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Play Theory in Game and Media Studies

1. Playing with (video)games

1.4. Bad play e play as form

Se lo strutturalismo serve a Juul per spiegare gli elementi del gioco, il formalismo russo dà a David Myers l’opportunità di spiegare le implicazioni del play espellendo dal quadro tutte le questioni culturali a esso tipicamente legate. L'aspetto più singolare è che qui il formalismo serve a rinvenire delle invarianti in quell'attività (o processo) che i ludologi giudicano negletta e che Huzinga e Caillois faticano a imbrigliare nel loro schema.

Myers considera to play a game omologo a to read a book: entrambi prevedono regole necessarie per la creazione di un’esperienza, un set di comportamenti e una certa predisposizione soggettiva. Per Myers “giocare” è sempre “giocare con qualcosa” (to play with something): una forma tipica dell'uomo che non muta col mutare dei giochi e degli oggetti coinvolti. Date le categorie prototipali di

play – locomotor, object, social – sono tre le forme e gli oggetti tipici del giocare:

manipolazione dell'interfaccia tra corpo e ambiente; trasformazioni di sensazioni in

31 In un articolo online, il game designer Stephen P. Anderson, affronta il rapporto inverso tra goal, regole e sistemi aperti (sandbox o possibilities engine). Mettendo a confronto exhaustible system (sistemi-giochi con path ben definiti e costruiti sul classico modello di rewarding) ai possibilities engines (sistemi-gioco con pochissimi paletti), Anderson si interroga sul segreto dell’appeal di forme ludiche con paletti auto-imposti e di volta in volta (ri)generati sull’onda del bisogno di nuove affermazioni. Di che forma di gioco stiamo parlando? Free form play? Paidia? Ludus?. Per un approfondimento si rimanda a: Anderson, “From paths to sandboxes”, Poetpainter, 12/09/2013, http://www.poetpainter.com/thoughts/article/from-paths-to-sandboxes (ultima consultazione: 01/12/2013).

oggetti concettuali; costruzione, mantenimento e sostegno dei rapporti con gli altri. Il termine “oggetto” merita qualche parola di approfondimento: per il semiologo, esso include sia gli oggetti reali, sia il valore che scaturisce dalla rappresentazione degli stessi. A questi vi si aggiunge la relazione tra i due che ha forma costante a prescindere dal variare di oggetti reali e valori – è per questa caratteristica che il gioco del TicTacToe può essere descritto attraverso le sue regole e meccaniche ma anche sostituendo X e O con qualsiasi altro oggetto.

Volendo sintetizzare, l’assunto di base dell’intero impianto teorico è che le regole guidano il gioco ma non lo determinano poiché possono diventare esse stesse oggetto del gioco. Ed è qui che Myers arriva al punto definendo questa specifica natura come un anti-form, una qualità intrinseca del giocare che mostra sempre qualcosa che non è (Bateson è il riferimento principale) e che risponde sempre agli stessi meccanismi. Ora, affinché il divorzio dal contesto culturale sia operato, non basta dichiarare l'auto-riflessività e l'auto-sufficienza del play così come il rifiuto per qualsiasi interesse verso intenzionalità autoriali e interpretazione dell'audience. Myers ha bisogno di confrontarsi con i suoi illustri predecessori che non sconfessa, ma chiama a supporto per corroborare la propria causa. Huizinga, nota Myers, pur affermando il valore di play come fenomeno culturale, si lascia scappare che tale attività sia innata nell'uomo e antecedente alla cultura umana o persino alla formazione del linguaggio (come vedremo, il contributo di Murray ci permetterà di approfondire la questione). Caillois, nell'elencare le proprietà formali del play, non fa mistero di pensare a proprietà universali che non pregiudicano in nessun modo il contenuto del gioco. L'idea di play come elemento biologico è confermata da Sutton-Smith (1997) e dalla sua nozione di adaptive variability in cui l'atto del giocare è visto come rinforzo, sostegno, banco di prova per il progresso della specie, strumento di adattamento (affronteremo Sutton-Smith subito dopo questo paragrafo). Insomma, una sorta di arena in cui provare il sapore della battaglia per la sopravvivenza. Tuttavia, per il semiologo i tre sono colpevoli di non aver osato portare alle estreme conseguenze il loro approccio preferendo scendere a patti con la cultura.

L'esercizio da svolgere è allora tentare di arrivare a una concezione del giocare come attività esclusivamente biologica, scevra da qualsiasi interferenza esterna e Myers sceglie i giochi digitali per il suo esperimento. Sia perché più affini al concetto di formalismo – il codice digitale è misurabile e determinabile rispetto al codice dei giochi pre-digitali (regole). Non a caso, egli li definisce:

most essentially semiotic machines that governate and transform meanings through the coded manipulation of signs and symbols [...] the procedural structures of computer game design and play may be considered homologous to the human cognitve structures that enable them. [they have] the potential to emulate the representational qualities of the human mind in form and, perhaps, in function32.

Sia perché convinto del fatto che i videogiochi realizzino una specifica anti-form – benché tale caratteristica sia applicabile a tutti i giochi in genere. Ora, là dove molte delle teorie legate al concetto di play sono state caratterizzate da una certa visione positiva, specialmente quando l'analisi ha preso le mosse dalla psicologia (sviluppo dell'essere umano e in particolar modo del bambino) o dall'evoluzionismo (play come elemento chiave per lo sviluppo e la tutela della specie), nessuno ha indagato cosa si celi dietro una delle forme più tipiche di play annoverabile sotto il cappello di bad

play. Proviamo a mettere meglio a fuoco il quadro generale. Myers distingue tra due

tipologie di gioco nocivo in contrasto con il good play (giocare secondo le regole, le attese sociali positivamente sanzionate): harmful play (gioco pericoloso, rischio) e

play against the rules (gioco contro le regole). Sotto il primo vanno annoverate tutte

quelle attività che seppur rischiose dal punto di vista fisico, sono in grado di generare piacere (sport estremi in tutte le varie declinazioni più o meno competitive, sino ad arrivare al dark play o forme aggressive del gioco dell'infanzia – si pensi al bullismo). Dato che spesso giocare con i media digitali (computer game inclusi) rappresenta un'attività ludica relativamente sicura dal punto di vista fisico, l'elemento “negativo” va ricercato altrove ovvero nel rapporto tra play e regole. In questo caso, per

rules-breaking play si intende qualsiasi attività non esplicitamente consentita dalle regole

così come rappresentate dal codice del gioco33 o meglio qualsiasi forma di gioco con le regole codificate. Molto spesso tale tipo di attività è interpretata come contraria allo spirito del gioco (exploit) poiché conduce a forme di vantaggio normalmente non ottenibili – approfondiremo più avanti questi aspetti con il contributo di Taylor (2006). Appare appropriato notare che il ricorrere di questa forma di gioco sembra

32 Myers, Play Redux. The Form of Computer Games, Ann Arbor, University of Michigan Press, 2010, cit., pag. 5.

33 La differenza è sottile: qui Myers intende distinguere tra attività di trasgressione che mantengono integro il codice (e quindi il gioco e la sua esecuzione) e attività che nella trasgressione di fatto distruggono il gioco (per esempio, staccare l’alimentatore del computer durante una sessione di gioco).

più frequente quando per qualche motivo i giochi nascondono le proprie regole (si pensi ai giochi di esplorazione), nonostante una simile inclinazione presupponga una conoscenza delle regole approfondita come condizione necessaria per raggiungere una forma più “libera” di interazione. Vista la diffusione di queste forme di play, spesso sono gli stessi game designer a prevedere regole per infrangere le regole –

cheat code – e regole trasformative come atto di negoziazione tra giocatore e sistema

di gioco in continuo divenire improntato all'apprendimento delle stesse norme attraverso tentativi, ricostruzioni, distruzioni – recursive contextualization. Per comprendere meglio le conseguenze di questa impostazione, bisogna scendere nel dettaglio della distinzione che Myers opera tra i giochi come forme rappresentazionali. Dice il semiologo:

The representational forms of video games may be distinguished in terms of the relationship the game establishes among out-of-game objects and in-game representations [...] These relationships may be oriented either inward or outward, either toward objective correlation or toward subjective introspection. At one extreme, the conceptual objects of video game play may be designed to portray, as realistically as possible, their out-of-game referents. Therein, the video game becomes a simulation. This simulation must then restrict—or attempt to avoid entirely—the consequences of an anti-form [...] At the other extreme, the conceptual objects of video game play may include the game itself. Playing with—rather than according to—game rules disrupts and ultimately destroys those rules through the self-reflexive application of anti-form. In this extreme, game play becomes increasingly selfish and less dependent on either the game design or the intent of the game designer34.

In questo schema di massima, le regole vanno intese come algoritmi che puntano a qualche altro oggetto, processo o obiettivo: nei computer games essi puntano principalmente a offrire una esperienza gratificante; in una simulazione essi hanno il compito di modellare una precisa serie di meccaniche (si pensi alla fisica applicata a un simulatore di volo). Questa differenza resta intatta anche approcciando le due esperienze dal punto di vista dell'infrazione delle regole: nel caso della simulazione, il

bad play è funzionale e serve come fase di acquisizione di competenze in vista di una

34 Myers, “The Videogame Aesthetic: Play as Form” in Perron, Wolf (ed.), The Video Game Theory Reader 2, New York and London, Routledge, 2009, cit., pagg. 54-55.

performance migliore (rules learning e quindi funzionale) quasi come se le regole fossero una sorta di manuale; nel gioco, questa direzione verso il good play non si manifesta (rules breaking e quindi disfunzionale), anzi spesso si arriva a situazioni estreme in cui ci si sbarazza completamente delle regole. Tuttavia, se ci si libera di entrambe le etichette funzionale/disfunzionale, per Myers non resterebbe alcuna evidente differenza formale con la conclusione che nei giochi, così come nelle simulazioni, contravvenire alle regole ha sempre uno solo e il medesimo scopo: l'esplorazione delle regole per capirne presenza e funzione. Tale condotta resta intatta quando si confronta il rapporto tra giocatore e interfaccia nelle prime sessioni di gioco. Anche in questo caso, il bad play serve uno scopo funzionale del tutto simile alla simulazione: una volta raggiungo un livello di “maestria” adeguato, il giocare torna nei ranghi seguendo la via delle regole e dal giocar con o contro l’interfaccia, si passa a usarla per superare le regole del gioco. Qualcosa di molto simile avviene con i giocatori esperti: più si conosce il gioco, più la loro attività si fa “libera” in risposta alle personali esperienze e agli obiettivi prefissi. La recursive contextualization sposta le coordinate dell'esperienza dal gioco al meta-gioco.

Se fin qui regole e infrazioni sono state ricondotte a gioco e simulazione, cosa succederebbe se si tentasse di implementare una free-form play attraverso il codice di gioco? Myers cita Suber che per primo nota il paradosso auto-distruttivo cui si giunge quando sistemi basati su regole (che si tratti di sistemi biologici, politici o sociali) cercano di cambiare non le regole, ma i sistemi stessi di cui sono parte. Usiamo lo stesso esempio di cui si avvale il semiologo. Nomic35 (1982) è un gioco inventato dallo stesso Suber le cui regole prevedono meccanismi di modifiche delle stesse (play

of self-amendment). In particolare, la regola 213 sancisce la fine della partita nel caso

in cui un cambio di regole rendesse impossibile continuare il gioco e assegna la vittoria al primo giocatore impossibilitato a completare la mossa. Per Myers:

• Nomic è una simulazione di un processo di rules-making ove la vittoria è raggiunta infrangendo le regole di quel processo;

• in questo caso play è da intendere come una simulazione di un processo di

rules-making simulato;

• l'attività di gioco (play) deve rimanere una simulazione del processo di infrazione delle regole e mai diventare il processo di infrazione vero e proprio per evitare di bloccare il processo stesso;

• come simulazione, si è liberi di trasformare qualsiasi regola senza alcuna conseguenza;

• poiché sistema, Nomic non è in grado di trasformare il play of self-amendment al quale le sue regole fanno riferimento. Se la cosa dovesse succedere, la norma 213 decreterebbe la fine del gioco

Per Myers, le conseguenze di questo ultimo paradosso sono chiare: se le regole del gioco (rules of game) possono essere liberate dal contesto di gioco diventando auto-riflessive, auto-trasformarsi o auto-distruggersi, nel caso delle regole del giocare (rules of play), esse sono irrimediabilmente ancorate al loro contesto biologico il che vuol dire che play non solo non può non produrre paradossi, ma che ai suoi paradossi deve sempre sopravvivere.

Figure 4 - Play e struttura per Myers

Con questo ultimo tassello, si chiude il quadro. Se regole e algoritmi sono rappresentazioni, è possibile indicare per ognuna una propria forma semiotica: regole e algoritmi della simulazione puntano verso un processo oggettivo (es. realtà); regole e algoritmi del gioco puntano all'esperienza soggettiva (es. divertimento); regole e algoritmi del giocare (play) puntano invece al processo stesso (una simulazione del simulare). Se si gioca con una simulazione, essa si trasforma in gioco; se si gioca con il gioco, esso diventa play mentre non è possibile to play with play. Myers riesce non

solo ad applicare una struttura a quanto fin qui impensabile, ma trasforma la stessa nozione di libertà del play dimostrando l'esistenza di un meccanismo in grado di regolare detta forma libera (Figure 4). Nel fare questo, egli si libera del contesto culturale in favore di una nozione biologica del giocare che appare sempre finalizzata all'avanzamento, alla progressione. E questo basta a gettare un ponte verso il contributo di Sutton-Smith.