Play Theory in Game and Media Studies
3. Playing with creative platforms
3.1. Sistemi, software e piattaforme
3.1.4. Software: tool o medium?
Il punto per Manovich non è tanto sostenere che tutta la cultura sia equivalente al software o da esso dipendente, ma che quest'ultimo sia, più semplicemente, una sua nuova dimensione. Il quadro è presto tracciato:
our contemporary society can be characterized as a software society and our culture can be justifiably called a software culture – because today software plays a central role in shaping both the material elements and many of the immaterial structures that together make up “culture”30.
28 Wortham, “A Surge in Learning the Language of the Internet” in New York Times, 27/03/2012. Disponibile online: http://www.nytimes.com/2012/03/28/technology/for-an-edge-on-the-internet-computer-code-gains-a-following.html?pagewanted=all&_r=0 (ultima consultazione: 01/12/2013).
29 Manovich, 2013, cit., pag. 24.
Il problema non è capire cosa dipenda da cosa. Semmai è la totale assenza di un'investigazione sistematica circa il ruolo del software nella produzione della cultura, nelle connessioni tra media software e linguaggi del design e degli stessi media. Una miopia che pare imputabile agli stessi media studies incapaci di cogliere la differenza tra questo nuovo medium e i precedenti. La storia del computer (e del software) è innanzitutto la storia della progettazione: là dove i media si sono evoluti in maniera deterministica, il computer si è evoluto in seguito a un processo di continua ideazione, progettazione, implementazione. Manovich indugia sull'indagine storica perché ha un obiettivo: arrivare a decretare la fine di qualsiasi media in favore della supremazia del software. Per farlo, ha bisogno di volgere lo sguardo al passato e rintracciare l'esatto momento in cui ricondurre l'inizio di questa relazione e detto momento corrisponde alla teorizzazione del computer come meta-medium. Il termine nasconde qualche insidia. La prima e più importante è il saper resistere al fascino di ricondurre tutto entro il dominio della rimediazione di Bolter e Grusin poiché concettualmente errata. Sostenere, come fanno i due, che la rimediazione sia una delle caratteristiche chiavi dei media digitali, è ridurre colpevolmente tutto alla superficie e accontentarsi della risposta più facile ed errata ovvero che i nuovi media imitino (e non simulino) i precedenti. L’errore è palese quando si considera il lavoro di Alan Kay presso lo Xerox PARC. A lui e Goldberg va l'idea del computer come
personal dynamic media o Dynabook (antesignano degli odierni laptop e tablet), uno
strumento a misura d'uomo in grado di contenere e processare tutte le informazioni personali del suo possessore a supporto dell'apprendimento, dello stimolo di pratiche creative ed espressive:
Several years ago, we crystallized our dreams into a design idea for a personal dynamic medium the size of a notebook (the Dynabook) which could be owned by everyone and could have the power to handle virtually all of its owner’s information-related needs. Towards this goal we have designed and built a communications system: the Smalltalk language, implemented on small computers we refer to as “interim Dynabooks.” We are exploring the use of this system as a programming and problem solving tool; as an interactive memory for the storage and manipulation of
data; as a text editor; and as a medium for expression through drawing, painting, animating pictures, and composing and generating music31.
Una volta stabilito che il Dynabook non imita ma simula, Kay non fa altro che estendere le conseguenze e le potenzialità della simulazione ai media. Con un’interessante conseguenza. La simulazione risponde a due logiche: nel simulare un processo – per esempio la scrittura – essa è sempre trasparente. Nel simulare un medium, essa non è mai una simulazione per sé, ma aggiunge nuove proprietà al medium simulato facendone un nuovo medium (o un meta-medium32). La GUI (o interfaccia grafica) è forse l'esempio migliore ove la sua introduzione testimonia contemporaneamente il processo di evoluzione attraverso continua ideazione e la creazione di complessi livelli di mediazione tangibili. Il concetto di interfaccia interattiva era totalmente assente dalle prime teorizzazioni del device. Solo un'analisi superficiale ricondurrebbe l'importanza della sua ideazione alla facilità con la quale ha permesso alle persone di utilizzare il computer senza la necessità di interfacciarsi con le righe di comando. Anche in questo caso Alan Kay è d’aiuto. Sebbene la sua prima introduzione sia databile intorno agli anni Quaranta e Cinquanta, è proprio quest’ultimo a realizzare il passaggio dal computer come strumento a un medium vero e proprio frapponendo un layer visibile, mediatore (e quindi medium) tra la macchina e i set mentali cui gli utenti ricorrono per la creazione, l'apprendimento e l'esplorazione del mezzo. Un layer che pur funzionando attraverso la manipolazione dei simboli, vi aggiunga azioni (movimento) e immagini33.
31 Kay, Goldberg, “Personal Dynamic Media” in Wardrip-Fruin, Montfort The New Media Reader, Cambridge, The MIT Press, cit., pag. 391.
32 Scrive Kay: “If such a machine were designed in a way that any owner could mold and channel its power to his own needs, then a new kind of medium would have been created: a meta-medium, whose content would be a wide range of already-existing and not-yet-invented media”, Ivi, cit, pag. 404
33 In “User Interface: A Personal View”, Kay ricostruisce la sua attività di ricerca sulle GUI come frutto del lavoro dello psicologo cognitivo Jerome Bruner, che a sua volta aveva rielaborato la teoria di Piaget sullo sviluppo cognitivo dei bambini secondo uno schema tripartito (cinestetico, visivo e simbolico). Là dove Piaget vede questi stage come segnati da un percorso di adozione e dismissione, Bruner ne ipotizza la ricorsività sostenendo che essi durino nel tempo e convivano nell’adulto. La sua teoria delle mentalità multiple – rappresentazionale (enactive), iconica e simbolica – convince Kay del fatto che se il computer deve diventare uno strumento di apprendimento per bambini esso deve farsi medium equiparandosi ai modelli mentali e culturali del suo utente. Nasce così l’idea di un’interfaccia interattiva basata su tre livelli o schemi: il mouse funziona secondo il modello dell’enactive mentality (sapere dove ci si trova); icone e finestre attivano la mentalità iconica (riconoscere, confrontare, configurare); Smalltalk programming language – software di programmazioni object oriented (OOP) sviluppato da Kay a fini educativi – funziona sulla base della mentalità simbolica (mettere insieme lunghe catene di ragionamenti e astrazioni). Cfr. Kay “User Interface: A Personal View” in Packer,
La digressione sulla GUI serve due scopi. Per primo, permette di spiegare in un colpo solo l'idea dell'evoluzione anti-deterministica dei media digitali e di riflesso il concetto di unicità del metamedium: simula altri media aggiungendo nuove caratteristiche; è attivo – risponde agli stimoli dell'utente instaurando una conversazione duale; è in grado di contenere tutte le informazioni personali del suo possessore e serve come strumento per la programmazione e la risoluzione di problemi e soprattutto può essere usato per creare “new tools for working with the media types it already provides as well as to develop new not-yet-invented media”34. Secondo, porta il discorso là dove più ci preme spiegando in che senso dobbiamo intendere la supremazia del software, in che senso i media diventano software. Manovich vi arriva attraverso un percorso complesso teso a rintracciare l'implementazione di applicazioni in equilibrio tra funzioni indipendenti e altre ancora legate genealogicamente ai media precedenti (dai keyframe generati automaticamente per creare animazioni, all'introduzione dei filtri in Photoshop fino ai layer che lo studioso considera come rigurgiti di un’era pre-digitale – qui il richiamo va alle tecniche di esposizione multipla, al video keying nell'industria cinematografica, alla registrazione multitraccia nell'industria musicale). Questo continuo lavoro di upgrade, aggiustamento e implementazione fa sì che tutto, dall'accesso ai media, alla generazione, manipolazione e distribuzione, sia possibile grazie al software.
Abbiamo già detto come tecniche, tools, nuove funzionalità dei media digitali non siano mai il frutto di un'evoluzione indipendente ma di un lavoro intellettuale di ideazione, realizzazione e il cui risultato spesso migra da un'area all'altra per essere adottato altrove e divenire uno standard. Il guaio è che in questo scenario né l'aggettivo digitale, né “new” sono capaci di raccontare cosa stia succedendo e in che termini la rivoluzione “digitale” vada intesa. E non funzionano per un banalissimo motivo:
all the new qualities of “digital media” are not situated “inside” the media objects [...] they all exist “outside” – as commands and techniques of media viewers, authoring software, animation, [...] game engine software [...]. While digital representation
Jordan (ed.) Multimedia: From Wagner to Virtual Reality, London and New York, W.W. Norton & Company, 2001, pagg. 121-131.
makes it possible for computers to work with images, text, 3D forms [...] it is the software that determines what we can do with them35.
Nel momento in cui si dichiara che la forma dell'essenza digitale è una concessione del software più che una qualità intrinseca del medium, va riconsiderata anche la faccenda delle proprietà dei media digitali. Pur nel rispetto delle differenze tra differenti tipologie di media, la questione è che il software aggiunge nuovi set di operazioni applicabili a tutti i media (riferite solo in termini di user experience come proprietà) e che dette proprietà variano in maniera sostanziale al cambiare dell'applicazione usata per l'accesso al media e la sua manipolazione. L'esempio della foto digitale è di aiuto. Un'immagine digitale è sempre un set di pixel, ma a meno di non dover scendere al livello dei numeri, quello che da utenti “normali” possiamo fare varia se usiamo un semplice foto viewer mobile o se apriamo un software di photo editing più complesso. Le proprietà non sono più dell'immagine, ma del software utilizzato. Il che conduce al punto focale di quell'ibridazione operata dal computer che ha trasformato il concetto stesso di media. Per Manovich, il computer è il contenitore di molti oggetti: oltre a contenere una serie di media differenti, esso contiene pezzi di blocchi con cui costruire ibridi. Con la conseguenza che chiunque lavori con detti strumenti, lavora con tools la cui materialità è resa in dati strutturati e funzioni. Materialità che non è mai speculare alla controparte cui si ispira. Tra il pennello di Photoshop e uno vero non c'è alcuna mappatura: il primo non imprime colore su una tela, ma alloca dati in una data sezione della memoria per poi essere utilizzati per altri effetti. Se ne deduce che il medium dopo il software altro non che un set di algoritmi (istruzioni) applicati a un set di dati. Dati e algoritmi costituiscono un primo livello di sistema. Allo stesso tempo possono lavorare sinergicamente con altri software o applicativi rendendo complessa la propria struttura. Sistema in questo caso diventa sinonimo di piattaforma. Vedremo a breve secondo quale movimento.
3.1.5. (Media softwares as) Creative platforms
Il riconoscimento della centralità del software, e dell’esistenza di una software
culture, richiede la messa in crisi delle teorie della comunicazione e sulla
trasmissione del sapere. Per Manovich, sin dalle prime formulazioni, i modelli di trasmissione della cultura si sono configurati come processi di comunicazione strutturati tra un autore che crea il messaggio e qualcuno che lo riceve. Stuart Hall (1980), giusto per offrire qualche rimando concreto, ha il merito di aver provato a complicare detto schema: in effetti, il suo modello di “encoding/decoding” riesce ad aggiungere nuovi livelli di profondità a un quadro fino a quel momento troppo lineare fatto di posizioni nette e competenze altrettanto certe. Hall non solo introduce la possibilità di contemplare il fallimento dell'atto comunicativo, ma prevede una sorta di doppio canale di trasmissione quando parla di atti volontari di reinterpretazione del messaggio secondo una tripartizione che possiamo così schematizzare: adesione (perfetta aderenza tra codifica e decodifica: il ricevente recepisce così com'è il messaggio dell'autore che esprime la posizione dell'egemonia dominante cui si ci conforma), negoziazione (l'aderenza è parziale: il ricevente riconosce il messaggio dominante, ma ne recepisce solo una parte, modificandone alcuni aspetti per renderlo conforme al proprio interesse); resistenza e opposizione (assenza di aderenza tra codifica e decodifica: il ricevente, forte del proprio background, interpreta per sé il messaggio adattandolo totalmente alle proprie credenze)36. Secondo Manovich, che salta a piè pari anni di teorie e contributi successivi allo stesso Hall, il problema è che comunque si guardi ai processi di comunicazione, secondo la tradizione il messaggio inviato e messo in circolazione è sempre “finito” e consumato nella sua interezza. Se software e tecnologie digitali ci hanno insegnato qualcosa è che nessuno dei due assunti è vero: l'esperienza dei media attraverso il software non è mai un singolo documento immagazzinato, né la sua consultazione è un fatto ordinato, ma si dà come esperienza (ancora) frammentata e scandita dalle performance imposte dal software (navigazione, editing, sharing) secondo un movimento verticale (attraverso più prodotti mediali) e orizzontale (attraverso diversi media). Non si costruisce, ma si
36 Hall, “Enconding/Decoding” in Hall, Hobson, Lowe, Willis Culture, Media, Language, London, Hutchinson, 1980, pagg. 128-138.
Disponibile online:
http://visualstudies.buffalo.edu/coursenotes/art250/250A/_assets/_readings/encoding_decoding_hall.p df (ultima consultazione: 01/12/2013).
gestisce. Se è vero che il medium è il messaggio, per Manovich caratteristiche quali l'espansione, il rework, l'editing di contenuti attraverso il software (authoring tool o giochi che sia voglia) segnano il passaggio dal messaggio dei media alla piattaforma come emblema dell'organizzazione della produzione culturale prototipica del Web 2.0. Quindi, per Manovich il concetto di piattaforma si lega a doppia mandata a quello di software e all'esplosione di applicativi che dal semplice display del messaggio statico permettono processi creativi e collaborativi. La piattaforma (o le innumerevoli piattaforme) costituisce la struttura di base su cui si innesta l’odierna produzione culturale.
La cosa singolare è che questa è solo una delle possibili chiavi di lettura. Sorprendentemente, il concetto di piattaforma (e l’improvviso aumento di popolarità) offre interessanti spunti in ambiti piuttosto variegati. Nell'introduzione a Platforms,
markets and innovations (2009), Annabelle Gawer scrive:
The emergence of platforms, whether used inside firms, across supply chains, or as building blocks that act as engines of innovation and redefine industrial architectures, is a novel phenomenon affecting most industries today, from products to services37.
Facebook, tra i social network, e Google, tra search engine e strumenti per il business, rappresentano al meglio l’ascesa di questo nuovo sistema di prodotti e servizi cui Gawer accenna. Microsoft Windows è l’esempio più famoso. Configuratosi come una
industrial platform, il noto sistema operativo ha messo Microsoft in una posizione
dominante in grado di trarre vantaggio dagli effetti di network generati. Se si considera la piattaforma Windows come un set di building blocks a disposizione di utenti e aziende per la realizzazione di prodotti complementari, e considerata la quota di mercato detenuta, è chiaro che chiunque voglia sviluppare un applicativo software tenga in debito conto questa posizione di dominio. Lo stesso vale per gli utenti per i quali è più sensato adottare una piattaforma diffusa invece di un sistema di nicchia con supporto carente o assente. Nello stesso libro di Gawer, Baldwin e Woodard approcciano il concetto di piattaforma da tre punti di vista differenti – platform and
product development (piattaforma come set di nuovi prodotti che incontrano il gusto
di clienti core, ma che sono pensati per essere modificati facilmente per creare nuove
37 Gawer (ed.), Platforms, markets and innovations, Cheltenham (UK) and Northampton (MA), Edward Elgar Publishing Limited, 2009, cit., pag. 1.
generazioni di prodotti), platform as technology strategy (piattaforma come punto di controllo e potere essenziale per il successo o il fallimento di una azienda, da cui il termine “integrazione cross-platform” per indicare sinergie strategie di potenziamento tra tecnologie core per spingere o consolidare le ancillari) e platform and industrial
economy (qui piattaforma indica una struttura di mediazione delle transazioni tra due
agenti) – per arrivare a unificare l'oggetto di studio secondo la seguente definizione: “[a platform is] a set of stable components that supports variety and evolvability in a system by constraining the linkages among the other components”38. Il loro è in primis uno studio verso l'architettura unificata comune a tutte le piattaforme ovvero dimostrare l'esistenza di una struttura formale comune ad ambiti eterogenei scissa sempre tra componenti “core” poco variabili e componenti periferiche ben più variabili. I primi costituiscono la piattaforma, sono le parti costitutive del sistema e stabiliscono, in maniera implicita o esplicita, l'interfaccia e le regole dell'interazione tra i diversi elementi interconnessi. Interessati alle implicazioni economiche, i due approfondiscono la questione toccando anche gli aspetti strategici – quando trasformare un asset in una platform; grado di controllo, apertura e interazione con il mondo esterno. La cosa che però ci appare più interessante è notare sia possibile riconoscere una sovrapposizione con il concetto di sistema da cui siamo partiti: la presenza di più elementi, la relazione tra queste parti, il complesso di restrizioni che ne regola la logica di interscambio operativo quanto quella di apertura verso agenti esterni e di contaminazione.
Questa sovrapposizione tra piattaforma e sistemi – secondo la definizione di Littlejohn (pag. 153) – permette a sua volta di aderire alla definizione di Sommerville per spiegare il concetto software system e affrontare quindi il discorso da un punto di vista informatico. Nell'ambito dei computer studies, software system indica un insieme di parti o applicativi software intercomunicanti che operano all’interno di un macrosistema più complesso, espressione di una sinergia tra hardware e software. Scrive Sommerville:
[a software system] consists of a number of separate programs, configuration files, which are used to set up these programs, system documentation, which describes the
structure of the system, and user documentation, which explains how to use the system39.
Si tratta, in pratica, di un sistema che ha – di nuovo – come base un set di parti e come comportamenti osservabili un set di processi intercomunicanti che possono essere operati da un utente. Vediamo come il concetto di sistema si lega a quello di platform. Secondo TheFreeDictionary, con platform si intende:
any standard that forms a basic environment under which compatible computer systems and application programs can be developed and run, as a specific computer processor or network connection (hardware platform) or an operating system, database, etc. (software platform)40.
Come è evidente, qui la piattaforma è presentata come il connubio tra architettura hardware e software, come una layered structure dalla cui interoperabilità degli elementi dipende la possibilità di un applicativo di essere eseguito. Può quindi rappresentare un “luogo” per l'avvio di un'applicazione o la base di un accordo logico-funzionale entro il quale il fornitore della piattaforma assicura all'utente che un determinato applicativo potrà essere eseguito fintanto che la piattaforma sarà tenuta in funzione. Tuttavia, platform può essere intesa in maniera ancora differente se si adotta un nuovo livello di astrazione, dove software è la piattaforma o framework per l'esecuzione di un'ulteriore software (o libreria). Benché per molti ritenuto un sinonimo, con framework si intende un'astrazione in cui un software che funge da supporto o guida per lo sviluppo di qualcosa (es. altri applicativi). Una sorta di ambiente regolato da specifiche norme, logiche e parti interoperanti, le cui funzionalità di base possono essere espanse, modificate, integrate dal codice scritto del programmatore (o utente) per la creazione di applicazioni e riutilizzabile per la creazione di altri applicativi. Secondo Technopedia, tra le caratteristiche distintive del software framework/platform, ci sono:
• Default Behavior: before customization, a framework behaves in a manner specific to the user’s action.
39 Somerville, Software Engineering, Addison Wesley, 8th edition, 2006, cit., pag. 5.
• Inversion of Control: unlike other libraries, the global flow of control within a framework is employed by the framework rather than the caller.
• Extensibility: a user can extend the framework by selectively replacing default code with user code.
• Non-modifiable Framework Code: A user can extend the framework but not modify the code41.
Esempi di framework sono Apache Flex (framework per Adobe Flash); Zend Framework (application framework per il linguaggio di programmazione PHP), Quicktime (multimedia frameworks che su piattaforma Mac Os X gestisce i contenuti mediali), Ruby on Rails (web application framework per il linguaggio di programmazione Ruby). Una menzione a parte meritano gli IDE come RubyMines o Eclipse, veri e propri ambienti di sviluppo o piattaforme multilinguaggio con librerie