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(XII 78-83)

Ritroviamo qui tutta l’angoscia di Tancredi, speculare al timore di Goffredo, per la sottrazione del corpo alle fiere – e l’insistenza di questo motivo sembra più significante di quel che in effetti potrebbe essere un mero dato storico: la presenza delle fiere nei boschi, la sparizione naturale del corpo che veniva divorato dagli abitanti della selva. Si sente l’appartenenza del corpo a quella sfera ferina, selvaggia, lontana dalla normale misura umana. In questo ambito del corpo che si fa cibo si ripropone un rapporto che si è già visto nelle strofe 25 e 26 del canto III, quello cioè fra Tancredi e il conte Ugolino:63 le parole-rima «guasto» e «pasto» (XII 78, 4, 6) non possono non richiamare alla mente le durissime e medesime parole-rima dell’inizio del canto XXXIII dell’Inferno: «La bocca sollevò dal fiero pasto/ Quel peccator, forbendola a’ capelli/ Del capo ch’elli avea di retro guasto» (vv. 1-3). C’è un orrore latente dietro ai versi del Tasso, una violenza espressiva che solo ritornando a Dante è possibile svelare del tutto.

Il corpo di Clorinda, corpo inviolato per eccellenza, è, nella vis imaginativa di Tancredi, corrotto, lacerato, orrendamente violato. Ancora, in questo oltretomba immaginato – e bisogna evidenziare, qui, la «eccessiva irritabilità della vis imaginativa»64 dei melanconici in Problemata XXX 1 attribuito ad Aristotele – Tancredi vede l’ultima possibilità di unione con Clorinda. Nel ventre delle fiere, «onorata […] tomba […] felice» (XII 79, 7), Tancredi può ritrovare la vergine. Il ventre dell’animale – del drago, della balena – si fa allora, come vedremo succederà per l’Astolfo dei Cinque

canti, una terra di mezzo tra aldiqua e aldilà in cui è ancora possibile una forma esile di permanenza,

di incontro e di condivisione. Anche questo, però, viene rifiutato a Tancredi, perché il corpo è lì, nella stanza a fianco.

La visione di Clorinda, di quel «bel seno» (XII 81, 1) che è immagine perturbante e ritornante, un’ossessione che va dal combattimento alla sepoltura di lei, evidenzia ancora una volta l’‘empietà’ di Tancredi che l’ha ferita (XII 81, 2). Il corpo è stato sconsacrato. L’alterità di Clorinda si manifesta di nuovo nel dato cromatico. Dalla bianca Clorinda, alla nera Clorinda, alla Clorinda floreale, ci si trova adesso dinanzi alla ‘celeste’ Clorinda – una Clorinda siderale, bluastra, cianotica come «un ciel notturno […] senza splendor» (XII 81, 3-4). Tale visione scatena la reazione di Tancredi: Tancredi, che ha visto Clorinda presso «un fonte vivo» al primo incontro (I 46, 8), che attinge al «picciol rio» (III 67, 2) per battezzarla, si fa – o tenta di farsi – «rio» di sangue (XII 83, 6). La condanna alla vita, però, vince. E Tancredi è ricondotto a letto.

6.5. Clorinda celeste (?) 63 Supra, I.3.5.

178 Clorinda ha richiesto di venire battezzata. In questa conversione, parte della critica ha visto il fulcro del canto XII. Perché allora Tancredi non ne fa parola? La conversione di Clorinda, massima guerriera dell’esercito pagano, potrebbe essere in sé un segno di trionfante vittoria dell’esercito cristiano. L’amore di Tancredi sarebbe considerato lecito, in quanto non più rivolto alla nemica, alla musulmana, ma a una vergine cristiana, potenzialmente a una nuova martire. Eppure Tancredi non dice nulla, e non risponde alla calunnia zelante – zelota – di Piero:

– O Tancredi, Tancredi, o da te stesso troppo diverso e da i princìpi tuoi, chi sì t’assorda? e qual nuvol sì spesso di cecità fa che veder noi puoi?

Questa sciagura tua del Cielo è un messo; non vedi lui? non odi i detti suoi?

che ti sgrida, e richiama a la smarrita strada che pria segnasti e te l’addita? A gli atti del primiero ufficio degno di cavalier di Cristo ei ti rappella,

che lasciasti per farti (ahi cambio indegno!) drudo d’una fanciulla a Dio rubella. Seconda aversità, pietoso sdegno con leve sferza di là su flagella tua folle colpa, e fa di tua salute te medesmo ministro; e tu ’l rifiute? Rifiuti dunque, ahi sconoscente!, il dono del Ciel salubre e ’ncontra lui t’adiri? Misero, dove corri in abbandono a i tuoi sfrenati e rapidi martìri? Sei giunto, e pendi già cadente e prono su ’l precipizio eterno; e tu no ’l miri? Miralo, prego, e te raccogli, e frena quel dolor ch’a morir doppio ti mena. – (XII 86-88)

Tancredi è senz’altro scisso, è senz’altro «troppo diverso», separato, da se stesso (XII 86, 1-2), e Piero da questo punto di vista ha ragione. Qual è però la «sciagura» di Tancredi di cui parla Piero (XII 86, 5)? La morte di Clorinda o lo stato in cui la morte di lei lo ha lasciato? In entrambi i casi, Piero dice apertamente che tale sciagura è un messaggio dal cielo – volontà del cielo. La compartecipazione celeste è evidente. Risuonano le parole di san Giorgio, in quella terribile minaccia – che si fa promessa – di fare sua Clorinda (XII 39, 7) – parole terribili, spaventose, che per farsi vere calpestano la vita, vìolano la volontà individuale, l’inalienabile libertà che caratterizza la vergine guerriera. Significative le parole di Chiappelli: «[L]a requisitoria di Pietro dà forma a uno spirito mistico e punitivo che appartiene non al clima delle Crociate, ma a quello dell’Inquisizione».65 Il narratore tuttavia non si

179 esime dal chiamare Pier l’Eremita «buon pastore» (XII 85, 6), benché ben poco di pastorale, di pietoso o di misericordioso traspaia dalle sue parole. Anzi, andrebbe messo in luce il fatto che quello che dice Piero si rifà alla battuta crudele del Soldano alla cristianissima Gildippe: «Ecco la putta e ’l drudo» (XX 95, 6). Clorinda, qui, non è «putta», ma «rubella» (XII 87, 4). Sarebbe facile per Tancredi obiettare, a questo punto, che Clorinda quantomeno non è più «a Dio rubella» (XII 87, 4), ma non lo fa. Il suo è pudore, desiderio di tenere per sé una conversione così privata? Ma forse il desiderio di riabilitare Clorinda davanti all’esercito cristiano – che è esercito proprio in quanto cristiano, e la cui identità religiosa viene prima di tutto – non è abbastanza forte? O si tratta qui di eversione silenziosa, il sentimento di chi non cede a un rapporto con il divino basato sulla violenza, il sangue, lo stupro? Può Clorinda, almeno in parte, rappresentare quell’ultimo pilastro di bellezza, di purezza, che il Tasso spesso descrive parlando di paganesimo, oltraggiato da, e in contrasto con, una cristianità di lupi lontani da qualunque principio, anche il più elementare, di cristianesimo?

Che cos’è infatti quel «dono/ del Ciel salubre» (XII 88, 1-2), se non la morte dell’amata? Che cos’è allora Clorinda, se non il designato, necessario, sacrificio di una divinità impietosa e crudele? Il silenzio di Tancredi è forse il dissenso in odore di eresia? Come che sia, le parole finali di Piero colpiscono nel segno, e il timore della seconda morte, quella spirituale, sembra averla vinta sul timore della morte corporale. Tancredi sembra pian piano tornare in sé – benché si tratti di un ritorno lento, fatto di battute d’arresto e di retrocessioni. Significativo, sempre in ambito religioso, è il fatto che Tancredi, comunque, si rivolga all’anima di Clorinda, «sciolta/ anima» che «dal Ciel forse l’ascolta» (XII 89, 7-8). La lettura di questo episodio da parte di Salvaneschi è persuasiva:

[…] tra il delirio e il sogno c’è stato il rimprovero di Pier l’Eremita. È un farmaco inquisitorio, nel senso generico e specifico dell’inquisizione, che segue un metodo scaltrito: non un dolce conforto che farebbe inacerbire il cuore, ma un richiamo alla vita contenuto in parole gravissime, che suonano come un insulto alla nostra sensibilità creaturale; sono parole improntate a una tetra ideologia controriformistica che ingigantisce la presunta colpa e sminuisce l’evento tragico fino a capovolgerlo in un sarcasmo intollerabile: la morte di Clorinda diviene il dono/ del Ciel salubre [XII 88, 1-2]. Si capisce come al proposito il Fubini abbia espresso un giudizio quasi scandalizzato, abbia avvertito un senso vero di risentimento nei riguardi del poeta «che per poco non guasta una delle sue più belle pagine». Ma qui il critico, per quanto scaltrito, rispetto al poeta è davvero, se non egro fanciullo, adolescente impulsivo. Guardiamo al testo con più pacatezza: che esito sortisce questa programmata antipatia, questo fiele e zelo predicatorio? […] ora seco parlando, or con la sciolta/ anima che dal

Ciel forse l’ascolta [XII 89, 7-8]. Forse, appunto: non sfugga questo profondo possibilismo tassiano,

che vena il poema e lo sottrae alla pur presente tentazione del rigore dogmatico.66

La valenza del «forse» (XII 89, 8) è qui fortissima. E a ben vedere, Tancredi si piega sul corpo di lei, sulla materia che ha lasciato dietro di sé, e non su quell’aldilà che dovrebbe averla felicemente accolta.

180 Clorinda, nonostante il battesimo, nonostante l’accesso ormai ottenuto all’oltremondo, vive ancora, benché in forma larvale, in un perturbantissimo aldiqua, come avremo modo di vedere.67

Solo un dato del racconto sembrerebbe portarci su un’altra strada: la visione che Tancredi ha di lei in sogno.

Ed ecco in sogno di stellata veste cinta gli appar la sospirata amica: bella assai più, ma lo splendor celeste orna e non toglie la notizia antica; e con dolce atto di pietà le meste luci par che gli asciughi, e così dica: «Mira come son bella e come lieta, fedel mio caro, e in me tuo duolo acqueta. Tale i’ son, tua mercé: tu me da i vivi del mortal mondo, per error, togliesti; tu in grembo a Dio fra gli immortali e divi, per pietà, di salir degna mi fêsti.

Quivi io beata amando godo, e quivi spero che per te loco anco s’appresti, ove al gran Sole e ne l’eterno die vagheggiarai le sue bellezze e mie. Se tu medesmo non t’invidii il Cielo e non travii co ’l vaneggiar de’ sensi, vivi e sappio ch’io t’amo, e non te ’l celo, quanto più creatura amar conviensi.» Così dicendo, fiammeggiò di zelo per gli occhi, fuor del mortal uso accensi; poi nel profondo de’ suoi rai si chiuse e sparve, e novo in lui conforto infuse. (XII 91-93)

Il sogno è un momento enigmatico che spesso non permette di comprendere la veridicità del momento, come il Tasso stesso ben mette in rilievo nelle prime pagine de Il Messaggiero. La Clorinda cianotica della stanza accanto diventa una Clorinda celeste e celestiale, vestita come una dea, tutta orientata all’amore – a un amore che poco ha di spirituale e molto di terreno. È da notare il fatto che tutto il monologo di Clorinda è retto da «par che […] così dica» (XII 91, 6). C’è verosimiglianza, ma non c’è traccia di certezza. Le parole riportate non sono dunque frutto delle labbra di Clorinda, ma interpretazione di Tancredi? Il Tasso lascia l’episodio avvolto da un alone di mistero. Se Clorinda sia davvero in Paradiso, se davvero ami Tancredi, il Tasso, in realtà, demonicamente, non lo dice. Finora la maggioranza della critica ha voluto credere che così sia, ma la parola poetica è chiusa in se stessa, come Clorinda, che «[…] nel profondo de’ suoi rai si chiuse» (XII 93, 7), e non dà, né vuol dare, alcuna risposta. Tutto quello che sappiamo, che il Tasso vuole dire, è che subito dopo la visione

67 Infra, I.6.

181 Tancredi non guarda al Cielo, ma torna invece al corpo di Clorinda, alla sensualità della materia. Fa ergere la tomba, fa scolpire un masso. Non si volge particolarmente a un altrove, ma soprattutto al mondo sotterraneo. Non pensa all’anima, ma alle ossa:

– O sasso amato ed onorato tanto,

che dentro hai le mie fiamme e fuori il pianto, non di morte sei tu, ma di vivaci

ceneri albergo, ove è riposto Amore; e ben sento io da te l’usate faci,

men dolci sì, ma non men calde al core. Deh! prendi i miei sospiri, e questi baci prendi ch’io bagno di doglioso umore; e dalli tu, poi ch’io non posso, almeno a le amate reliquie c’hai nel seno. Dalli lor tu, ché se mai gli occhi gira l’anima bella a le sue belle spoglie, tua pietate e mio ardir non avrà in ira, ch’odio o sdegno là su non si raccoglie. Perdona ella il mio fallo, e sol respira in questa speme il cor fra tante doglie. Sa ch’empia è sol la mano; e non l’è noia che, s’amando lei vissi, amando moia. Ed amando morrò: felice giorno, quando che sia; ma più felice molto, se come errando or vado a te d’intorno, allor sarò dentro al tuo grembo accolto. Faccian l’anime amiche in Ciel soggiorno, sia l’un cenere e l’altro in un sepolto; ciò che’l viver non ebbe, abbia la morte. Oh se sperar ciò lice, altera sorte! (XII 96, 7-8; 97-99)

Tancredi cerca e vuole la materia. Il mondo spirituale sembra gli interessi poco. L’ossessione di Tancredi è per il corpo, più che per l’anima di Clorinda. E quando il corpo si fa cenere, ecco che allora è la cenere il focus dei suoi pensieri: il grembo, il seno, l’internarsi, l’essere accolto in Clorinda o in ciò che la ospita: corazza, ventre delle fiere, tomba. Quanto è lontano dallo slancio di Goffredo verso quel che è il sepolcro per eccellenza – e al tempo stesso, quanto è vicino al Goffredo che vìola la città, che distrugge le mura, che si inginocchia lordo di sangue, di materia, in una guerra che poco o nulla ha di spirituale, ma che insiste su corpi caduti, corpi insepolti, corpi mutilati. Tancredi dovrà combattere contro Argante per terminare la sepoltura di Clorinda e poi scivolare fuori dalla scena, in un finale aperto con una Erminia rediviva e guaritrice, viva e vivificante più che mai. Resta però un anelito disperante teso a ciò che Clorinda cela, a ciò che è dentro e che sfugge a ogni forzatura, a ogni violenza che si possa esercitare sul corpo – anelito che si farà assillo del protagonista della Recherche per l’interiorità, per l’identità di Gilberte prima, di Albertine poi. Ma la figura-mito che è Clorinda,

182 che è Albertine, è fuggitiva. A Tancredi, al narratore della Recherche, non resta nulla se non un riflesso d’oro e un pugno di cenere.

183 7. La donna-albero

Il canto XII si chiude sulla tomba di Clorinda e sul pianto di Gerusalemme sul suo corpo che non ritorna. Non un Priamo lo rivendicherà. «Ma Kore tornerà, trasformata, dalla terra alla terra».1 Lo sviluppo mitico di Clorinda non può non prevedere il ritorno alla terra, una seconda germinazione, o fioritura. Ma se il nucleo di Demetra-Ecate-Kore è un nucleo fortemente vitale, quello di Clorinda non lo è, perché è la Liberata stessa ad avere un’altra natura. Come rilevato da Scianatico, è la morte il fulcro della Liberata.2 Se Clorinda tornerà – e dovrà tornare – quel che ci si potrà aspettare non sarà un rinnovellarsi della primavera, ma una manifestazione infera. Naturalmente, se Clorinda fosse estranea al nucleo mitico di Demetra-Ecate-Kore, non ci si aspetterebbe nulla; se davvero fosse una beata in Paradiso, non tornerebbe più, se non forse come guida angelica. Clorinda però è altro. E la sua ultima manifestazione fa riaffiorare tutta l’inquietudine che si cela dietro al personaggio.

Del resto: «Il serpente può infilarsi nella terra e riemergerne. Il ritorno dalla terra, dove riposano i morti, e insieme la capacità di rinnovare la spoglia fanno del serpente il simbolo più naturale dell’immortalità e della rinascita».3 E Clorinda è il serpente. Già una volta i demonî si sono avvalsi della sua forma per ingannare il campo cristiano. Nonostante la presa di possesso della sua essenza da parte del santo, questo avverrà ancora – a dimostrazione del fatto che non può esserci una vera angelicazione di Clorinda, che lo spirito di lei sfugge, oltre che a Tancredi, a qualunque forma di costrizione inquisitoriale o controriformistica: Clorinda è libertà, forse malgrado il Tasso stesso, e non si lascia soggiogare dalla ‘liberazione’ o dalla ‘conquista’ della cristianità. Piuttosto si sottrae, si trasforma, gioca la carta della meramorfosi, proseguendo il proprio cammino e permanendo, nonostante tutto.4