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Play Theory in Game and Media Studies

2. Playing with media

2.7. Alternate Reality…Media

2.7.1. Luci e ombre in Booth

Si provi a ricomporre il quadro. Come detto, l'ARG per Booth è una metafora e l'occasione per rompere con una tradizione di studi considerata troppo legata al suo passato per rendersi conto del presente. I fan (o fandom) sono l’opportunità per testare la sua teoria e dimostrare quanto questa svolta sia necessaria. Questa presa di posizione è debitrice del lavoro di due media theorists inglesi – William Merrin e David Gauntlett92 – che da qualche tempo hanno iniziato ad aggregare sotto il cappello di Media 2.0 i principi di una nuova disciplina in grado di evolversi partendo proprio dal suo passato. In linea di massima, l'esigenza di questo rinnovamento prenderebbe il via dalla coscienza che la crescita di quella che possiamo definire come cultura partecipativa online abbia trasformato consumatori mediali in attivi produttori dei propri contenuti.

Per Merrin93 c'è un cambiamento in atto conseguente all'espansione dei media digitali che costringe a ripensare modelli e teorie originariamente concepite per un altro momento storico (broadcasting era o push communication): nello stesso istante in cui i media digitali, in un continuo processo di avanzamento tecnologico, trasformano i vecchi media dando loro forma digitale, gli schemi di produzione, consumo e distribuzione devono essere aggiornati per rendere conto degli usi e delle relazioni di potere di questa nuova fase che chiama post-broadcasting era (o pull

communication). Non si tratta di una mera questione tecnologica, ma di un

cambiamento guidato dalle esperienze degli utenti che impone il superamento dell'eredità di quanto chiama Media Studies 1.0. Sotto questa etichetta che considera “a historical response to and reflection of one historical model of media”94, egli annovera il prodotto teorico di una precisa epoca storica segnata dall'avvento dei quotidiani e del loro farsi impresa politicamente e culturalmente rilevante, dell'ascesa del cinema come forma di intrattenimento di massa, della radio, dell'industria discografica e dei primi esperimenti televisivi. Pur ammettendo l'apertura della disciplina ad altri ambiti di studio e una certa capacità di adattamento ai mutamenti del XX secolo, non si può non notare – afferma Merrin – il totale disinteresse verso

92 Cfr. Gauntlett, Media Studies 2.0, and Other Battles around the Future of Media Research, Gauntlett, 2011.

93 Cfr Merrin, “Media Studies 2.0. Upgrading and Open-sourcing the Discipline” in Interactions: Studies in Communication and Culture, Volume 1 Number 1, 2009.

temi quali trasmissione e distribuzione di cultura (così come dei relativi aspetti progettuali), o della produzione là dove approcci culturali e sociologici su potere, decodifica e rapporti di forza (economici e semiotici) hanno solo mascherato le lacune di una disciplina cui l'industria ha sempre negato la disponibilità a farsi oggetto di studio. Così, fatta fuori dal dibattito qualsiasi questione tecnologica, ci si è accontentati di quanto rimasto: ricezione e contenuti. Non paghi di ciò, si continuano a studiare i media digitali come una derivazione dei media dell’era del broadcasting rifiutandosi di riconoscere che una rivoluzione è in atto95.

In verità, come lo stesso Merrin nota, diversi studiosi hanno già offerto approcci consapevoli di un mutato sistema mediale – Jenkins, Hills, Sandvoss, Gray – tanto che forse questa chiamata alle armi suona forse meno necessaria di quanto i toni non farci intendere. E sarà forse per questo che nel dire cosa i Media Studies 2.0 non sono, dimentica dire cosa essi sono o lo fa troppo genericamente (nuovi strumenti, nuovi aspetti, nuove classificazioni). Insomma, si tratta di abbracciare in maniera ragionata, anche storicamente fondata, e critica (senza quindi cadere nei falsi miti della democrazia e della libertà) l'impatto dei media digitali, tanto quanto i cambiamenti nelle relazioni tra utenti e media, rifiutando approcci totalizzanti che riconducano tutto a uno sparuto gruppo di media. Ed è proprio qui che si inserisce Booth: media fandom e media studies sono il reciproco riflesso di un presente bisognoso di essere letto con nuove lenti. Afferma Coppa (2012):

both engage powerfully and articulately with mass media texts, influenced by previous thinking developed in interpretative communities. But whereas fandom has gone enthusiastically digital, media studies are trapped in [...] old media96.

In questo presente, la philosophy of playfulness è una qualità propria delle fandom digitali e degli stessi nuovi media e, come per gli ARG, si può rintracciare in quelle attività creative e collaborative in cui giocatori e fan investono: online e offline, nei media e con i media. Il che equivale a dire che “Mass media is not simply a game we

95 Qui il riferimento va a Dan Laughey che, nella chiusura del suo manuale per studenti, afferma l’infondatezza di alcuna rivoluzione digitale tanto quanto l’idiozia di un profetico nuovo corso chiamato Media Studies 2.0. Cfr. Laughey, Key Themes in Media Theory, Berkshire, Open University Press, 2007, pag. 198.

96 Coppa, “Digital Fandom by Paul Booth” in Transformative Works and Cultures, n. 11, 2012. Disponibile online: http://journal.transformativeworks.org/index.php/twc/article/view/450/338

play together; fandom itself, the name of that game, is a game we make together”97. Il “together” per Coppa è il vero problema. Quando Booth parla di media digitali si riferisce nello specifico a blog, wiki e social networks (MySpace). Rispetto ai primi, ma tale impostazione può essere adottata per tutti media su indicati, egli puntualizza come blog non sia sinonimo di diario online ma costituisca entità ibrida (mashup) tra testo come oggetto e relazioni extra-testuali (transmedialità) ma soprattutto intra-testuali in divenire. Il blog è un testo in continua evoluzione frutto dell'impegno di una collettività che lavora dall’interno sbarazzandosi dell’idea di autore singolo. Con il pericolo, per Coppa, che si perda davvero di vista il contributo delle singole competenze.

Per chi scrive, i dubbi sono altri. Sorvolando sul ricorso alla demediazione per spiegare il superamento del cerchio magico, la fusione tra ludico e non-ludico suona troppo superficiale soprattutto quando dimentica di avere a disposizione gli strumenti che i game studies – di cui cita le prime istanze – hanno già approntato. Ben più problematico è l'accostamento tra fandom e ARG che appare debole quando dalle dinamiche del gioco si passa alla similitudine economica (Digi-Gratis economy) – ARG come strumento di marketing, fandom come via per promuovere l'acquisto di merchandise ufficiale quanto il supporto a fan-object. Non solo, lo stesso uso di play è ambiguo, tanto che Booth usa ludicity come carattere del suo digital carnival e sotto tale termine include: la ripetizione testuale, il “fare come se” (i fan che scrivono sceneggiature giocano con il testo e giocano a fare gli sceneggiatori professionisti) e persino il motto di spirito che si palesa in un commento irriverente (playful irony) o come specifica strategia comunicativa tra membri di una comunità (the playful of

language) a supporto, per esempio, di valori condivisi in opposizione alla cultura

ufficiale (rispetto ai temi del copyright). Finendo con il confondere le acque: attitudine del soggetto? attitudine dei media? o più semplicemente sinonimo di divertimento? A che gioco stiamo giocando?