustificare tanto clamore e tanti dissidi interiori da parte dell’autore.

Il malvagio mago Ismeno, cristiano convertito all’Islam, usa l’evocazione spiritica a favore del re Aladino. Perché la sua magia diventi ancora più potente, Ismeno fa al re una richiesta particolare:

Nel tempio de’ cristiani occulto giace un sotterraneo altare, e quivi è il volto di Colei che sua diva e madre face quel vulgo del suo Dio nato e sepolto. Dinanzi al simulacro accesa face

continua splende; egli è in un velo avolto. Pendono intorno in lungo ordine i voti che vi portano i creduli devoti. Or questa effigie lor, di là rapita, voglio che tu di propria man trasporte e la riponga entro la tua meschita: io poscia incanto adoprerò sì forte ch’ognor, mentr’ella qui fia custodita, sarà fatal custodia a queste porte; tra mura inespugnabili il tuo impero securo fia per novo alto mistero. (II 5-6)

Ismeno descrive un altare sotterraneo che «occulto giace» (II 5, 1) nella chiesa. Presso l’altare si trova un «volto» che appartiene a una «diva», «madre» del «Dio nato e sepolto» (II 5, 2-4). Il volto è illuminato da una luce perpetua, coperto da un velo e circondato da ex voto (II 5, 5-8). Questa è l’effigie dei cristiani, l’immagine del volto della Signora.

Il lettore che per la prima volta ha il piacere di immergersi nella Gerusalemme non può prevedere che questo episodio sia quello che racconta della seconda apparizione di Clorinda, e quindi difficilmente presta attenzione ai richiami all’episodio precedente (I 45-48). Come si è già visto, Clorinda si manifesta all’improvviso, e come un ‘puro volto’; Tancredi ne serba solo l’«imagine» (I 48, 5). Partendo perciò dal presupposto che nel mito vari personaggi con vari ruoli equivalgano a uno solo, Braghieri afferma che:

L’immagine che inizialmente cela dietro il velo i tratti del volto divino, assumerà alla fine passando per Sofronia i lineamenti di Clorinda senza per questo che il testo indichi tra queste forme alcuno scarto qualitativo. […]. Sostanzialmente i caratteri dell’immagine ripetono le precauzioni adottate dal testo nei riguardi della guerriera pagana: una coincidenza che difficilmente può considerarsi casuale. La sottrazione dell’effigie, il tentativo di assegnarle una nuova e diversa collocazione e la conclusiva consacrazione che risolve – confermata dal sacrificio – ogni appartenenza profana, anticipano

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chiaramente ed equivalgono le fasi del processo di sacrificazione cui il testo sottopone Clorinda, e con lei Tancredi28.

Pertanto, l’effigie della dea e quella di Clorinda si legano, e la prima ‘parla’ della seconda, in quella «scorporeizzazione»29 che caratterizza Clorinda dinanzi a Tancredi, e l’effigie stessa. Per comprendere meglio questa intuizione che in seguito verrà dimostrata da Braghieri, però, occorre prima soffermarsi su un altro aspetto dell’effigie: la «fisionomia cultica ed iconografica chiaramente modellata su quella tradizionale della Grande Madre».30

Braghieri, nella nota 29, pp. 162-164, sintetizza i caratteri principali di questa divinità ancestrale ed evidenzia la ripresa di tali caratterizzazioni all’interno di uno dei Dialoghi del Tasso, Il conte overo

de ’l imprese, in cui l’autore stesso sovrappone ai simboli della Grande Madre quelli della Vergine.

Braghieri propone una breve rassegna che descrive la dimensione ctonia, il simbolo del velo e del fuoco, gli ex voto e il parto virginale legato alla morte del dio quali elementi preminenti della Grande Madre.31

Senz’altro è vero quanto afferma Chiappelli a proposito dell’imbarazzo di Ismeno nello spiegare al re il proprio credo precedente, ma la spiegazione del critico secondo il quale «madre si connette con nato, mentre diva, che richiamerebbe “immortale”, si scontra col paganamente negativo

sepolcro»,32 sembra non lasciare emergere appieno l’elemento perturbante del chiasmo. La «diva» è messa veramente sullo stesso piano delle madri divine che hanno generato il giovane dio morto: la coppia Cibele-Attis è un esempio su tutti.

Il fatto che l’effigie sia sottoterra, in un reame ctonio, verosimilmente roccioso (una grotta, o simili), riporta, peraltro, al mito frigio di Attis così come viene raccontato nell’Adversus nationes di Arnobio,33 in cui la roccia Agdos assume la forma della Grande Madre e genera, dal seme di Zeus, il

28 PAOLO BRAGHIERI, Op. cit., pp. 41-42. 29 Ivi, p. 43.

30 Ibidem.

31 A proposito della Grande Madre Cfr. NADIA FUSINI, Op. cit., pp. 123-131. 32 Fredi Chiappelli in TORQUATO TASSO, Gerusalemme liberata, cit., nt. p. 82.

33 Si inserisce qui il racconto di Arnobio, dato l’indubitabile interesse dell’argomento e la relativa difficoltà a reperire un testo di non vasta diffusione: Apud Timotheum, non ignobilem theologorum virum, nec non apud alios aeque doctos super

Magna deorum Matre superque sacris eius origo haec sita est, ex reconditis antiquitatum libris et ex intimis eruta, quemadmodum ipse scribit insinuatque, mysteriis. In Phrygiae finibus inauditae per omnia vastitatis petra, inquit, est quaedam, cui nomen est Agdus, regionis eius ab indigenis sic vocata. Ex ea lapides sumptos, sicut Themis mandaverat praecinens, in orbem mortalibus vacuum Deucalion iactavit et Pyrra, ex quibus cum ceteris et haec Magna quae dicitur informata est Mater atque animata divinitus. Hanc in vertice ipso petrae datam quieti et somno quam incestis Iuppiter cupiditatibus adpetivit, sed cum obluctatus diu id quod sibi promiserat optinere nequisset, voluptatem in lapidem fudit victus. Hinc petra concepit, et mugitibus editis multis prius mense nascitur decimo materno ab nomine cognominatus Acdestis. Huic robur invictum et ferocitas animi fuerat intractabilis, insana et furialis libido et ex utroque sexu; vi rapta divastare, disperdere, immanitas quo animi duxerat; non deos curare, non homines, nec praeter se quicquam potentius credere terras caelum et sidera continere.

Cuius cum audacia quibusnam modis posset vel debilitari vel conprimi saepenumero esset deorum in deliberatione quaesitum, haesitantibus | ceteris huius muneris curam Liber in se suscipit. Familiarem illi fontem, quo ardorem fuerat suetus et sitiendi lenire flagrantiam ludo et venationibus excitatam, validissima succendit vi meri. Necessitatis in tempore haustum accurrit Acdestis, immoderatius potionem hiantibus venis rapit: fit ut insolita re victus soporem in altissimum

55 mostro bisessuale Agdistis, dal cui sangue, caduto dopo l’evirazione del membro, nasce un albero, che produce un frutto. Il frutto viene colto da Nana (secondo il Kerényi, altro nome della Grande Madre),34 la figlia del re o del dio del fiume, e posto nel suo grembo. Da qui nasce Attis. Ecco dunque che il giovane dio che nasce e muore dalla vergine, che è una Grande Madre, una divinità delle rocce, del sottosuolo, ha echi lontanissimi, e molto più che ‘paganeggianti’. La misura pagana intravista da Chiappelli, dunque, è molto più pervasiva. E, a riprova ulteriore di questo, sta l’affermazione di Ismeno: «io poscia incanto adoprerò sì forte/ ch’ognor, mentr’ella qui fia custodita,/ sarà fatal custodia a queste porte» (II 5, 4-6). Chi o che cosa sarà custode della città? L’immagine «custodita» o l’«incanto»? In senso stretto, naturalmente, sembrerebbe l’«incanto», ma il gioco di parole rimanda in realtà all’immagine. Come non pensare allora alle divinità femminili, più o meno terribili, che si facevano custodi delle città? Ad Atena dall’effigie della Gorgone35 a difesa di Atene, ad esempio? O ancora a Cibele, la dea dalla corona turrita?

La descrizione dell’effigie è indubbiamente un elemento sovversivo, potenzialmente ereticale, e questo il Tasso lo sapeva. In questa luce, è forse più chiaro quel che scrive nella lettera LXV già citata: «perch’io non vorrei dar occasione a i frati co quella imagine, o con alcune altre cosette che sono in quell’episodio, di proibire il libro». L’immagine, lungi dall’essere solo un tassello che dà colore all’episodio, è fulcro di esso e dei personaggi a cui si relaziona: Sofronia, e quindi Clorinda.

Accade poi quanto previsto, almeno inizialmente:

Sì disse, e ’l persuase; e impaziente il re se ’n corse a la magion di Dio, e sforzò i sacerdoti, e irreverente il casto simulacro indi rapio; e portollo a quel tempio ove sovente s’irrita il Ciel co ’l folle culto e rio. Nel profan loco e su la sacra imago susurrò poi le sue bestemmie il mago. (II 7)

deprimatur. Adest ad insidias Liber, ex setis scientissime conplicatis imum plantae inicit laqueum, parte altera proles cum ipsis genitalibus occupat. Exhalata ille vi meri corripit se impetu et adducente nexus planta suis ipse se viribus eo qua (vir) fuerat privat sexu. Cum discidio partium sanguis fluit inmensus, rapiuntur et combibuntur haec terra, malum repente cum pomis ex his punicum nascitur. Cuius Nana speciem contemplata regis Sangari vel fluminis filia carpit mirans atque in sinu reponit: fit ex eo praegnas. Tamquam vitiatam claudit pater et curat ut inedia moriatur: pomis atque aliis pabulis deum sustentatur a matre. Enititur parvulum. Sed exponi Sangarius praecipit: repertum nescio quis sumit [formas], lacte alit hirquino et quoniam Lydia <forma> scitulos sic vocat, vel quia hirquos Phryges suis attagos elocutionibus nuncupant, inde Attis nomen ut sortiretur effluxit. Hunc unice mater deum, ore fuerat quod excellentissimo, diligebat. <Diligebat> et Acdestis, blandus adulto comes et qua solum poterat minus rectis adsentationibus vinctum saltuosa ducens | per nemora et ferarum multis muneribus donans, quae puer Attis primo sui esse dicebat laboris atque operis glorians: per vinum deinde confitetur et ab Acdesti se diligi et ab eo donis silvestribus honorari; unde vino, quod silentium prodidit, in eius nefas est sanctum sese inferre pollutis, in ARNOBII, Adversus Nationes, Libri VII, Liber V, 3- 6, recensuit C. Marchesi, G. B. Paravia, Torino 1953, pp. 253-255.

34 KÁROLY KERÉNYI, Gli dèi e gli eroi della Grecia, [1951], traduzione di Vanda Tedeschi, il Saggiatore, Milano 2015, pp. 82-83.

35 «[Atena] era anche Gorgopide, “colei che ha il volto della gorgone” e portava il volto della gorgone sul petto», Ivi, p. 112.

56 Il mago ha convinto Aladino a commettere il furto dell’effigie. È però rilevante notare che mai di furto si parla, ma di rapimento; questo succede già nella strofe precedente («Or questa effigie lor, di là rapita,/ voglio che tu di propria man trasporte», II 6, 1-2), e il pensiero viene confermato ancora nella settima strofe («il casto simulacro indi rapio», II 7, 4). Già nella prima edizione del Vocabolario

della Crusca “rapire” significa «Torre con violenza, o contr’a ragione», e gli esempi in esso riportati

rimandano perlopiù all’azione violenta contro una fanciulla, come l’esempio di Piccarda Donati (Par. III, 107) o di Efigenia (Bocc., Dec., IV giornata, I novella). Ci sono pochi altri esempi, più generici, riportati dal Vocabolario della Crusca, ma qui vogliamo soffermarci un momento e considerare la scelta lessicale degli altri versi. Il re, «impaziente» (II 7, 1), «sforzò i sacerdoti» e «il casto simulacro indi rapio» (II 7, 4). Dopo aver portato l’effigie nella moschea, «su la sacra imago/ susurrò poi le sue bestemmie il mago» (II 7, 7-8). Si coglie, nella scelta dei termini, un indugiare sull’ambiguità. Ciò che accade all’effigie è quello che potrebbe accadere a una vergine desiderata dal re. Di particolare efficacia e ambiguità è poi l’immagine finale della strofe, in cui il mago sussurra bestemmie sopra l’effigie, in un atto verbale comparabile allo stupro del «casto simulacro», che viene come ‘sopraffatto’ anche da un punto di vista fisico.

L’effigie, pertanto, viene ‘rapita’ dal proprio altare sotterraneo, viene svelata, e portata in una moschea, in cui subisce l’ulteriore ‘stupro’ della bestemmia su di sé. Ciò che segue questa concatenazione di eventi è un movimento che, si vedrà, il Tasso mette continuamente in opera, e lo fa soprattutto nel caso del ‘rapimento’ e del ‘disvelamento’ di Clorinda:

Ma come apparse in ciel l’alba novella, quel cui l’immondo tempio in guardia è dato non rivide l’imagine dov’ella

fu posta, e invan cerconne in altro lato. Tosto n’avisa il re, ch’a la novella di lui si mostra feramente irato, ed imagina ben ch’alcun fedele abbia fatto quel furto, e che se ’l cele. O fu di man fedele opra furtiva, o pur il Ciel qui sua potenza adopra, che di Colei ch’è sua regina e diva sdegna che loco vil l’imagin copra: ch’incerta fama è ancor se ciò s’ascriva ad arte umana od a mirabil opra; ben è pietà che, la pietade e ’l zelo uman cedendo, autor se ’n creda il Cielo. (II 8-9)

Le due stanze descrivono un secondo ‘rapimento’, quello celeste, o presunto tale. All’alba l’effigie è sparita, e non è più possibile trovarla. L’immagine della vergine, una volta svelata, oltraggiata,

57 s’invola. Il narratore stesso sostiene di non sapere chi o che cosa abbia portato via l’effigie. Il punto è proprio questo: al di fuori della propria grotta, violata, la vergine scompare dalla vista, si sottrae al contatto del ladro, del rapitore: quasi che il possesso implichi e conduca, necessariamente, alla nullificazione o alla trasposizione su un altro piano del reale.