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Sistemi tecnologici e sociali

Play Theory in Game and Media Studies

3. Playing with creative platforms

3.1. Sistemi, software e piattaforme

3.1.2. Sistemi tecnologici e sociali

Parlando di media digitali, questo lavoro di definizione di qualità, principi e logiche è un fatto per nulla nuovo, ma l'espressione di una affannosa corsa alla conquista di un oggetto misterioso noto ai più come new media. Per esempio, nel suo libro Hamlet on the Holodeck (1997)17, Janet Murray definisce le proprietà dei media digitali come le forze rappresentazionali che hanno permesso al computer di farsi strumento espressivo – tra le tante conquiste, Murray annovera quella serie di occorrenze testuali note con il nome di Eliza18. A distanza di quindici anni, con un interessante artificio lessicale, quelle stesse quattro forze passano dallo status di proprietà a quello di affordance19. Un esercizio peculiare perché al cambio di etichetta in verità non corrisponde alcuna nuova conseguenza rispetto a quanto si conosceva già. Appurato che tutti i manufatti digitali sono fatti di una sostanza comune – bit – utilizzata per la manipolazione simbolica, a Murray sembra fruttuoso unificare tutto quanto ricada sotto l'etichetta “digitale” ripiegando verso il computer come singolo medium rappresentazionale. Queste affordance sono le fondamenta dell’interaction design (interazione uomo-macchina) qui intesa pratica culturale alla base della progettazione di manufatti digitali. Punto di vista decisamente più interessante ai nostri fini. Stando a queste quattro affordance20, il computer sarebbe:

1. un medium procedurale poiché capace di eseguire set di regole (procedure). Il computer qui è visto come un engine per la gestione delle complessità e

17 Murray, Hamlet on the Holodeck, Cambridge (MA), The MiT Press, 1997.

18 Eliza è un software sperimentale sviluppato da Joseph Weizenbaum, professore del MIT, per simulare una conversazione umana o meglio tra un agente in carne e ossa e uno digitale attraverso scambi testuali trasferiti tra computer connessi in rete

19 Mutuato dal lavoro di Gibson sulla percezione visiva, Donald Norman parla di affordance (traducibile in italiano con la parola “autorizzazione”) per indicare le proprietà reali e percepite delle cose materiali che determinano in modo verosimile come un oggetto possa essere utilizzato. “Una sedia autorizza e invita all’appoggio, ‘è per’ appoggiarvi sopra un peso [o] può anche essere trasportata. Il vetro è per guardare attraverso, e da rompere”. E ciò anche in contrasto con l’immagine del sistema ipotizzata dagli stessi designer. Norman, La caffettiera del masochista, Firenze, Giunti, 1997, pagg. 16-18 e Cfr. Gibson, Un approccio ecologico alla percezione visiva, Bologna, Il Mulino, 1999

comportamenti contingenti oltre la semplice manipolazione e catalogazione di informazioni;

2. un medium partecipativo, in conseguenza della sua natura procedurale. Il computer come media rappresentazionale non ci cattura per la capacità di generare comportamenti basate su regole ma perché lascia a noi la possibilità di indurre detti comportamenti (responsive behaviour), in una sorta di rapporto reciproco tra sistema e interactor. Comportamenti che il designer deve prevedere in maniera che le interazioni siano reciprocamente significative ed efficacemente comunicate. Vedremo più avanti parlando di

playability, come questa specifica qualità si leghi al concetto di usabilità e di participatory design;

3. un medium spaziale in grado di rappresentare più di semplici immagini e simboli, bensì spazi navigabili entro i quali ci muoviamo, che visitiamo;

4. un medium enciclopedico, contenitore di dati ricombinabili, database per antonomasia dalle cui potenzialità dipende la capacità narrativa dello stesso mezzo.

Murray, più interessata al design che all'ontologia del medium e alla sua storia, si focalizza sulle specificità d'uso e progettuali. Per Eskelinen, non pago della dichiarata guerra a Malaby, la studiosa è più interessata a fare del vago “media essentialism” e nel cercare di distinguere tra nuovi e vecchi media finisce con palesare tutta la difficoltà di tracciare un confine e fare il salto necessario21. Sarebbe semmai Aarseth (1997) l'esempio da seguire poiché con la sua teoria sui testi ergodici applicata ai “testi” digitali rappresenta il tentativo (riuscito) di superare l'essenzialismo in favore di una differenziazione realmente funzionale.

Lisa Gitelman nel suo Always Already New (2006) offre un altro buon esempio, ascrivibile più all'archeologia dei media che ai meccanismi di funzionamento degli stessi. La trama di base è che tutti i media siano stati “nuovi” in passato e che volgendo lo sguardo ai primi anni della loro vita, ai momenti di transizione e alle crisi di identità del mezzo, si possa risalire alle condizioni che ne hanno plasmato la forma. Appare chiaro sin da subito che qui “nuovo” e “digitale” non siano necessariamente sinonimi, prova ne sia il parallelo che la storica fa tra

fonografo e world wide web dove il confronto tra analogico a digitale è lontano dal rappresentare una dichiarazione della supremazia dei bit, ma si iscrive perfettamente nell'indagine di un flusso che è prima di tutto sociale. Altrettanto pacifico l'assunto per il quale Gitelman considera il medium non come tecnologia ma strumento di mediazione dove non necessariamente – per dirla con McLuhan, come scrive la studiosa – ogni nuovo media rappresenta il suo predecessore. Si tratta semmai di un processo di evoluzione continuo in cui il concetto di storia interviene sia per rintracciare discendenze più o meno dirette con forme e strumenti di mediazione precedenti, sia perché in molti casi i media sono già al passato, sono mezzi che le persone usano per apprendere attraverso rappresentazioni ancorate al passato della loro produzione. Per la storica, le qualità dei media sono innanzitutto protocolli che servono a definire il grado di penetrazione e di invisibilità di una tecnologia all'interno di una società. Per esempio: l'invenzione, l'adozione e l'uso del telefono ha richiesto l'apprendimento di formule necessarie al funzionamento dello strumento, ma oggi tecnologia e protocolli sono diventati auto-evidenti, scontati e nessuno usa il mezzo ricreando lo schema mentale di un modello d'uso tipico della prima introduzione. Questo traguardo è possibile solo grazie ai processi sociali che rendono tale livello trasparente. O meglio, che rendono la tecnologia cieca permettendo all'utente di focalizzarsi sul contenuto che trasmettono o rappresentano oscurando automaticamente le norme che li regolano. Se volessimo cercare una spiegazione del concetto di protocollo, questa fa al caso nostro:

[protocols] include a vast clutter of normative rules and default conditions [they] express a huge variety of social, economic, and material relationships [for instance] E-mail includes all of the elaborately layered technical protocols an interconnected service providers that constitute the Internet but also the QWERTY keyboards on which e-mail get “typed” and the shared sense of what the e-mail genre is22.

In pratica, in questa definizione c'è dentro di tutto. Due gli aspetti importanti sui cui è giusto porre l'attenzione. Primo. Il ricorso ai protocolli come dinamiche tecno-sociali risponde alla necessità di riportare dentro una questione prettamente tecnologica le pratiche sociali altrimenti escluse. Esso sembra in parte una risposta al paventato

pericolo di far fuori l'agente umano, in aperta critica con Bolter e Grusin che in

Remediation – più per scarso focus che per mancata conoscenza – sembrano

dichiarare che siano gli stessi media a fare cultura come se “media were naturally the way they are, without authors, designers, engineers, entrepreneuers, programmers, investors, owners, or audiences”23. Secondo, i protocolli permettono di contrastare la paura del determinismo tecnologico: a un certo punto del discorso, precisa Gitelman, i media (e la tecnologia) contano e come, poiché influiscono sul modo di comunicare e creare relazioni. Se ne ricava allora l'idea di media come struttura o sistema tecnologico e sociale ove ogni nuovo media non distrugge il precedente inglobandolo, ma si fa sito di negoziazione di valori e pratiche sociali in una lotta per la ricerca dei protocolli che meglio si conformano. In fin dei conti ha ragione Jenkins nel notare che quello di Gitelman altri non è che uno schema definitorio duale dei media: medium come tecnologia di comunicazione e medium come sistema (appunto) culturale alimentato dalle pratiche cresciute attorno a quella specifica tecnologia ed è questo aspetto che garantisce la persistenza o l'esistenza degli stessi nel passaggio tra cicli diversi24 .