Play Theory in Game and Media Studies
2. Playing with media
2.1. Play (theory) e Mass Media
2.1.1. Problemi e ambiguità in Stephenson
Insomma, nel proclamare una funzione positiva dei mass media (anche se non in via esclusiva) come strumento di intrattenimento dell'audience che vi si relaziona secondo i principi del gioco, pare che Stephenson offra più dubbi di certezze. Kucklich ne fa una lista11: non è mai completamente chiaro cosa sia questo subjective
play e a poco serve la ricerca verso una teoria del piacere dell'ego; la convergent selectivity, che per certi versi appare più importante del piacere stesso, sembra un
concetto troppo ampio che vede la libertà di scelta sin troppo simile alle scelte di un catalogo (l'esempio di Stephenson non è certo dei più felici); la scelta di Huizinga si porta dietro gli stessi problemi della teoria cui attinge: la pervasività dei media rende fin troppo difficile parlare di separazione; non solo: anche quando si parla di consumo dei media, l'idea di consumo dei testi come gioco disinteressato non regge a meno che non si definisca univocamente il significato di questo disinteresse; il termine “produttivo” è altrettanto ambiguo: anche quando il piacere è fine a sé stesso egli è una ricompensa prodotta dal gioco; Stephenson parla di mass media, ma in verità non va oltre l'analisi dei giornali; il concetto di ripetizione non basta da solo a trasformare qualcosa in gioco; il grosso del modello teorico del piacere si basa sulla teoria di Shramm che lo stesso Stephenson definisce un “non sense”12; il
communication-pleasure finisce con l’essere il piacere scaturito dall’incontro di due
persone che conversano che può prescindere dall’idea stessa di gioco.
Sutton-Smith si dimostra non meno critico. Per l’antropologo, il primo passo falso compiuto da Stephenson sarebbe proprio il ricorso a Huizinga per introdurre il
10 Stephenson, 1988, cit., pag. 60.
11 Kucklich, 2004, pagg. 8-9.
concetto di subjective play: se è vero che in Homo Ludens la questione della molteplicità del concetto di play (da un punto di vista storico e di linguaggio) è più che affrontata, è altrettanto vero che la categorizzazione di play è forse troppo semplicistica da consentirne l’estensione persino ad attività come guardare la televisione o leggere il giornale. Il punto è che Huizinga non avrebbe mai ricondotto dette attività alla dimensione ludica visto che “[he] saw contests as the major civilizing play form throughout history and was rather scathing about the world-wide 'bastardization' of play form in modern mass society”13. Più sensato sarebbe stato mettere le sorti del proprio apparato teorico in mano a una definizione più duttile che evitasse di costruire strutture basandosi sulle proprie osservazioni personali dei giochi: questa, in via definitiva, l'accusa che, secondo Sutton-Smith, l'antropologa Schwartzman muove a Huizinga e ai play theorist contemporanei. Per lei, che ha condotto un lavoro di ricerca sulla relazione delle vita delle donne e le forme ludiche sulla base delle teorie della comunicazione, play è più un contesto entro qui inquadrare un'attività piuttosto che una struttura. Play è qualcosa di non strutturato, sottile, divertente, orale. Il riferimento al “contesto” dice non solo che Schwartzman sarebbe stata di maggior aiuto a Stephenson, ma che l'antropologa è a sua volta in debito con Bateson – il carattere metacomunicativo del gioco – e il relativo paradosso per il quale le azioni di gioco alludano ad alcuni aspetti della realtà ma non a ciò che quella realtà sembrerebbe significare. Se tanto si applica ai media, “everything that comes to a persone by a popular media [...] is not the actual thing [...] but a kind of staged symbolyc play (soap opera) or symbolic ritual (the news) [...] a nip not a bite”14. Tuttavia, l'estensione di Bateson al gioco dei media è problematica perché presupporrebbe l’esistenza di una chiarezza che né i media, né la vita avrebbero. Il movimento del giocatore dentro e fuori il gioco è così indistinto che il ricorso a Bateson dimostra compiutezza logico-formale ma inconsistente da un punto di vista esistenziale. Una separazione netta tra ciò che è gioco e ciò che è altro non è possibile.
Stephenson lega il subjective play a una sorta di predisposizione personale tra fantasia e desiderio che permette al soggetto di muoversi attraverso il flusso dei contenuti offerti, scegliendo liberamente e altrettanto liberamente trasformare le
13 Sutton-Smith, “Introduction to the Transaction Edition” in Stephenson, 1988, cit., pag. XIII.
informazioni per alimentare il proprio sé. Questa facoltà di scelta diventa quindi costitutiva di un processo ludico dei media indispensabile per la propria crescita interiore e si configura come atto libero. L'esistenza di una divisione tra atto libero come gioco in opposizione all'oppressione del lavoro è più un costrutto occidentale, un'idealizzazione romantica. Molte delle forme ludiche del passato – i riti di Huizinga – hanno visto “giocatori” partecipare sotto lo stimolo di un obbligo sacro. Molte delle attuali forme di coinvolgimento non hanno più a che fare con forme volontarie, ma si offrono come conseguenza di un'assuefazione o obbligo per un eccitamento, una pulsione, un interesse strumentale provato per determinati contesti e attività che può essere più o meno, coinvolgente, così come visto per i videogiochi con Taylor e da un punto di vista psicologico con Csikszentmihalyi.
Infine, rispetto ai media, la posizione di partenza di Stephenson pare comprensibilmente influenzata dal periodo storico che vedeva nei media uno strumento di informazione o propaganda. La tendenza a leggere detti fenomeni con una forte influenza marxista ha lasciato poco allo studio e all'ipotesi dei media come intrattenimento, preferendo concentrarsi più sui concetti di manipolazione e sfruttamento. In un simile scenario in cui play si concilia più con addestramento e educazione che con divertimento, Stephenson di certo non sostiene che le preoccupazioni rispetto ai media siano infondate, ma che il rapporto tra audience e media si configuri comunque come qualcosa che somiglia al gioco. Anche nei casi in cui il gioco è figlio di un'assuefazione che rende i giocatori schiavi della loro stessa ossessione e quindi sfruttabili, essi stanno ancora giocando.
Proprio per questo, Sutton-Smith è portato a identificare il subjective play come il sogno involontario, flusso di coscienza e fantasia. Qualcosa che difficilmente si mostra come un’evidente dimostrazione di maestria o creatività, ma è ben più sparso, diffuso. Non a torto Csikszentmihalyi è forse l'esempio migliore poiché il suo
flow15 somiglia parecchio a ciò che Stephenson vorrebbe descrivere con la sola differenza che per Sutton-Smith tale stato può non essere così evidente, il paradosso ulteriormente mascherato che le definizioni basate sulle logiche della scienza non riescono a cogliere. Pare sensato sostenere allora che “there is no need to translate the
15 Come abbiamo visto, il termine indica la condizione tipica di quelle esperienze in cui sembra di avere il pieno controllo degli eventi, la mente è completamente focalizzata e si è pienamente consapevoli.
concept of 'subjective play' into the play concept of modern fashion”16. Soprattutto quando questa soggettività è letta come una sorta di separazione verso il sogno e i mondi del fantastico. La verità è che
we enjoy to escape into fantasy [...] almost as much as we enjoy 'reality' and the modern agencies of mass communication are calculated to stimulate those worlds with such extraordinary vividness that we are hardly aware that there has been any change in our status17.
Siamo davanti quindi all'impossibilità di definire e identificare il cuore del problema. Ipotizza ancora Sutton-Smith, rettificando il contributo di Huizinga:
If we ignore the more structured aspects of play [...] and instead focus on play's nugatoriness, trifling nature, mockery, effortlessness, twiddling, light engrossment, dallying and rapid movement, we come closer to play in its subjective sense18.
Si torna allora alla dicotomia serio / non serio, produttivo / non produttivo, struttura / free-form e quindi a un nulla di fatto.