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Dalla struttura alla retorica del gioco

Play Theory in Game and Media Studies

1. Playing with (video)games

1.5. Dalla struttura alla retorica del gioco

La fiducia incondizionata nei confronti di un approccio strutturalista – e di poche regole formali – per distinguere ciò che è gioco non può bastare. Si tratta di un ordine di problemi già noto persino ai media studies che, come sostengono Dovey e Kennedy, negli anni Settanta e Ottanta cercavano di spiegare – senza riuscirvi – esperienza della visione e interpretazione partendo dalle strutture testuali piuttosto che dai soggetti o dal contesto36. Secondo Salen e Zimmerman – come abbiamo già avuto modo di dire – play è una dimensione (experential subset) del gioco (ovvero l'attuazione del gioco attraverso la sua esecuzione), così come lo è la cultura che funge da contesto entro cui il gioco prende vita37. Questa posizione ha grande valore perché mette subito a fuoco il contrasto con Myers che dal contesto culturale cerca il distacco in favore di un approccio formale o “biologico”. Un tentativo – lo abbiamo detto – che deve molto al lavoro di Sutton-Smith con una differenza: là dove Myers lamenta la necessità di una separazione metodologica e disciplinare tra play e background culturale, l'antropologo fa l'esatto contrario fondendo “biologismo” e “cultura” consapevole del ruolo di quest'ultima. Sia chiaro: più che l'andare contro corrente di Myers, stupisce la poca memoria di un Juul che incamera il lavoro di Sutton-Smith, ma si dimentica subito della lezione imparata preferendo affidarsi alle invarianti del gioco e chiudendo qualsiasi spazio al valore del giocare. Infatti, non è casuale la distinzione che Sutton-Smith opera tra intrinsic play ed extrinsic play.

36 Dovey, Kennedy, 2006, pagg. 29-31.

37 In Introduction to Game Studies, Frans Mayra propone un assetto simile nel discutere il concetto di games as cultural system. Mayra adotta un modello tripartito – game, gamer e cultura – in cui i primi due attori si trovano collocati all’interno del terzo (cultura) di cui entrambi si fanno espressione o specchio: le rappresentazioni che il gioco attiva sulla base dei suoi elementi costitutivi e i valori che il giocatore porta durante il gameplay hanno nella cultura (intesa come background o enciclopedia) la propria sorgente. Cfr. Mayra, An Introduction to Game Studies, London, Sage Public, 2008.

Intrinsic play afferisce a “game related motives for playing”, extrinsic play si

riferisce al “cultural value of play”38 ovvero alla posizione del gioco rispetto alla cultura di cui è espressione in termini di ideologia, piacere o rappresentazione. Certo, è assolutamente vero che Sutton-Smith è ben lontano dall'avere le idee chiare sulla questione. Anzi, non le ha per nulla:

In forty years of pursuing the meaning of play, it has become apparent to me that an understanding of play's ambiguity requires the help of multiple disciplines. But it has also become apparent that it is difficult to approach the subject maller of play directly when there is so much implicit ideological rhetoric that comes with these disciplines. The procedure to be adopted, therefore, is like that of Umberto Eco in his novel The Narne of the Rose (1983), in which he describes the activity of a group of medieval monks who, having realized that it is impossible to say what God is, have devoted themselves to revealing what God is not39.

Arrivati a questo punto del capitolo, il problema dell'ambiguità del termine non stupisce. In questo caso, non si tratta però di una disputa lessicale, ma culturale, di lenti, di punti di vista, angolazioni, prospettive, aree di ricerca. Nota Robert Fagen: “the most irritating feature of play [is] that play taunts us with its inaccessibility. We feel that something is behind it all, but we do not know, or have forgotten how to see it”40. Incapacità più che legittima quando, passando in rassegna la complessa sfera delle attività umane, ci si rende conte di quanto tutto possa essere oggetto di gioco, trasformazione ludica o play.

A metà tra rigorosa mappatura e gioco di parole, Sutton-Smith prova a raggruppare queste attività secondo uno schema che possiamo così accennare: mind or subjective

play (sognare, fantasticare, metafore, ecc.), solitary play (hobby, collezionismo, uso

del computer, guardare video, shopping, scrivere a un amico, ecc.), playful

behaviours (fare scherzi, stare al gioco, giocare secondo le regole, giocare qualcuno,

ecc.), informal social play (party, ballare, perdere peso, divertirsi il sabato sera, ecc.),

vicarious audience play (film, televisione, musica, gare di bellezza, ecc.), performance play (suonare il piano, suonare musica, giocare per il puro piacere di

38 Sutton-Smith, The Ambiguity of Play, Cambridge (MA) and London, Harvard University Press, 1997, cit., pag. 16.

39 Ivi, cit., p. vii.

40 Fagen, Animal Play Behaviour. New York, Oxford University Press, 1981 in Sutton-Smith, 1997, pag. 2.

farlo, ecc.), celebration and festivals, contests (giochi e sport), risky or deep play (sport estremi – kayak, mountain biking, arrampicata sportiva, ecc.)

Un simile scenario spiega quindi la direzione intrapresa da Sutton-Smith: astenersi dall'indagare la struttura intima del giocare – what is play? – per focalizzarsi sul portato retorico – il piano metaforico, la significazione simbolica – di dette attività (all'interno di un dato sistema di valori e portati socio-culturali) al fine di trovare nelle retoriche del gioco (rethorics of play) una sorta di minimo comune denominatore. Il termine “retorica” è da intendersi “in its modern sense, as being a persuasive discourse, or an implicit narrative, wittingly or unwittingly adopted by members of a particular affiliation to persuade others of the veracity and worthwhileness of their beliefs”41. Con queste premesse, si arriva alla determinazione di sette modelli retorici divisi tra moderni (progress, self, imaginary) e antichi (fate, identity, power, frivolity):

• Rhetoric of play as progress: applicabile ai giochi dei bambini, quanto degli animali (ma non degli adulti, specifica Sutton-Smith), si riferisce al complesso di attività attraverso cui i bambini si preparano al mondo degli adulti, acquisiscono consapevolezza morale, si sviluppano42. Il focus è sullo sviluppo più che sul divertimento.

• Rhetoric of play as fate: in totale opposizione alla prima, riguarda le attività connesse al gioco aleatorio, d'azzardo. Residuo di un tempo perduto e di credenze che vedevano la vita umana in balia del fato, oggi rimanda a pratiche che occupano un basso grado di rilevanza nella scala delle attività socialmente accettate. “It contrast most strongly also with those modern theories of leisure that argue that the distinguishing feature of play is that it is an excercise of free choice”43.

41 Sutton-Smith, 1997, cit., pag. 8.

42 Questa impostazione sembra esprimere una posizione per molti versi simile a quella di Roland Barthes quando sostiene che “i giocattoli più diffusi sono essenzialmente un microcosmo adulto” (p. 51). Nel breve saggio “Giocattoli”, Barthes puntualizza che il giocattolo sia “il cataologo di tutto ciò di cui l’adulto non si meraviglia”. Per Barthes, esso ha sempre un significato interamente socializzato che si rispecchia nei miti, nelle tecniche, nelle istituzioni della vita moderna adulta. Così “il fatto che i giocattoli francesi prefigurino letteralmente l’universo delle funzioni adulte può solo, evidentemente, preparare il bambino ad accettarle tutte” in un percorso di crescita in cui la creatività ha abdicato in favore dell’imborghesimento. Barthes, “Giocattoli” in Miti d’oggi, Milano, Einaudi, 2002, cit. pp 51-52.

• Rhetoric of play as power: “[it] is about the use of play as the representation of conflict and as a way of fortify the status of those who control the play or are its heroes”44. Facilmente collegabile allo sport, all'atletica e simili tipologie di contese, nonostante oggi queste specifiche attività siano state sempre più private del proprio portato ideologico per rimanere mero costrutto culturale su cui si fondano i valori di una comunità più che dei singoli.

• Rhetoric of play as identity: applicata a celebrazioni e festival, ricorre tutte le volte che l'attività ludica serve per confermare, mantenere o aumentare il potere di una comunità di giocatori.

• Rhetoric of play as the imaginary: si riferisce alle manifestazioni ludiche di creatività e improvvisazioni in qualsiasi forma e in qualunque ambito. Questo tipo di retorica – afferma Sutton-Smith – trova il sostegno della società moderna supportata da un riconoscimento di valori quali creatività e innovazione.

• Rhetoric of the self: si applica ad attività solitarie (hobby) o ad alto rischio (sport estremi). In questi casi, play tende a convergere verso il piacere auto-riflessivo dell'esperienza e il piacere intrinseco della performance,.

• Rhetoric of play as frivolous: “[it] is usually applied to the activities of the idle or the foolish”45. Riletta in chiave moderna, si tratta di un ribaltamento delle antiche attività carnevalesche ove l'istanziazione di atti ludici apparentemente folli fungeva da protesta contro l'ordine costituito di una data società. Questa particolare forma viene descritta come retorica dall'alto valore riflessivo, sorta di “commentary to all the other rethorics”, quasi come un meta-livello attraverso il quale decodificare le precedenti46.

L'aspetto cruciale di questa catalogazione è la funzione della retorica in termini di egemonia e regolazione di potere. Alla base del lavoro di Sutton-Smith c'è, infatti, l'idea di una forma retorica non come semplice racconto (plausible stories), ma come

44 Ibidem.

45 Sutton-Smith, 1997, pag. 11.

46 In questo specifico caso, l’esempio utilizzato da Dovey e Kennedy pare correre in aiuto. Con riferimento ai videogiochi, ci si imbatte in questa forma retorica quando questi vengono considerati come spazio carnevalesco in cui la violenza dell’odierna società è portata ai suoi massimi estremi e al contempo – imbrigliata nel gioco – resa innocua attraverso la stessa rappresentazione. Cfr. Dovey, Kennedy, 2006, pag. 31.

narrazione finalizzata alla persuasione di altri giocatori, concorrenti (o di chi sta fuori dal gioco) da parte di un soggetto egemone che ne trae i relativi benefici.

Dall’incrocio della lista delle play activities con le sette retoriche su identificate, Sutton-Smith ottiene il necessario supporto per la sua idea circa la natura ambigua del gioco e la variabilità dell'oggetto medesimo. Il percorso verso una nuova visione del gioco è presto tracciato: a) considerare il gioco (play) in maniera estensiva allargandone i confini a comportamenti attivi e passivi, dal sogno al reale; b) includere in questo nuovo framework tanto gli esseri umani quanto gli animali; c) liberarsi dalle costrizioni della cultura occidentale (gioco non produttivo, razionale, volontario e divertente); d) passare dal concetto di gioco come attitudine a una serie di distinte situazioni con propri caratteri e stili definiti nel tempo e nello spazio senza dimenticare che dette situazioni possano durare per anni ed essere completamente diffuse come “a daydream or as articulate as a sport stadium”47; e) ricordare che identificare le retoriche del gioco come narrazioni persuasive vuol dire pensare al gioco come un linguaggio (forma di comunicazione ed espressione) scevro da qualsiasi valorizzazione positiva o negativa. Il concetto di variabilità si fa allora meno banale. Muovendosi verso i territori della biologia e della teoria evoluzionistica per affermare la funzione del gioco come adattamento, Sutton-Smith costruisce la propria

rethoric of play forte di una specularità tra l'idea di play e quella di variabilità

sviluppata da Stephen J. Gould. Senza scendere troppo nel dettaglio, il concetto di variabilità evolutiva di Gould permette a Sutton-Smith di formulare una teoria del gioco intesa come un'attività caratterizzata da imprevedibilità e potenziale latente –

quirckyness – in tutte le sue forme (dal gioco degli animali a quello dei bambini),

ridondante – redundancy – ovvero basata sulla continua ripetizione con varizione (si pensi all'evoluzione e proliferazione degli sport) e flessibile – flexibility – in grado di modificarsi in base alla complessità degli agenti in gioco48. Cosa resta del gioco a questo punto? Secondo Sutton-Smith:

My theory, then, would be that play, as novel adaptation, may have developed in two stages: the first as a reinforcement of potential synaptic variability through the

47 Sutton-Smith, 1997, cit., pag. 220.

48 Se per i primi due caratteri, Sutton-Smith fornisce esaustivi (seppur veloci paragoni tra biologia e gioco come attività culturale), qui si limita a riportare l’esempio di Gould rispetto alla flessibilità della gestazione animale, dipendenza genitoriale e sviluppo ove la sua durata – per esempio nei mammiferi – varia con il variare della complessità degli organismi. Cfr. Ivi, pag. 224.

performance of variable antics (as in animals), and the second as a fuller imitation of the evolutionary process itself, in which the organism models its own biological character49.

 

Il che equivale a dire che per Sutton-Smith la rhetoric of play si configura sempre come retorica del progresso, dell’evoluzione nel suo passaggio da “rinforzo sinaptico” ad arena della riproduzione (imitation) per l’esercizio alla sopravvivenza ed evoluzione. L'aspetto sensazionale della dichiarazione non è tanto la deriva verso la biologia e l'evoluzionismo, ma – per quanto riguarda le finalità di questo lavoro – il distaccamento dalla nozione di Huizinga (e Caillois). Dichiarare e difendere la funzione biologica del gioco conduce infatti a un solo risultato ovvero50: il gioco non ha affatto in mano il destino della cultura e della civiltà (o per dirla con Huizinga, che la cultura derivi dal gioco), ma dal gioco dipende prima ancora la sopravvivenza dell'essere umano.