Protagonista dell’XI canto è la città di Gerusalemme, che assume su di sé, come si è parzialmente visto, i connotati virginali.33 L’elemento dionisiaco e femmineo della città si sovrappone a quello marziale e apollineo, per così dire, dell’esercito cristiano. In questa luce, gli attributi che per la prima volta vengono espressamente dati a Clorinda rivestono ulteriore importanza. Dalla torre Angolare, Clorinda, contrariamente al solito, si fa arciera:
A costei la faretra e’l grave incarco de l’acute quadrella al tergo pende. Ella già ne le mani ha preso l’arco, e già lo stral v’ha su la corda e’l tende; e desiosa di ferire, al varco
la bella arciera i suoi nemici attende. Tal già credean la vergine di Delo tra l’alte nubi saettar dal cielo. (XI 28)
La dimensione titanica di Clorinda si spiega al massimo grado. La guerriera si manifesta infine come divinità e, significativamente, come divinità vergine. Specularmente, sul campo si palesa un’altra divinità:
Or mentre la città s’appresta e prega, le genti e l’arme il pio Buglion dispiega. Tragge egli fuor l’essercito pedone con molta providenza e con bell’arte, e contra il muro ch’assalir dispone obliquamente in duo lati il comparte. Le baliste per dritto in mezzo pone e gli altri ordigni orribili di Marte, onde in guisa di fulmini si lancia vèr le merlate cime or sasso, or lancia.
33 Supra, I, 5.2.
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(XI 30, 7-8 – 31)
Se Clorinda sovrasta l’esercito dall’alto e si fa vergine urania («Tal già credean la vergine di Delo/ tra l’alte nubi saettar dal cielo», XI 28, 7-8), l’assedio della città parte dal basso, da un accerchiamento totale che si disperde in ogni direzione, sia «obliquamente» (XI 31, 4) che «per dritto» (XI 31, 5). A opporsi al corpo virginale e pagano di Clorinda è il «pio Buglion» (XI 30, 8), che però si muove indirettamente nel segno di Marte e di Giove.34 Formando un’immagine che ricorda la scalata dei Titani all’Olimpo, Goffredo soggiace a Clorinda pur tentando la via della verticalità, via che era, come si viene a sapere solo a questo punto del poema, già la sua meta, e che Raimondo definisce ironicamente: quella del «salitor di mura» (XI 22, 2). Per tentare questa via, Goffredo si sottopone a un breve processo, che è evidentemente una tessera clorindiana: cambiare l’armatura. Così il Tasso lo racconta:
Sorge il forte Goffredo e già non piglia la gran corazza usata o le schiniere; ne veste un’altra ed un pedon somiglia in arme speditissime e leggiere; (XI 20, 3-6)
Non viene descritta la nuova armatura di Goffredo. Quel che sappiamo è che si tratta di «arme speditissime e leggiere» (XI 20, 6), adatte a un «pedon» (XI 20, 5). E infatti si dice che a «un pedon somiglia» (XI 20, 5). Mutare aspetto prima di una battaglia è una strategia pericolosa. Se per Clorinda tale strategia sottende un mutamento, una vera e propria metamorfosi, per Goffredo questo cambiamento equivale alla manifestazione di una falla nella personalità che si palesa solo adesso e che va a ogni costo – al costo del sangue – emendata. Clorinda viene redarguita da Arsete, che la prega di non andare a combattere. Qui le veci di Arsete sono fatte da Raimondo, che comprende, che redarguisce, e che, come Arsete, deve essere inascoltato perché il poema possa compiersi:
Questi, veggendo armato in cotal modo il capitano, il suo pensier comprese:
– Ov’è – gli disse – il grave usbergo e sodo? ov’è, signor, l’altro ferrato arnese?
perché sei parte inerme? Io già non lodo che vada con sì debili difese.
Or da tai segni in te ben argomento che sei di gloria ad umil mèta intento. Deh! che ricerchi tu? privata palma di salitor di mura? Altri le saglia, ed esponga men degna ed util alma (rischio debito a lui) ne la battaglia;
34 Supra, I.5.2.
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tu riprendi, signor, l’usata salma e di te stesso a nostro pro ti caglia. L’alma tua, mente del campo e vita, cautamente per Dio sia custodita. – (XI 21-22)
Raimondo mette a nudo una ‘colpa’ di Goffredo, che il condottiero stesso dovrà esperire: l’ambizione. Benché si tratti di una «umil mèta» (XI 21, 8), l’azione che Goffredo vuole intraprendere non è adatta al ruolo. Il mutamento può essere fatale. Il corpo di Goffredo, in qualità di espressione del potere, va preservato a ogni costo. Non può essere esposto, non può subire violazioni. In quest’ottica, nella necessità della preservazione, il corpo di Goffredo è speculare al corpo della vergine – e della città. Raimondo esorta il condottiero a riprendere «l’usata salma», che Chiappelli giustamente glossa con «armatura».35 Il segno dell’armatura equivale dunque al corpo, ma al corpo inanimato, al carico. L’operazione di assumere un’altra armatura, di assumere un altro segno, non può che essere di fondamentale significato simbolico, e non può non avere conseguenze. Ciò che viene qui rimproverato a Goffredo è, in sostanza, una brama di gloria che sovrasta il dovere e che supera l’amore per il suo esercito («e di te stesso a nostro pro ti caglia», XI 22, 6). Goffredo pone però un voto come schermo alla propria ambizione, e così risponde alle parole di Raimondo:
[…] – Or ti sia noto
che quando in Chiaramonte il grande Urbano questa spada mi cinse, e me devoto
fe’ cavalier l’onnipotente mano, tacitamente a Dio promisi in voto non pur l’opera qui di capitano,
ma d’impiegarvi ancor, quando che fosse, qual privato guerrier l’arme e le posse. Dunque, poscia che fian contra i nemici tutte le genti mie mosse e disposte, e ch’a pieno adempito avrò gli uffici che son dovuti al principe de l’oste, ben è ragion (né tu, credo, il disdici) ch’a le mura pugnando anch’io m’accoste, e la fede promessa al Cielo osservi: egli mi custodisca e mi conservi. – (XI 23-24)
L’atteggiamento devoto di Goffredo viene smascherato da Chiappelli: «L’espressione ben è ragion è del tutto falsa; il voto per la Crociata annullava canonicamente tutti i voti precedenti. Goffredo dimentica qui il proprio fondamento dell’impresa».36
35 Fredi Chiappelli, in TORQUATO TASSO, Gerusalemme liberata, cit., nt. 3 a strofe 22, p. 453. 36 Ivi, nt. 3 a strofe 23, p. 454.
147 Goffredo in battaglia si occupa prima della sistemazione dell’esercito, coerentemente con quanto detto a Raimondo. E infine agisce seguendo se stesso, le proprie pulsioni e la propria ambizione, e non più la ‘ragion di stato’:
Onde rivolto dice al buon Sigiero, che gli portava un altro scudo e l’arco: – Or mi porgi, o fedel mio scudiero, cotesto men gravoso e grande incarco, ché tenterò di trapassar primiero su i dirupati sassi il dubbio varco; e tempo è ben che qualche nobil opra de la nostra virtute omai si scopra. – Così mutato scudo a pena disse, quando a lui venne una saetta a volo, e ne la gamba il colse e la trafisse nel più nervoso, ove è più acuto il duolo. Che di tua man, Clorinda, il colpo uscisse, la fama il canta, e tuo l’onor n’è solo; se questo dì servaggio e morte schiva la tua gente pagana, a te s’ascriva. (XI 53-54)
Goffredo porta a termine il processo di spoliazione dai paramenti ufficiali per assimilarsi del tutto al pedone, alla figura più umile e più esposta dell’esercito. Più che un «atto di disarmo»,37 questo è un vero e proprio atto metamorfico. Ancora emerge il narcisismo di Goffredo, un sentimento «improprio», e nelle parole rivolte a Sigiero si palesa «la posizione di squilibrio a cui è giunto il Capitano», che in effetti «non aveva alcun bisogno di perorare di fronte allo scudiero».38 La domanda di Raimondo: «che ricerchi tu?» (XI 22, 1) si carica di profondità e importanza. Perdendo di vista il proprio ruolo, Goffredo rischia di perdere se stesso nell’ora forse più delicata del poema. Ed è a questo punto che viene ferito alla gamba. Il merito del colpo viene attribuito a Clorinda («Che di tua man, Clorinda, il colpo uscisse,/ la fama il canta», XI 54, 5-6). La tesi di Braghieri al riguardo offre alcuni spunti:
Parlare di ferita come offerta, significa riconoscerla, in termini antropologici, quale simbolo rituale di tipo “strumentale”, tale cioè da servire “as means to the explicit or implicit goals of a given ritual”. Ciò comporta la collocazione del simbolo entro il contesto circostanziale in cui la soluzione rituale adottata dal testo si configura. Per far questo è necessario risalire al duplice ordinario significato della ferita, da cui discendere alla fruizione della sua valenza rituale nel caso in esame.
Indice da un lato, di menomazione della condizione normale, e della sofferenza che inevitabilmente ne risulta, la ferita è, d’altro canto, passaggio eccezionale aperto nel corpo. Scientifica o primitiva, medica o magica che ne sia la lettura, essa è segno di modifica e insieme luogo inusitato (in una struttura altrimenti compatta o perlomeno controllabile) di interazione con quanto è esterno. […]. Trafitte dalle sue frecce (o dall’Eros suo tramite), furate o ingoiate da titanici figli, o da lei stessa
37 Ivi, nt. 1 a strofe 54, p. 466. 38 Ivi, nt. 4 a strofe 54, p. 466.
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assunte o sedotte nei suoi augusti templi, nelle sue grotte o nei suoi labirinti, le vittime della Dea sono segno e prezzo del rinnovamento che il sacrificio divino comporta: […].
Nella medicina, nella mitologia, come nella tradizione rituale antica, la gamba occupa una posizione di particolare rilievo. La straordinaria carica vitale attribuitale, che ne fa l’equivalente maschile del grembo e la sede del potere procreativo, la investe dei caratteri del sacro e nel contempo la eleva ad offerta sacrificale tra le più diffuse e significative. È questa eccezionale potenza degli arti inferiori […], il loro stretto rapporto fisiologico con la fonte dell’energia vitale ed il loro valore sacro e sacrificale, ad illuminare le valenze delle ferite che alla coscia, al ginocchio, o al piede, ricorrono nei miti e nei riti centrati intorno ad eventi e figure di fertilità. […].
Consacrazione richiesta al sacrificatore, segno del sopraggiunto momento che rovescia i destini e dell’avvento del nuovo ordine che il sacrificio instaurerà definitivamente, la ferita di Enea, su cui quella di Buglione si modella, cade, significativamente, nel dodicesimo e conclusivo libro del poema che, chiudendo il transizionale peregrinare dell’eroe, schiude sulla definitiva appartenenza di lui il fatidico destino di Roma. La concentrazione, nel conclusivo libro dell’opera virgiliana, della sanguinosa consacrazione dell’eroe per passaggio attraverso la “morte” (ferita di Giunone) e la “rinascita” (cura di Venere) della Dea, e del finale ordinatore sacrificio del “caotico” Turno, illumina quanto nella Liberata accade, con identica portata e significato, nei canti undici e dodici.
Ferito e curato da due divinità (11. LIV; LXXII-LXXIV), che presto il testo porterà a coincidere (12. XCII), Goffredo rinasce a quell’ordine divino e testuale che, con il sacrificio di Clorinda per mano di Tancredi, definitivamente stabilirà: […].39
La ferita di Goffredo sottende a un rinnovamento a tutti gli effetti: caricato dei segni del proprio peccato, Goffredo deve morire per poter rinascere Capitano senza macchia. L’ambizione è ciò che sembra morire in lui. Lungi dall’essere mortifera, la ferita prelude a una rinascita, a un «rinnovamento». Sulla scorta di Enea, colpito da una freccia misteriosa, Goffredo viene colpito – e verrà curato – da quelle che Braghieri chiama «due divinità»,40 Clorinda prima e un angelo poi. Che arrivino a coincidere in una sola figura è un punto notevole. Certo è che Goffredo si rialzerà come ‘uomo nuovo’. Il confluire della figura di Clorinda saettatrice in quella dell’angelo ‘medico’ di Goffredo è importante anche pensando a un episodio che potrebbe stare a monte del ferimento di Goffredo, e che potrebbe ben fungere da ‘sintesi’ dei due momenti della battaglia del capitano. Come, infatti, non ripensare a Giacobbe, ferito alla gamba dallo stesso angelo che lo benedice (Gen. 32, 24- 29)?
Va qui aggiunto un altro dato importante, e cioè che alla ferita di Goffredo corrisponde la ripresa di Gerusalemme da parte dei pagani. Se il ‘corpo politico’ è colpito, e la ferita corrisponde a un «passaggio eccezionale aperto nel corpo»,41 il corpo della città, violato, si richiude su se stesso. A tal punto l’animus di Goffredo è in opposizione a quello di Gerusalemme.
La ferita inferta da Clorinda è quasi letale: «nel piagato eroe giunge a tal segno/ l’aspro martìr che n’è quasi omicida» (XI 72, 3-4). Ma ecco che, di fronte all’impotenza del medico Eròtimo, interviene «l’angiol custode», che coglie «dittimo in Ida:/ erba crinita di purpureo fiore» (XI 72, 5- 7). Ancora, trafittura e guarigione si intessono in un unico segno: e se la mano di Clorinda è quella
39 PAOLO BRAGHIERI, Op. cit., pp. 112-116. 40 Ivi, p. 116.
149 che strazia, la cura proviene da un fiore, che si farà segno di lei morente, trasformata, appunto, in divina fanciulla-fiore.42
Ancora una relazione sembra avvincere due personaggi apparentemente così lontani: dopo il cambio dell’armatura, il legame misterioso che deriva dalla ferita inferta da lei, nella Conquistata Tasso regala un ultimo gioco di specchi tra Goffredo e Clorinda, ben rilevato da Enrica Salvaneschi:
Nel finale della Conquistata […] il Tasso conferisce a Goffredo tessere, potremmo dire, clorindiane: quell’allegrarsi con lui degli elementi di natura, in festiva congratulazione, troppo ricorda, e quasi contamina, usurpa, quanto chiamammo la conversione degli elementi su Clorinda, la loro vana e pur vera pietate; e poco dopo, la strofe 135, tutta avvolta nell’afflato di una collettiva adorazione, esattamente e terribilmente echeggia l’ecumenismo del sogno clorindiano: Persi, Assiri, Etiòpi ed Indi
appresso / presi n’andar con vergognose fronti / […] / Coronati di palma e di cipresso, / cantano il vincitor i colli e i monti. […]. Proprio in questa eco inclemente di struttura, il clorindiano fantasma
ritorna in chiusa del poema nuovo, del poema rivisitato, a insinuarsi come valore rinnegato – e riaffermato. […] il motivo di Clorinda, la sua (facciamo uso di categorie leopardiane o voltairiane) amabilità, giunge a lambire l’intangibile, l’inamabile Goffredo. L’osmosi è placata, il pathos profondamente e crudelmente ironico; il trionfo della morte, pur indiscusso, un po’ meno trionfale. La volontà di potenza si vena di nostalgia.43
Sul finale della Conquistata riappare in filigrana l’elemento del cipresso (il cipresso-Clorinda del canto XIII) a cingere la fronte dei cristiani. Come evidenzia Salvaneschi, Clorinda riappare a lambire il Capitano nell’ultima scena proprio in quel poema atto a scacciare fantasmi, a liberarsi dei dèmoni. Se perciò Clorinda dovrà morire – e sarà una delle necessità, come vedremo, su cui si fonda il poema – è altresì vero che Clorinda deve restare. Ne permarrà la traccia a incoronare colui che si muove sul segno opposto, che rappresenta tutto ciò che Clorinda non è, che si oppone per natura al mito che lei rappresenta.
42 Infra, I.6.3.
150 6. Disvelamento e sottrazione: Clorinda nera, Clorinda celeste
Il canto XII della Liberata ha, forse più di tutti gli altri, eccitato la fantasia degli artisti – basti nominare Tintoretto e Monteverdi – e della critica. Ad oggi, il combattimento di Tancredi e Clorinda resta uno degli episodi più conosciuti e letti. C’è qualcosa di magnetico e perturbante in questo canto, e tutte le pagine di critica scritte finora e a venire non saranno probabilmente in grado di penetrare fino in fondo la magia poetica che pervade questi versi.
Il canto XII è, ai fini di questo lavoro, forse il più importante sub specie Georgii: non soltanto è qui che il lettore si imbatte nell’infanzia di Clorinda – passaggio che nella nostra biografia si è necessariamente dovuto affrontare in partenza – e dunque nella presenza del santo, che persiste dalla nascita della guerriera all’età adulta, ma è qui, in particolar modo, che si snoda tutta la problematicità di tale presenza. Clorinda, come si è visto nei capitoli precedenti, è una figura ‘inabissata’ nell’opera del Tasso, una figura complessa, che si pone in relazione con una fittissima rete di segni che la riportano a un mondo mitico. Si vedrà adesso se e come far quadrare il ritratto visto finora con la visione angelicata della guerriera, che finalmente ricade sotto l’egida di Giorgio – e nel seno di un’istituzione che è ben lungi dall’essere rassicurante, accogliente o amicale.