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«Era la notte» (XII 1, 1). Così si apre il canto XII, e così si apriva l’episodio della fuga disperata di Erminia al canto VI, 103, 1. Come giustamente glossa Chiappelli, «il virgiliano nox erat prende più importanza ed estensione, per essere all’inizio del canto e per rappresentare, più che un’indicazione oraria, un elemento tenebroso e suggestivo che fa intimamente parte della storia».1 E in effetti tutto l’episodio – o almeno tutta la prima parte di questo – gioca sul cromatismo. Se la bimba Clorinda raccontata da Arsete avrebbe dovuto essere nera tra neri, ed è nata bianca, qui Clorinda rinuncia in parte al proprio biancore per farsi nera. Si insisterà sugli effetti cromatici nell’arco del canto, e in particolare sul rosso del sangue, sull’oro della veste lacerata dalla spada, sullo scolorarsi di Clorinda, che si fa fiore, e sulla luminosità dell’apparizione celeste di lei. Tale insistenza sul dato cromatico conferisce particolare senso al canto nell’insieme.

È notte, una notte insonne per entrambi gli schieramenti, come si evince dalla prima strofe. Ma in particolare è insonne per Clorinda:

Curate al fin le piaghe, e già fornita de l’opere notturne era qualcuna; e rallentando l’altre, al sonno invita l’ombra omai fatta più tacita e bruna. Pur non accheta la guerriera ardita

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l’alma d’onor famelica e digiuna, e sollecita l’opre ove altri cessa. Va seco Argante, e dice ella a se stessa: «Ben oggi il re de’ Turchi e ’l buon Argante fêr meraviglie inusitate e strane,

ché soli uscîr fra tante schiere e tante e vi spezzâr le machine cristiane.

Io (questo è il sommo pregio onde mi vante) d’alto rinchiusa oprai l’arme lontane, sagittaria, no ’l nego, assai felice. Dunque sol tanto a donna e più non lice? Quanto me’ fôra in monte od in foresta a le fere aventar dardi e quadrella, ch’ove il maschio valor si manifesta mostrarmi qui tra cavalier donzella! Ché non riprendo la feminea vesta,

s’io ne son degna e non mi chiudo in cella?» (XII 2-4, 1-6)

Abbiamo già assistito a un monologo notturno, quello di Erminia, appunto. Erminia che, ricordiamo, piangeva la propria sorte e invidiava Clorinda o, per essere più precisi, una peculiarità di Clorinda: la libertà. Mettendo a confronto la strofe 82 del VI canto con i versi qui riportati, si ritrova una delicatissima filigrana delle parole di Erminia sotto quelle di Clorinda, e alcune importanti parole- rima che si ripresentano, come «donzella» («beata è la fortissima donzella», VI 82, 2; «mostrarmi qui tra cavalier donzella», XII 3, 4) e «cella» («né ’l suo valor rinchiude invida cella», VI 82, 6; «e non mi chiudo in cella?», XII 4, 6). Ritornano anche parole chiave interne al verso, quali «valore» («né ’l suo valor rinchiude invida cella», VI 82, 6; «ch’ove il maschio valor si manifesta», XII 4, 3) e «vanto» («e non l’invidio il vanto», VI 82, 3; «questo è il sommo pregio onde mi vante», XII 3, 5). Quest’ultimo termine riporta, del resto, al mondo dell’epica, e la sua relazione a Erminia e Clorinda fa ripensare all’Iliade di cui le due donne sembrano, in effetti, essere figure traslate nella

Gerusalemme tra Elena, Patroclo e Achille. Erminia rivolge tutti questi termini a Clorinda, e Clorinda

li rivolge a se stessa, in una strana, significativa mise en abîme. Importante è, oltretutto, rilevare che, specularmente a Erminia, Clorinda si rinchiuda in una sorta di esame di sé; ma Erminia torna spesso su questa modalità: parla con se stessa, parla di sé (con il vecchio pastore al canto VII, con Vafrino al canto XIX). Clorinda di solito è impenetrabile, e non parla né a sé ne di sé. Eppure qui assume i tratti di Erminia, nella notte che le sarà fatale. E come Erminia, dovrà travestirsi, fingersi altro, per uscire dalla città e raggiungere le tende cristiane: non per amore, ma per vendetta;2 non per amare,

2 Importante, e da ripensare, il rapporto con l’Orlando ariostesco, che indossa l’armatura nera per seguire Angelica (OF VIII, 85). L’operazione di Clorinda è contraria e parallela. Indossando l’armatura nera per entrare nell’accampamento cristiano, subirà l’attacco (‘amoroso’) di Tancredi. Come per Orlando, anche per Clorinda si può dire che «l’animo era in doglia» (OF XIV 33, 7) nel momento in cui assume l’armatura nera. La ragione di questa sofferenza interiore, però, non è esplicitata, è misteriosa, e perciò potente.

152 ma per subire la violazione del proprio corpo. La notte, ancora, si stende sulle due, come un presagio oscuro, un oscuro trait d’union.

Si avverte inoltre un persistente senso di colpa – illogico, irrazionale – che si cela tra le parole di Clorinda. L’azione di Clorinda in qualità d’arciera, infatti, sembrerebbe essere stata decisiva sul campo: Clorinda, ricordiamo, ha ferito Goffredo,3 e grazie a questo l’esercito pagano ha avuto la meglio sull’esercito cristiano. Ma a Clorinda tanto non basta. Tornano allora alla mente altre parole, un altro, lontano esame di sé, che Clorinda ancora non conosce e che le verrà a breve rivelato: quello della madre, la regina d’Etiopia, colpevole di «mille altre […]/ malvagità» (XII 27, 3-4) che restano segrete ad Arsete e al lettore. La madre di Clorinda, rinchiusa nella torre, fa dell’essere prigioniera «suo diletto e pace» (XII 22, 8): altrettanto sembra fare la figlia, che si definisce, in effetti, come «sagittaria […] assai felice» (XII 3, 7). Eppure un assillo tutto interiore non la lascia: forse perché, come la madre, sente il richiamo della torre – e di una colpa tacita e inspiegabile – ma, a differenza della madre, non può sottostare alla dimensione di chiusura che la torre sottende?

Si è già parlato dell’identificazione di Clorinda, nel canto XI, con la «vergine di Delo» (XI 28, 7), Clorinda-Artemide che scoccava le frecce dall’alto. Qui, tuttavia, emerge un elemento nuovo, che pare distaccarsi, almeno parzialmente, dalla figura artemidea. Clorinda, parlando del proprio combattimento del canto XI, si descrive come «d’alto rinchiusa» (XII 3, 6), caratteristica che, come si è visto, non le appartiene.4 Clorinda cerca gli spazi aperti, la vita tra i monti – e anche in questo, forse, somiglia ad Artemide, che predilige la vita fuori dalle mura cittadine. Si descrive anche come colei che si è avvalsa delle «armi lontane» (XII 3, 6), cioè delle armi che si scoccano da lontano. Sullo sfondo notturno, nell’aria che si fa «più tacita e bruna» (XII 2, 4), Clorinda sembra assumere su di sé il peso di un’altra divinità, somigliante ad Artemide al punto da fondervisi, talvolta; έκατηβόλος, come Artemide e come Apollo, e portatrice di una fiaccola, come sarà Clorinda stessa:5

– Buona pezza è, signor, che in sé raggira un non so che d’insolito e d’audace la mia mente inquïeta: o Dio l’ispira, o l’uom del suo voler Dio si face. Fuor del vallo nemico accesi mira i lumi; io là n’andrò con ferro e face e la torre arderò […].

(XII 5, 1-7)

Ritorna, in questa immagine ignea, il segno della regina d’Etiopia: «s’accesi ne’ tuo’ altari umil facella», disse appunto la madre di Clorinda rivolta al santo (XII 28, 3). Non «ferro e face» (XII 5, 6)

3 Supra, I.5.2-3.

4 Supra, I.1.3-5; I.2.5.

153 branditi da Clorinda, ma «umil facella» (XII 28, 3): in entrambi i casi, le due figure virginali – la vergine Clorinda, e la madre-sposa dalle «intatte/ membra» (XII 27, 1-2) – portano la luce del fuoco, sono, in altre parole, φωσφόροι, seppur (apparentemente) di segno opposto: la madre dona il fuoco al dio, al santo; Clorinda col fuoco distrugge. Importante è questo ritorno virginale della regina, l’insistenza, davanti alla divinità, sul fatto che «intatte/ son queste membra e ’l marital […] letto» (XII 27, 1-2). La regina è madre ed è sposa, ma allo stesso tempo è ‘intatta’, come ‘intatto’ è il letto, benché «marital».6 Clorinda, vergine guerriera, è «ne l’arme consorte» di Argante, scopriamo qui al canto XII (7, 7). C’è una rispondenza dunque, e non solo superficiale, tra le due donne, che condividono un ultimo segno, il nero che Clorinda, alla nascita, non aveva potuto prendere su di sé:7

Depon Clorinda le sue spoglie inteste d’argento e l’elmo adorno e l’arme altere, e senza piuma o fregio altre ne veste (infausto annunzio!) ruginose e nere, però che stima agevolmente in queste occulta andar fra le nemiche schiere. (XII 18, 1-6)

Proponendosi di incendiare la torre e di presentarsi di fronte ad essa «con ferro e face», vestita di nero, Clorinda, che abbiamo già visto nella veste di Cibele o Artemide,8 riconoscendosi in «colei che è lontana» o «colei che colpisce da lontano», sceglie per se stessa un ruolo nuovo: quello di Ecate, che nel segno della fiaccola pure somiglia ad Artemide, ma che a differenza di Artemide è monogenes, figlia unica, e che è «vera titanessa tra i Titani»9 come la gigantesca Clorinda, di cui peraltro viene proprio qui ribadito il suo essere monogenes – la propria unicità e irripetibilità – attraverso le parole di Arsete. Ma non solo: «Un elemento non usuale che emerge dall’analisi della genealogia della dea è il suo essere μουνογενὴς ἐκ μητρὸς “unigenita da parte materna”»;10 e si ha già avuto modo di accennare alla non partecipazione di Senapo alla nascita della guerriera.11 Ancora, a Ecate, dea lunare, dea della notte – e della morte – viene attribuita la figura della cagna o della lupa:12 Clorinda è colei che viene descritta come «famelica e digiuna» (XII 2, 6) di sangue, come la lupa «che mai empie la bramosa voglia,/ e dopo’l pasto ha più fame che pria» (Inf. I, 98-99).13

6 A proposito della complessa figura della madre-vergine, si rimanda qui a MASSIMO STELLA, Madreparola. Risorgenze

della musa tra modernismo europeo e antichità classica, Mimesis, Milano 2017, in paricolare pp. 168-176.

7 Sulla ripresa del nero dalla «nera madre» si veda PAOLO BRAGHIERI, Op. cit., pp. 118-120. 8 Supra, I.3.5-4.1; I 5.2-3.

9 KÁROLY KERÉNYI, Gli dèi e gli eroi della Grecia, cit., pp. 42-43.

10 EMANUELA CALCATERRA, Ecate Signora dei limina. Una rilettura delle fonti più antiche, «Mythos» 3 (2009), p. 99. Qui la Calcaterra riporta Hes. Th., 448.

11 Supra, I.1.

12 KÁROLY KERÉNYI, Gli dèi e gli eroi della Grecia, cit., pp. 42-43.

13 Sul rapporto tra Ecate e il cane, si veda NICOLA SERAFINI, La dea Ecate e i luoghi di passaggio, in «Kernos», 28, 2015, pp. 111-131.

154 Quale sarebbe, però, il senso di spogliarsi di un’essenza divina per indossarne un’altra? E quale sarebbe il senso della trama che unisce la figlia e la madre nel nome di Ecate, la nera Ecate portatrice di luce? Lo si comprende solo grazie al pensiero mitico che sta a monte di questi due personaggi, e dell’identità, ben studiata da Kerényi, tra Demetra, Ecate e Persefone.14 Ecco allora che Clorinda- Cibele, Clorinda-Medusa, è solo un’altra faccia di Clorinda-Demetra, la tremenda Demetra, la

Demeter Erinys.15 Ma è anche Ecate, la dea notturna, la portatrice della fiaccola, che è, come ricorda

l’Inno omerico, «πρόπολος καὶ ὀπάων, “compagna e battistrada” della fanciulla rapita»,16 cioè di Kore, di Persefone, che appunto sarà l’ultima tappa, l’ultima metamorfosi, di Clorinda.17 Qui la vergine guerriera finalmente si manfesterà com’era apparsa inizialmente a Tancredi: nella parvenza di una ninfa.18 Anche la madre, la regina, riveste queste tre identità: è la materna Demetra privata della figlia, che le viene sottratta, che viene inghiottita dal mondo infero della foresta; è la nera, notturna portatrice della «facella»; ed è l’eterna vergine, l’eterna fanciulla dall’ «immaculato […] cor» (XII 26, 1).

Ritorna, infine, una terza vergine: dopo Erminia, dopo la regina, ecco che si manifesta un altro personaggio noto, Sofronia:

Ho core anch’io che morte sprezza e crede che ben si cambi con l’onor la vita. – (XII 8, 1-2)

Potrebbero, appunto, risuonare come parole di Sofronia, queste. Ma non lo sono. È qui Argante a parlare, dopo essersi appena definito «consorte/ […] ne la gloria e ne la morte» (XII 7, 7-8). Vale la pena di confrontare questi versi con le parole che Sofronia ha rivolto a Olindo:

Ho petto anch’io, ch’ad una morte crede di bastar solo, e compagnia non chiede. – (II 30, 7-8)

Se però le parole di Sofronia sono al principio quasi identiche a quelle di Argante (identico è l’attacco, la parola-rima), l’esito si distacca: Argante pronuncia queste parole per convincere Clorinda a uscire insieme dalla città e bruciare insieme la torre; Sofronia, invece, ribadisce la propria solitudine, e la propria chiusura verso l’altro. Sofronia subisce il fuoco e il legame con Olindo; Clorinda si fa portatrice del fuoco, e accetta di uscire da Gerusalemme con il suo ‘consorte d’arme’. Lo sguardo di

14 Fondamentale, infatti, è stata la lettura di KÁROLY KERÉNYI, Kore, in CARL GUSTAV JUNG e KÁROLY KERÉNYI,

Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, cit., pp. 153-220. Alla base, naturalmente, L’inno a Demetra.

15KÁROLY KERÉNYI, Gli dèi e gli eroi della Grecia, cit., pp. 159-160. 16 EMANUELA CALCATERRA,Op. cit., p. 100.

17 Infra, I.6.3; I.7. 18 Supra, I.2.2.

155 Clorinda si è fissato una prima volta – compartecipe, pieno di lacrime – su quello di Sofronia;19 ora pare guardarla come in uno specchio, assumerne il segno e distanziarsene, superarla.

Dopo aver preso commiato da Arsete, Clorinda si fa figura infera, tra Ecate e Psiche – a sua volta notturna portatrice di fiaccola – e riceve, con Argante, il fuoco da Ismeno, il quale:

[…] lor porge di zolfo e di bitumi due palle, e ’n cavo rame ascosi lumi. (XII 42, 7-8)

I due guerrieri, «notturni e piani» (XII 43, 1), escono dalla città. Per Clorinda sarà l’ultima sortita. «Ecate guida i passaggi obbligati di uomini e dèi, in quanto esseri generati: è presente alla loro nascita e anche alla loro dipartita, benché temporanea, che può dar luogo ad una conseguente rinascita, come la discesa negli inferi di Persefone».20 Clorinda-Ecate si fa così guida del suo stesso passaggio liminale dalla vita a un’oltrevita:

Scopriro i chiusi lumi, e le faville s’appreser tosto a l’accensibil esca, ch’a i legni poi l’avolse e compartille. Chi può dir come serpa e come cresca già da più lati il foco? e come folto turbi il fumo a le stelle il puro volto? Vedi globi di fiamme oscure e miste fra le rote del fumo il ciel girarsi. Il vento soffia, e vigor fa ch’acquiste l’incendio e in un raccolga i fochi sparsi. Fère il gran lume con terror le viste de’ Franchi, e tutti son presti ad armarsi. La mole immensa, e sì temuta in guerra, cade, e breve ora opre sì lunghe atterra. (XII 45, 4 – 46)

Sofronia è salita sul suo rogo dal chiuso mondo della sua casa; Clorinda, fuggendo dalla torre, appicca il proprio rogo, in un notevole, significativo rovesciamento che supera l’appropriazione. E la torre cristiana, la «torre di legno» (XI 46, 5) che è di natura inversa alle torri di Gerusalemme e d’Etiopia, brucia e cade, prefigurando, con la sua «mole immensa» (XII 46, 7), il grande corpo di Clorinda,21 che deve cadere e che deve, come un grande rogo, estinguersi nell’acqua – quella del battesimo.

19 Supra, I.2.4-5.

20 EMANUELA CALCATERRA,Op. cit., p. 105.

21 La caduta della torre «preannuncia a sua volta il rovinoso fallimento di chi l’ha distrutta: l’impresa di Clorinda equivale infatti a un atto autodistruttivo. Nel legno – in quanto materiale infiammabile – potrebbe essere legittimo rintracciare un richiamo ai sensi e alle passioni, mentre la sostanza isolante protettiva, che contraddistingue – e difende – le nuove torri, può alludere al freno della ragione dell’autocontrollo», GEORGES GÜNTERT, Op. cit., p. 146. E in effetti, tutta la prima parte del canto XII verte intorno alla «mente» di Clorinda, che da «inquïeta» (XII 5, 2-3) si fa «irata» (XII 50, 1), e in questo vortice obnubila Clorinda, che non si avvede che la porta è stata chiusa.

156 Ancora un passaggio forse ci consente di intravedere una caratteristica di Ecate, prima che si giunga al combattimento con Tancredi:

Aperta l’Aurea porta, e quivi tratto è il re, ch’armato il popol suo circonda, per raccôrre i guerrier da sì gran fatto, quando al tornar fortuna abbian seconda. Saltano i due su ’l limitare, e ratto diretro ad essi il franco stuol v’inonda, ma l’urta e scaccia il Solimano; e chiusa è poi la porta, e sol Clorinda esclusa. Sola esclusa ne fu perché in quell’ora ch’altri serrò le porte ella si mosse, e corse ardente e incrudelita fora a punir Arimon che la percosse. Punillo; e ’l fero Argante avisto ancora non s’era ch’ella sì trascorsa fosse, ché la pugna e la calca e l’aer denso a i cor togliea la cura, a gli occhi il senso. Ma poi che intepidì la mente irata nel sangue del nemico e in sé rivenne, vide chiuse le porte e intornïata sé da’ nemici, e morta allor si tenne. Pur veggendo ch’alcuno in lei non guata, nov’arte di salvarsi le sovenne.

Di lor gente s’infinge, e fra gli ignoti cheta s’avolge; e non è chi la noti. Poi, come lupo tacito s’imbosca dopo occulto misfatto, e si desvia, da la confusïon, da l’aura fosca favorita e nascosa, ella se ’n gia. (XII 48 – 51, 4)

Clorinda-lupo giunge alla Porta Aurea e si accorge di essere chiusa fuori. Il lupo, appunto, è un elemento di Ecate, ma c’è di più:

Se nel mito Ecate abita i profondi recessi della terra, una grotta o un luogo sospeso fra le tre dimensioni in cui agisce, anche nella sfera cultuale le appartengono i punti di transito, gli spazi di confine e i luoghi di passaggio. Eschilo qualifica Ecate come πρόδομος, «che sta di fronte», e Aristofane definisce ἑκαταῖα i tempietti posti a protezione delle case. Ad Atene la dea era chiamata προθύραια, «che sta di fronte la porta» e Ἐπιπυργιδία «protettrice delle torri». […]. La dea φωσφόρα «portatrice di luce» presenzia trivi, soglie, entrate di acropoli e santuari, tutti luoghi “liminali” che segnano un punto di confine e di contatto fra due dimensioni.22

Come Ecate, Clorinda si è fatta «protettrice della torre». Adesso, Clorinda-lupo, sul liminare della propria esistenza, si accosta al limen per eccellenza, la porta. La porta, però – e di Porta Aurea si

157 tratta, com’è aurea Clorinda stessa, e come si rivelerà poi la sua veste sotto l’armatura nera – è sintomaticamente chiusa, chiusa come lei, virginalmente.23 Nascosta e avvolta nel nero dell’armatura, nell’oscurità all’intorno, nel fumo, Clorinda-Ecate passa non vista da alcuno (e in filigrana, nei termini «s’infinge» e «s’imbosca», XII 50, 7; 51, 1, ritorna Erminia, l’«infingevole» Erminia, III 19, 1): «Va girando colei l’alpestre cima/ verso l’altra porta, ove d’entrar dispone» (XII 52, 3-4). Un’altra porta, un altro limen che forse le consente di entrare: ma è tardi. «Tancredi avien che lei conosca» (XII 51, 5) e la sfida. Clorinda si appresta a varcare un altro confine, quello della trasformazione: «e ferma attende» (XII 53, 2).