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Gioco, psicanalisi e fan

Play Theory in Game and Media Studies

2. Playing with media

2.6. Affective play o fan as player

2.6.1. Gioco, psicanalisi e fan

Winnicott (2006) studia le implicazioni del giocare – play come attività creativa – sulla formazione del sé tanto nel bambino quanto nell'adulto secondo l’idea di un continuum che segue tutto lo sviluppo del soggetto. La parola “creatività”, avvisa Winnicott, non va:

65 Per chiarire: per Flaming l’opposizione si genera tra l’identità che la narrazione televisiva impone e quella negoziata dal giocattolo che occupa uno spazio che la televisione non può controllare. Non è un caso che per il bambino, il giocattolo del capitano Pickard non trattenga nessuno dei costrutti identitari maschili imposti dallo schermo e allo stesso modo il suo identificarsi con il Borg è l’identificazione con il mostro, una lettura, quest’ultima, che la televisione mai propone. Cfr. Fleming, Powerplay: Toys as Popular Culture, Manchester and New York, Manchester University Press, 1996.

confusa con la creazione riuscita o acclamata, ma che la mantenga limitata al significato che si riferisce a una sorta di colorazione dell'intero atteggiamento verso la realtà esterna [...] è la percezione creativa, più di ogni altra cosa, che fa sì che l'individuo abbia l'impressione che la vita valga la pena di essere vissuta66.

Per questo, è necessario operare una separazione dalla creazione tipica dei lavori artistici: persino un pranzo, avvisa lo psicanalista, può essere creativo e spiegare il modo che l'individuo ha di relazionarsi con la realtà esterna. Intesa come qualità innata dell'essere umano attraverso cui una persona si forma, vive e partecipa all'interno di una comunità, è più che condivisibile sostenere che ogni attività umana sia creativa.

Il primo obiettivo che Winnicott si prefigge è arrivare a uno studio del gioco per sé come universale. Non focalizzarsi solo sul contenuto – colpa grave di cui si sono macchiate tutte le precedenti teorie sulla personalità – per essere così liberi di guardare al bambino che gioca:

[per comprendere l'idea del gioco] è utile pensare alla preoccupazione che caratterizza il gioco di un bambino piccolo. Il contenuto non importa; ciò che importa è lo stato di quasi isolamento, simile alla concentrazione dei bambini più grandi o degli adulti [...] questa area di gioco non è la realtà psichica interna. Essà è fuori dell'individuo, ma non è il mondo esterno. [Qui] il bambino raccoglie oggetti o fenomeni dal mondo esterno e li usa al servizio di qualche elemento che deriva dalla realtà interna o personale. [...] Il gioco è intrinsecamente eccitante e precario. Questa caratteristica non deriva dall'eccitamento istintuale, ma dalla precarietà insita nell'influenza reciproca, nella mente del bambino, tra ciò che è soggettivo [...] e ciò che è oggettivamente percepito (realtà vera o condivisa)67.

Winnicott pone il gioco all’interno di uno spazio di mezzo che è innanzitutto uno spazio della contraddizione: qui l'individuo trova riposo dalle fatiche del paradosso quotidiano che lo vede impegnato a tenere separate e comunque unite la sua realtà interna e quella esterna dando vita a un continuo gioco di contrasti e transizioni, di affetti e oggetti. In questo spazio, il soggetto prende pieno possesso (passando dal controllo magico alla manipolazione diretta) ed estende il suo investimento affettivo a

66 Winnicott, Gioco e Realtà, Roma, Armando Editore, 2006 (ed. orig. 1971), cit., pag. 109.

oggetti che sono riconosciuti come distinti dal proprio corpo, ma non totalmente esterni e attraverso di essi inizia la transizione verso l'identificazione del sé come “non-me” e l'individuazione dell'esistenza di un mondo esterno. Tale processo è generato da un senso di mancanza: da una fase in cui il neonato si trova in un iniziale stato di completezza e pieno controllo in cui non c'è alcuna distinzione tra sé e il resto del mondo, si passa a uno stato in cui il senso della totalità è perso e bisogna ricorrere alla mediazione degli oggetti per superarlo. In questo spazio, quindi, si realizza l'illusione – gioco per antonomasia – della vicinanza alla madre che si allontana pur restando vicina (l'oggetto transizionale funge da surrogato). Esso è lo spazio del dubbio irrisolto: questi oggetti sono creati dall'individuo come risposta a determinati istinti o sono già esistenti nel mondo68, ma affinché il gioco funzioni, il dilemma su questo stato di esistenza non va mai risolto:

[...] dell'oggetto transizionale si può dire che vi sia un'intesa tra noi e il bambino sul fatto che noi non porremo mai la domanda: “Hai concepito tu questo o si è presentato a te da fuori?”. Il fatto importante è che non ci si aspetta nessuna decisione su questo punto. La domanda non va formulata69.

Nello spazio e nel tempo del paradosso, il giocare diventa un modo soggettivo di trattare la realtà.

A questo punto la difficoltà sta nel portare il contributo di Winnicott all'interno dei fan e dei media studies, dal giocattolo-surrogato ai testi. Convinti della necessità di uno studio che si focalizzi sui processi di generazione del piacere da parte dei fan, Harrington e Bielby più di altri hanno accostato il lavoro di Winnicott alle soap opera notando come il dialogo tra finzione e reale tipico del genere rappresenti un perfetto spazio transizionale. Per Hills il vero problema che chi l'ha preceduto non ha saputo superare è proprio questo: applicare le teorie di Winnicott così come sono state formulate senza accorgersi che spesso questa ottimistica estensione richiedesse

68 Questo paradosso ben si esplicita nell’allattamento del bambino da parte della madre. In risposta a una certa situazione istintuale, la madre offre il seno, e quindi sé stessa, al bambino per nutrirlo. Questo adattamento (e risposta) ai bisogni del bambino, fornisce al piccolo l’illusione di una realtà esterna come conseguenza della sua capacità di creare e quindi un contatto tra quanto dato dalla madre e ciò che è dato dal bambino. Là dove un occhio esterno percepisce il seno come ciò che la madre realmente offre, il bambino percepisce il seno solo ed esclusivamente come qualcosa che può essere creato solo in quello spazio e un quel preciso istante. Cfr. Ivi, pagg. 34-35.

più di un adeguamento. Infatti, sebbene Winnicott confermi la possibilità del proper

transitional object di transitare dal mondo del bambino al mondo (oggettivo o

intersoggettivo) della cultura adulta, egli non spiega mai come tale passaggio sia operato ovvero come il bambino sia in grado di passare dall’esperienza privata alla sua condivisione con la comunità di appartenenza. Winnicott allarga i concetti di gioco e creatività al mondo adulto sostenendo che dall'oggetto si passa al gioco creativo della manipolazione di simboli e costrutti che garantiscono l'accesso a una vita culturale. Ma non va oltre a questo. Hills suggerisce che il passaggio dallo spazio soggettivo individuale a uno intersoggettivo possa essere possibile solo alla presenza di un nuovo oggetto transizionale di ordine differente rispetto al primo, un oggetto in grado di darsi come un testo ben più sofisticato del precedente. La televisione ha tutte le carte in regola per essere un oggetto transizionale in virtù della sua continua presenza e disponibilità materiale: il soggetto può distruggerla sottraendola alla sfera della magia, portarla nel terzo spazio e quindi usarla riconoscendo la sua condizione di oggetto del mondo esterno. Tuttavia, affinché da qui essa possa uscire e diventare parte della cultura è necessario che essa generi un oggetto transizionale secondario (secondary transitional object) ovvero un oggetto transizionale nuovo che si costituisca come esperienza comune pur mantenendo – caratteristica tipica delle fandom – un tratto creativo prettamente soggettivo. Tale oggetto abita lo stesso terzo spazio individuato da Winnicott: tuttavia, seppur alla presenza di un oggetto transizionale carico di un portato culturale, non siamo ancora all’interno di un luogo della cultura condivisa, ma in una zona intermedia della cultura personalizzata. Un simile oggetto si possa ottenere in due modi:

it may be a transitional object which has not altogether surrendered its affective charge and private significance for the subject, despite having been recontextualised as an intersubjective cultural experience. [or it] may instead be arrived at by virtue of its absorption into the subject's idiosyncratically-located third space. In this case, [it] enters a cultural repertoire which 'holds' the interest of the fan and constitutes the subject's symbolic reject of self70.

In pratica, Hills (2002) raggiunge il suo obiettivo assemblando un modello teorico-scientifico in grado di dare senso della componente soggettiva del fan. Con un

piccolo compromesso rispetto alla sua idea di partenza: legittimare fan e investimento affettivo senza potersi liberare completamente delle sovra-strutture della cultura. Con la prima definizione, egli mette in luce il processo creativo di interazione fisica, come frutto di un investimento diretto, tensione tra l'esperienza culturale intersoggettiva e il significato personale attribuito e tanto basta a spiegare il termine “proprietà” rispetto alla dialettica valoriale della fan culture. Con la seconda definizione, si spiega come l'interesse del fan possa essere esteso e ricollocato attraverso il contagio affettivo per mezzo della reta di connessioni intertestuali. Dal che se ne deduce che lo spazio terzo possa includere i processi “fisici” di trasformazioni degli oggetti, ma che è anche in grado di estendersi e ridefinirsi a seconda degli oggetti incontrati dal soggetto. Queste dinamiche di interazione e ritenzione dipendono da un indice di appropriatezza culturale: programmi televisivi per bambini possono fallire nel cercare l'interesse del proprio pubblico, perché “svalutati” dal genitore o per l'azione di altri marcatori sociali che pressano il bambino. Altre volte può intervenire il fattore qualità in relazione alla mercificazione dei testi mediali: in tal caso è l'industria culturale con il suo ciclo produttivo serrato a dettare i tempi di adozione e dismissione degli oggetti pressando l'individuo affinché passi al prossimo oggetto dimenticando il precedente. Altre volte, l'oggetto transizionale è un oggetto dell'infanzia che torna in età adulta per ricostituire uno spazio sicuro in cui lasciarsi andare all'investimento affettivo (frequente, soprattutto, nel caso della riscoperta di oggetti tecnologici obsoleti). Si può andare ben oltre dicendo qualcosa che Huizinga e Caillois, senza attingere dalla psicanalisi e del tutto ignari del senso di quel “fan”, avevano già detto: “affective play 'creates' culture by forming a new 'tradition' [...] which can be drawn on throughout fans' lives”71. Questo processo di creazione genera per Hills (2002) una struttura/non-struttura (spazio di mezzo delimitato dalla propria soggettività e allo stesso tempo in grado di estendersi) in un gioco di infinità variabilità tra illusione e realtà, tra creato e trovato, tra affetto, emancipazione e gioco.

In pratica, Hills ripiega sulla nozione di oggetto transizionale sostenendo il carattere ludico di questo oggetto e la possibilità di applicare i modelli dello sviluppo del bambino alle pratiche di fruizione mediale tipiche degli adulti. Nel fare questo, pare spostare tutto il peso del discorso verso l'agency dei fan quanto sottolinea che detti oggetti possono essere creati o trovati. Sandvoss (2005) nota che questo

spostamento è tanto più evidente quanto più ci si accorge che Hills si disfa di qualsiasi elemento che non sia inerente alla mera performance: proprio questo fa quando rifiuta il modello di Harrington e Bielby poiché troppo dipendente dai modelli di produzione e testualità della soap che sanno di eccessiva razionalizzazione72. Sandvoss è ancora più critico quando dubita sull'effettiva possibilità di ricorrere a due oggetti transizionali di diverso livello per l'attualizzazione del processo di estensione dell'oggetto transizionale a un più ampio contesto culturale. L'oggetto transizionale proprio non è mai esclusivamente privato, così come l'oggetto delle fandom non è mai meramente intersoggettivo. Se per Hills questo ingresso nel campo condiviso della cultura è garanzia per l'interruzione di un processo di regressione (dell'oggetto e dell'individuo), Sandvoss rintraccia nella componente emozionale il pericolo della regressione sia nella natura privata dell'oggetto (come mancato accesso allo spazio della cultura), sia nel riproporsi della condizione di mancanza iniziale. Proprio per questo motivo, una separazione tra due oggetti simili appare poco appropriata.

A nostro avviso, l'utilità di Sandvoss nel rileggere Hills è da ricerca fuori da queste schermaglie. A fare la differenza è la consapevolezza dell'impossibilità di separare un qualsiasi modello di analisi delle fandom dal contesto sociale, testuale e tecnologico in favore di gioco, performance e attività. Nonostante una tendenza opposta della ricerca interdisciplinare, più attenta alle dinamiche che alla sostanza dei contrasti tra interno ed esterno. Secondo Craib (2001), parecchio critico circa l'adozione e l'estensione interdisciplinare di un Winnicott fin troppo popolare, tale condizione sarebbe la conseguenza di una:

contemporary tendency to idealize children, to see them doing no wrong except that which comes to them from the outside [...] is responsible not only for some of Winnicott's popularity, but also for some of the way he is misread or misunderstood73.

L'avviso di Sandvoss è chiaro: se da una parte il ricorso a Winnicott rileva l'importanza del ruolo di un'area della negoziazione tra il dentro e il fuori, tra piacere e sicurezza, il giocare deve necessariamente essere messo in contesto per analizzare tanto l'attitudine quanto il suo contenuto, a prescindere da cosa Winnicott dichiarasse.

72 Sandvoss, Fans, Cambridge, Malden, Polity Press, 2005, pag. 67-94.