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Volgiamoci ora al campo di battaglia, il luogo di Clorinda per eccellenza:

Clorinda intanto ad incontrar l’assalto va di Tancredi, e pon la lancia in resta. Ferîrsi a le visiere, e i tronchi in alto volaro e parte nuda ella ne resta; ché, rotti i lacci a l’elmo suo, d’un salto (mirabil colpo!) ei le balzò di testa; e le chiome dorate al vento sparse,

giovane donna in mezzo ’l campo apparse. (III 21)

Ancora una volta il volto di Clorinda si fa protagonista assoluto della scena. Se il topos della caduta dell’elmo ha qualche precedente celebre, come la Bradamante dell’Innamorato (III, 5, 45),12 la tessitura tassiana si fa particolarmente preziosa, perché pone un elemento che si rivelerà molto più inquietante e pervasivo di quel che potrebbe essere considerato solo un riferimento cinquecentesco necessario: il richiamo petrarchesco.

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Qui l’aurea immagine delle chiome che attirano tutta la luce della scena vive in due versi che sono fra i più belli del Tasso: la capigliatura bionda fa una massa mobile (chiome dorate dà un’immagine più piena e ricca dell’immagine petrarchesca, più fine perché più ravvicinata e singolare, di «Erano i capei d’oro a l’aura sparsi», R. 90), anche perché si sciolgono all’aria dopo essere state rinchiuse nell’elmo; e proprio per questo sembrano riempire il campo, e affievolire tutte le altre forme circostanti. L’aperto

vento del campo di battaglia investe le chiome secondo una plastica concezione monumentale, e le fa

rilucere nel loro ricco movimento (rilievo di dorate) in modo da annunziare e giustificare l’ammirazione del prodigioso rivelarsi: «giovane donna in mezzo ’l campo apparse».13

Un estasiato Chiappelli ben spiega il legame con l’espressione petrarchesca dei «capei d’oro», benché voglia necessariamente stabilire un primato assolutamente non necessario tra due giganti della poesia. Validissima è l’immagine di luminosità che Chiappelli fornisce, e della prodigiosa rivelazione della donna sul campo.

Indubbiamente il verso «e le chiome dorate al vento sparse» (III 21, 7) risuona per chiunque affine a «Erano i capei d’oro a l’aura sparsi», ma vanno rilevate alcune importanti differenze. Chiappelli menziona il celeberrimo novantesimo componimento di Petrarca, ma si potrebbero aggiungere, sulla scorta dei suggerimenti di Marco Santagata nell’edizione da lui curata,14 CXXVII, 83-84; CXLIII, 9; CXCVI, 7-9; CCXLVI, 1-2. I capelli di Laura sembrano però muoversi in tutti questi versi quasi da sé, soffusamente, ‘botticellianamente’15 nell’aria che la circonda. Talvolta, è Laura stessa a scioglierli, a far sì che ondeggino all’intorno. È Laura, insomma, che si manifesta così, che si sceglie così, e quando vela il capo e i capelli lo fa per sdegno («ma poi ch’Amor di me vi fece accorta,/ fuor i biondi capelli allor velati,/ […] Quel ch’i’ più desiava in voi m’è tolto:/ sì mi governa il velo», RVF XI, vv.8-12). Nel caso di Clorinda, la rivelazione dei capelli è determinata dalla violenza, non da una scelta deliberata; il motivo dello scoprimento del capo è che l’elmo, cadendo, ha lasciato liberi i capelli all’aria, o meglio, al vento. Ecco una seconda differenza rilevante: Tasso ha scelto il termine «vento», evidentemente non per ragioni di metrica, ma per evocare la figura di Laura, svincolandosene subito. Non c’è «l’aura», non c’è Laura. C’è Clorinda, che appartiene a un altro mondo, almeno in parte: Tasso sceglie evidentemente di passare per Petrarca, autore da lui molto studiato e molto amato,16 ma per giungere a un altro approdo.

Santagata cita tra le fonti del verso «Erano i capei d’oro a l’aura sparsi» le Metamorfosi di Ovidio, libro I, verso 529, ma vediamone il contesto, ai versi 527-530. Ci troviamo di fronte a una Laura antica, e forse a un’antica Clorinda:

13 Fredi Chiappelli, in TORQUATO TASSO, Gerusalemme liberata, cit., nt. 1 alla strofe 21, p. 135.

14 FRANCESCO PETRARCA, Canzoniere, edizione commentata a cura di Marco Santagata, Mondadori, Milano 2006, p. 444. 15 Cfr. GIOVANNI GETTO, Nel mondo della «Gerusalemme», Bonacci editore, Roma 1977, p. 114; DANIELA FOLTRAN,

Canto III, in Lettura della «Gerusalemme liberata», a cura di Franco Tomasi, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2005, p.

60.

16 Si veda al riguardo FRANCESCA D'ALESSANDRO,Torquato Tasso e alcuni commenti cinquecenteschi al Petrarca, in «Aevum», 76, Fasc. 3 (Settembre-Dicembre 2002), pp. 737-759.

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Tum quoque visa decens: nudabant corpora venti, obviaque adversas vibrabant flamina vestes, et levis impulsos retro dabat aura capillos, auctaque forma fuga est. […].

(Ov., Met., I 527-530)

Ecco l’aura, ma, quel che interessa di più, i «venti». Ovidio parla di una ‘bella fuggitiva’, Dafne, su cui si dovrà tornare.17 Per ora basti sottolineare che Tasso sceglie lo scarto, più che l’acquisizione, e nello scarto, sceglie di non parlare di Laura, quasi che racchiuso in quel nome ci sia qualcosa di temibile. Questo, del resto, è quanto emerge da uno tra i Dialoghi, Il Cataneo overo de gli idoli, in cui il Forestiero Napoletano, che s’identifica apertamente col Tasso stesso («Io son Tasso», dice in una delle battute d’apertura), giunge a questa conclusione: «Abbiam conchiuso che gli amanti e i poeti i quali cantano d’amore sono quasi idolatri e formatori de gli idoli, come già confessò il Petrarca medesimo dicendo: L’idolo mio scolpito in vivo lauro». Risponde Alessandro Vitelli: «Dura conclusione: ma poi ch’è vostra, convien che piaccia».18 Sarà forse scontato menzionare il fatto che questo dialogo, molto duro nei confronti dell’idolatria e di tutto quel che sotto questo nome si possa raccogliere, sia stato scritto a Sant’Anna nel 1585, in una fase dell’esistenza del poeta in cui la parola ‘eresia’ aveva una portata spaventosa. Dice ancora il Forestiero Napoletano che: «[…] non ardisco di palesarvi il mio parere [a proposito della sede ideale per le poesie amorose], perché da ogni lato mi par di conoscere molto pericolo»,19 segno, anche questo, di una condizione dolorosa dell’anima, e piena di paure. Certo, nel ragionamento che si svolge nel Cataneo, Dafne sarebbe forse considerata un idolo peggiore di Laura, perché proveniente direttamente dal mondo pagano. Eppure, Tasso sceglie, come si è detto, di non nominare Laura, che per natura poetica include Dafne e dei segni di Dafne si nutre, a favore di una creatura primigenia, Dafne, appunto, che non vuole sedurre, e che all’amore preferisce la fuga, la sottrazione, la metamorfosi.

Lampeggiâr gli occhi, e folgorâr gli sguardi, dolci ne l’ira; or che sarian nel riso?

Tancredi, a che pur pensi? a che pur guardi? non riconosci tu l’altero viso?

Quest’è pur quel bel volto onde tutt’ardi; tuo core il dica, ov’è il suo essempio inciso. Questa è colei che rinfrescar la fronte vedesti già nel solitario fonte. (III 22)

Rinfranca e rassicura il richiamo di Tasso ne Il Cataneo overo de gli idoli che si ritrova qui: «l’idolo mio scolpito in vivo lauro», verso della sestina petrarchesca Giovene donna sotto un verde lauro

17 Infra, in particolare I.7.2.

18 TORQUATO TASSO, Dialoghi, a cura di Ettore Mazzali, Einaudi, Torino 1976, tomo I, p. 192. 19 Ivi, p. 190.

79 (XXX, 5, 3) ritorna nell’«essempio inciso» nel cuore di Tancredi (III 22, 6), ove con «essempio» si intenda, come fa Chiappelli, «ritratto, effigie».20 Il cuore del cavaliere viene inciso come il legno, e il viso di Clorinda si fa effigie, «idolo» di Tancredi.

L’apparizione di Clorinda, immersa in una luce che inonda il campo, è simile a quella di una divinità. Clorinda, come la Giovene donna sotto un verde lauro, è caratterizzata dal biancore: non solo la pelle, come si è già avuto modo di commentare, ma il biondo dei capelli e gli occhi stessi («lampeggiâr», «folgorâr», III 22, 1) rimandano al campo del bianco, dello sbiancamento. Gli occhi, in particolare, espressioni della folgore, sono, per Tancredi, «dolci ne l’ira» (III 22, 2), quasi se ne voglia smorzare la potenza distruttiva. La ferocia di Clorinda si riduce: Clorinda per Tancredi non è la terribile guerriera che tutti a Gerusalemme riconoscono e temono (II 38), ma stando al narratore, che si rivolge direttamente al cavaliere, è «colei che rinfrescar la fronte/ vedesti già nel solitario fonte» (III 22, 7-8). Clorinda è pertanto, primariamente, agli occhi di Tancredi, una giovane donna apparsa al fonte, così come Laura si fa «dolce […] guerriera» per il poeta (Mille fiate, o dolce mia guerriera, XXI, 1). Se dunque da questa tessera tassiana emerge una Laura che si deve depotenziare, o che non si vuol nominare, ma che tornerà prepotente, potenziata e terribile quale ultima manifestazione di Clorinda, ecco che alla stessa ottava si allacciano altre reminiscenze significative e parlanti, altri nomi problematici.