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Alla dipartita di Sofronia e di Olindo da Gerusalemme fa da contrappunto, poco dopo, l’avvistamento di Gerusalemme da parte dell’esercito cristiano. La città santa diventa così magnete dell’azione: tutto vortica intorno a essa. La città finora è, per il lettore, il luogo della sacralità virginale che viene violata e che s’invola, come si è visto a proposito dell’effigie e di Sofronia. Alete, inviato del re d’Egitto, nel tentativo di fermare l’avanzata di Goffredo verso la città, dice:

Ogni campo d’intorno arso e distrutto ha la provida man de gli abitanti, e ’n chiuse mura e ’n alte torri il frutto

riposto, al tuo venir più giorni inanti. (II 75, 1-4)

Gli abitanti della città si sono preparati per l’assedio e, dopo aver bruciato i campi per non lasciare rifornimenti alle truppe cristiane, hanno accumulato le riserve nelle «chiuse mura» e nelle «alte torri», simboli ormai familiari che celano qualcosa di prezioso e misterioso, in questo caso «il frutto», il frutto dei campi, il cibo. Ma ecco quel che dice Goffredo, rispondendo alle parole minacciose di Alete:

Sappi che tanto abbiam sin or sofferto in mare, in terra, a l’aria chiara e scura, solo acciò che ne fosse il calle aperto a quelle sacre e venerabil mura (II 82, 1-4)

71 Alla chiusura delle mura e all’altezza delle torri Goffredo oppone un movimento contrario: l’apertura di una «calle» a violare la cinta muraria. La reazione di Argante, che conosciamo qui per la prima volta e che appare in veste di messaggero, non di guerriero – ma la sua natura di combattente, più che d’ambasciatore, è insopprimibile – non si fa attendere. Posto di fronte alla determinazione del campo cristiano, Argante in un gesto si fa emblema della guerra e della pace:

[…] il suo manto per lo lembo prese, curvollo e fenne un seno; e ’l seno sporto, così pur anco a ragionar riprese

via più che prima dispettoso e torto: – O sprezzator de le più dubbie imprese, e guerra e pace in questo sen t’apporto: tua sia l’elezione; or ti consiglia

senz’altro indugio, e qual più vuoi ti piglia. (II 89)

Tutto l’esercito cristiano invoca la guerra, e Argante:

Parve ch’aprendo il seno indi traesse il Furor pazzo e la Discordia fera, e che ne gli occhi orribili gli ardesse la gran face d’Aletto e di Megera. (II 91, 1-4)

Argante si manifesta insomma quale furia, elemento del caos, incarnazione della guerra e della violenza. Argante «non è un personaggio fondato su una figura storica né su un preciso modello dell’epica tradizionale».1 Secondo Chiappelli, il personaggio di Argante è «legato a quello di Tancredi»,2 e solo in virtù di questa relazione, si direbbe, si lega a Clorinda, «come a simboleggiare che i due emisferi [Tancredi e Argante] hanno in comune il “cuore”».3 Esiste però un legame che unisce Clorinda e Argante in modo più profondo e sottile, in una misura che è utile indagare, poiché Argante è, per dirla con Enrica Salvaneschi, «il nucleo duro, ostile, virile»4 di Clorinda. È guardando anche attraverso la lente rappresentata da Argante, incarnazione delle Furie, caratterizzato da una «attitudine fisica e comportamentale di ferocia selvaggia»,5 che si ravvisano le vene sotterranee della personalità di Clorinda. Nel triangolo Tancredi-Clorinda-Argante che si compone tra questi tre vertici diseguali ma profondamente simili, – e sempre di triangoli si tratta: Clorinda, la principessa e il santo, Clorinda, Perseo e Andromeda, e così via – si rintraccia l’abisso del personaggio.

1 FREDI CHIAPPELLI, Il conoscitore del caos, cit., p. 65. 2 Ibidem.

3 Ivi, p. 72.

4 ENRICA SALVANESCHI, “Gerusalemme Liberata”, cit., p. 16.

5 SERGIO ZATTI, L’uniforme cristiano e il multiforme pagano. Saggio sulla «Gerusalemme Liberata», Il Saggiatore, Milano 1983, p. 14.

72 Dichiarata guerra, all’alba l’esercito cristiano si mette in moto, quando, come in una visione, si profila finalmente la città:

ecco apparir Gierusalem si vede, ecco additar Gierusalem si scorge, ecco da mille voci unitamente Gierusalemme salutar si sente. (III 3, 5-8)

Alla vista della città santa l’esercito è mosso dallo stesso fremito di commozione, esaltazione e riverenza. D’altra parte, da Gerusalemme si avvista l’esercito in arrivo:

De la cittade intanto un ch’ a la guarda sta d’alta torre, e scopre i monti e i campi, colà giuso la polve alzarsi guarda,

sì che par che gran nube in aria stampi: par che baleni quella nube ed arda, come di fiamme gravida e di lampi; poi lo splendor de’ lucidi metalli distingue, e scerne gli uomini e i cavalli. Allor gridava: – Oh qual per l’aria stesa polvere i’ veggio! oh come par che splenda! Su, suso, o cittadini, a la difesa

s’armi ciascun veloce, e i muri ascenda: già presente è il nemico. – E poi, ripresa la voce: – Ognun s’affretti, e l’arme prenda; ecco, il nemico è qui: mira la polve

che sotto orrida nebbia il ciel involve. I semplici fanciulli, e i vecchi inermi, e ’l vulgo de le donne sbigottite, che non sanno ferir né fare schermi, traean supplici e mesti a le meschite. Gli altri di membra e d’animo più fermi già frettolosi l’arme avean rapite. Accorre altri a le porte, altri a le mura; il re va intorno, e tutto ’l vede e cura. Gli ordini diede, e poscia ei si ritrasse ove sorge una torre infra due porte, sì ch’è presso al bisogno e son più basse quindi le piaggie e le montagne scorte. Volle che quivi seco Erminia andasse, Erminia bella, ch’ei raccolse in corte poi ch’a lei fu da le cristiane squadre presa Antiochia, e morto il re suo padre. Clorinda intanto incontra a i Franchi è gita: molti van seco, ed ella a tutti è inante; ma in altra parte, ond’è secreta uscita, sta preparato a le riscosse Argante.

73 La descrizione dell’esercito che incalza come una nube piena di lampi di fiamme è un esempio di quella “uniformità”, così rara nel campo cristiano, di cui parla Zatti. Il re si staglia tra la folla di donne, vecchi e bambini che accorrono alla moschea e di guerrieri senza volto e nome; è il solo che sembra avere la situazione sotto controllo: «il re va intorno, e tutto ’l vede e cura» (III 11, 8). Il re si ritira in «una torre infra due porte» (III 12, 2) e richiede una compagnia particolare: quella di Erminia.

Anche Erminia, al pari di Clorinda e di Argante, è «personaggio d’invenzione».6 Compare, come giustamente nota Chiappelli, per uno scopo preciso: «È adattata qui ad un motivo dell’epica, la descrizione panoramica dell’armata nemica, come quella di Elena dalle porte Scèe, soltanto per consentirle il sospiro e la confessione».7 Sembrerebbe però che il Tasso manifesti qui un’esigenza che trascende la mera espressione di ‘sospiri e confessioni’. Se Erminia è la prescelta per rappresentare, entro certi limiti, una novella Elena, allora da lei non ci si può aspettare un carattere meno complesso di quello della bella fuggitiva. E in effetti, ecco come Erminia si presenta: come una «bella», caratteristica fatale par excellence di Elena (III 12, 6) e, come Elena, ha dovuto lasciare la sua casa; Antiochia è appunto caduta nelle mani dei cristiani. Rimasta orfana, Erminia è stata ‘raccolta’ alla corte di Aladino.

Estranea alla città, Erminia, come Clorinda, è colei che viene da fuori, da un mondo altro, ma di questo mondo è divenuta parte integrante, essendo stata raccolta nella «corte» del re (III 12, 6). Ritratta nella torre, Erminia è compartecipe almeno in parte di quel destino che l’accomuna a Sofronia e alla regina d’Etiopia. Se però, fino a qui, la torre è il locus in cui lo sguardo amoroso penetra e comporta un mutamento dello stato virginale di chi la abita, ora si verifica un fenomeno inverso, perché è dalla torre che lo sguardo nasce e va. Erminia guarda: guarda all’esercito cristiano, e guarda a un guerriero in particolare, Tancredi. Erminia va alla torre, che assume qui sfumature nuove, perché è luogo di osservazione della battaglia, luogo ‘virile’, che nell’Iliade appunto ospita, insieme a Priamo e a Elena, gli Anziani: Erminia-Elena si carica perciò di elementi che si oppongono alla passività, all’essere guardata. E nel frattempo, la narrazione si volge a Clorinda, già pronta allo scontro, insieme ad Argante, che attende in agguato.

È Clorinda a sferrare il primo attacco contro Gardo (III 14) e a far trarre ai suoi «lieti augùri» (III 15, 4). Clorinda insomma appare come contrappunto di Erminia. Se una guarda, l’altra, senza guardare, agisce. E Clorinda, in quell’iniziale, quasi rituale, atto di guerra, sembra farsi emblema e protagonista della battaglia.

L’esercito franco corre su un colle in cerca di riparo:

6 Come afferma Chiappelli in TORQUATO TASSO, Gerusalemme liberata, cit., nt. 2 a strofe 12, p. 129. 7 Ivi, pp. 129-130.

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Allor, sì come turbine si scioglie e cade da le nubi aereo fuoco,

il buon Tancredi, a cui Goffredo accenna, sua squadra mosse, ed arrestò l’antenna. (III 16, 5-8)

Come il fulmine è Tancredi che giunge in soccorso all’esercito cristiano, senza ancora sapere contro chi debba combattere. È spinto qui dallo sguardo e dal cenno di Goffredo, e pertanto combatte all’insegna dell’ordine, esegue un ordine, fa ancora parte di un’alterità maggiore, di un esercito, appunto. Ed è in questo momento che il re lo nota:

Porta sì salda la gran lancia, e in guisa vien feroce e leggiadro il giovenetto, che veggendolo d’alto il re s’avisa che sia guerriero infra gli scelti eletto. Onde dice a colei ch’è seco assisa, e che già sente palpitarsi il petto: – Ben conoscer déi tu per sì lungo uso ogni cristian, benché ne l’arme chiuso. Chi è dunque costui, che così bene

s’adatta in giostra, e fero in vista è tanto? – (III 17-18, 1-2)

Tancredi fa parte dei guerrieri «eletti» (III 17, 4), e si distingue facilmente dalla massa. Il re vuole saperne l’identità, e così si rivolge a Erminia. È interessante che, agli occhi del re e quindi di Erminia, Tancredi sia «ne l’arme chiuso», elemento, come si è già visto, caratterizzante di Clorinda. Per colei «che già sente palpitarsi il petto» (III 17, 6) Tancredi è inafferrabile e ‘fuggitivo’, come Clorinda lo è per il guerriero. Già da questi pochi versi si può cominciare a comprendere la complessità del nodo che lega insieme i tre personaggi:

A quella, in vece di risposta, viene su le labra un sospir, su gli occhi il pianto. Pur gli spirti e le lagrime ritiene,

ma non così che lor non mostri alquanto: che gli occhi pregni un bel purpureo giro tinse, e roco spuntò in mezzo il sospiro. Poi gli dice infingevole, e nasconde sotto il manto de l’odio altro desio: – Oimè! bene il conosco, ed ho ben donde fra mille riconoscerlo deggia io,

ché spesso il vidi i campi e le profonde fosse del sangue empir del popol mio. Ahi! quanto è crudo nel ferire! a piaga ch’ei faccia, erba non giova od arte maga. Egli è il prence Tancredi: oh prigioniero

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mio fosse un giorno! e no ’l vorrei già morto; vivo il vorrei, perch’ in me desse al fero desio dolce vendetta alcun conforto. – Così parlava, e de’ suoi detti il vero da chi l’udiva in altro senso è torto; e fuor n’uscì con le sue voci estreme misto un sospir che ’ndarno ella già preme. (III 18, 3 – 20)

Erminia, lungi dall’apparire «personaggio indifeso ed esitante, che subisce più di quanto non agisca»,8 è, nota giustamente Salvaneschi, «come la pianta purgatoriale: seconda le percosse».9 C’è della resistenza nel suo subire, della forza incontrastata nel guardare. In opposizone a Clorinda, Erminia, sul modello della protagonista del Cantico dei Cantici, è colei che ricerca il proprio amato. Si è già parlato del Cantico in relazione a Clorinda, ma qui il suo influsso pare riemergere per permettere lo svolgimento di quella parte che a Clorinda non compete: quella della quête amorosa, che sarà appunto essenza dell’agire di Erminia.

Erminia dinanzi al re Aladino finge, come «una sorta di Ulisse in femminea veste»:10

Infingevole è Erminia, per il quasi intero arco della sua vita poetica: nella prima apparizione, quando

mostra al re Aladino i guerrieri del campo crociato e fra essi Tancredi, copre sotto il manto dell’odio il desiderio d’amore, e fa credere di usare in senso proprio i termini della strage, della ferita, della prigionia, della vendetta, che vanno invece letti nell’altro universo di discorso – quello, appunto, della passione, in cui ricevono un rilievo ad un tempo topico e marcato, prevedibile e pur sorprendente nella sua quasi fanatica sensualità; si pensi all’ottativo: oh prigioniero / mio fosse un giorno!.[…] / Vivo il

vorrei […] [III 20, 1-3].11

Erminia parla di amore come fosse odio, di desiderio come fosse vendetta. Sa bene che da tale desiderio non c’è guarigione, «erba» o «arte maga» (III 19, 8) che tenga. Lo sa perché essa stessa si intende di erbe e di arti magiche («ella da la madre apprese/ qual più secreta sia virtù de l’erbe/ e con quai carmi ne le membra offese/ sani ogni piaga e ’l duol si disacerbe», VI 67, 1-3), proprio come Elena, che si avvale di un φάρμακον ottenuto da Polidamna l’egizia per placare l’ira e il dolore di Telemaco, di Menelao e di tutti i presenti al banchetto (Od. IV 220-232). Nella descrizione di Erminia, la crudeltà di Tancredi nella battaglia equivale a quella di Clorinda (Clorinda «ha di lor [dei cristiani] membra asperse/ le piagge, e l’onda di lor sangue ha mista», II 41, 3-4; Tancredi è visto da Erminia «i campi e le profonde/ fosse del sangue empir del popol […]», III 19, 5-6). Entrambi fieri e sanguinari, sono distanti dalla natura della principessa in esilio, che partecipa ora, dalla torre, al secondo incontro tra i due, incontro a cui lei non potrebbe mai accedere se non come spettatrice.

8 Fredi Chiappelli, in TORQUATO TASSO, Gerusalemme liberata, cit., nt. 3 a strofe 12, p. 130. 9 ENRICA SALVANESCHI,“Gerusalemme Liberata”, cit., p. 16.

10 Ibidem. 11 Ivi, p. 17.

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Così parlava, e de’ suoi detti il vero da chi l’udiva in altro senso è torto; e fuor n’uscì con le sue voci estreme misto un sospir che ’ndarno ella già preme. Clorinda intanto ad incontrar l’assalto va di Tancredi, e pon la lancia in resta. (III 20, 5-8; 21, 1-2)

Come già accaduto tra le stanze 12 e 13, così accade di nuovo tra le stanze 20 e 21: Erminia va verso la torre e «Clorinda intanto incontro ai Franchi è gita» (III 13, 1); Erminia dalla torre parla di Tancredi e «Clorinda intanto ad incontrar l’assalto/ va di Tancredi» (III 21, 1-2). C’è una specularità necessaria tra il microcosmo di Erminia, conchiuso nella misura della corte, nella struttura della torre, e l’azione e gli spazi aperti di Clorinda, che si volgono all’incontro con l’esercito, e con il guerriero desiderato da Erminia, che può solo essere guardato da lei dall’alto e chiuso nella scorza di guerriero, e che Clorinda incontra in uno scontro bellico. La torre, il luogo da cui proviene Clorinda e che Clorinda fugge («Fuggì gli abiti molli e i lochi chiusi», II 39, 5), si fa snodo e scarto tra le due, ma si carica di una caratteristica nuova: una ritrosa eppur pervicace forma dell’agire, una femminea eppur virile attività, il desiderio.