• Non ci sono risultati.

L'esperienza dei media come gioco tra spazi e performance

Play Theory in Game and Media Studies

2. Playing with media

2.5. L'esperienza dei media come gioco tra spazi e performance

Il contributo di Roger Silverstone si muove nell'ottica di uno studio votato all'esperienza dei media. Se McLuhan considera i media come delle protesi

53 Fiske, Watts, “Video Games: Inverted Pleasure”, in Australian Journal of Cultural Studies, vol. 3, n.1, 05/1985, cit., pag. 102. Disponibile online:

http://wwwmcc.murdoch.edu.au/ReadingRoom/serial/AJCS/3.1/Fiske.html (ultima consultazione: 16/12/2013).

dell'uomo, è plausibile pensare che essi amplifichino quanto limitino le nostre capacità di fare cultura, di generare il senso del mondo in cui viviamo, nel modo in qui – come parte integrante del nostro vivere quotidiano – essi intervengono direttamente nella produzione del senso che diamo al mondo. Per questo, sostiene Silverstone, pur nell'importanza di un approccio ai media multi-disciplinare che abbracci anche il dato quantitativo – totale delle ore di uso, come queste varino per regioni e ceti sociali, penetrazione e diffusione territoriale, ammontare delle vendite – si rischia di limitarsi a un’analisi in superficie se ci si rifiuta di cogliere il ruolo fondamentale che essi hanno (guadagnato) nel quotidiano. Detta centralità è ancora più significativa se si considera come il loro far parte del “tessuto generale dell'esperienza”54 li renda indispensabili tanto per la comunicazione quanto per la costruzione di quella vita sociale di cui sembrano essere sempre più i surrogati – da qui il timore di veder crescere una nuova orda di giovani drogati dello schermo. Il percorso è quindi segnato: “mettersi sulle tracce dei media individuando i modi in cui essi partecipano alla vita sociale e culturale contemporanea [...] dunque di esaminare i media come processo [di mediazione]”55, considerare l'esperienza come una realtà concreta che è parte di altre realtà, riconoscere la capacità dell'uomo di saper distinguere tra esse (fantasia/realtà; influenza/autonomia; sapere/credere) come conseguenza di un rapporto dialogico, come conseguenza di un movimento che ci vede transitare dal liminale al quotidiano, poiché “i media costituiscono il quotidiano e allo stesso tempo forniscono alternative a esso”56.

A leggere Silverstone, l’impressione è che il senso del luogo (inteso come realtà altra) sia persino più importante dell'esperienza stessa. L’esigenza e la convinzione di una sorta di confine atto a delimitarne spazi e identità la si ritrova sia nell'evidente richiamo al lavoro di Turner su rito e gioco – basato proprio sul concetto di liminoide che Silverstone cita; sia nel concetto di “spazio di flussi” – per citare Castells57 – come luogo dell’esperienza dinamica di una società in piena era “elettronica”: spazio che si modifica attraverso il fluire di dati, merci e persone e informazioni; uno spazio labile divenuto cornice entro cui detti flussi sono sentiti,

54 Silverstone, 1999, cit., pag. 19.

55 Ivi, cit., pag. 21

56 Ivi, cit., pag. 27

conosciuti, incorporati e contribuiscono a dare senso e forma alla stessa società che lo abita.

Vale la pena spendere due parole in più su Turner. Nel suo studio sulle forme di

ritualized play e performance, Turner58 ravvisa una funzione cruciale nella formazione delle identità individuali quanto nella formazione delle comunità. Analizzando diverse manifestazioni ludiche (tra moderno e tradizionale), egli scava per comprendere il ruolo di queste attività nella costruzione di significati socialmente rilevanti e nel loro valore intesi come luoghi in cui un set di norme culturali è affermato. Turner distingue la dimensione spazio-temporale del gioco rituale tra “liminale” e “liminoide” e discrimina le differenti relazioni di potere e posizioni rispetto ai significati dominanti della cultura entro cui questi rituali si iscrivono. Gli spazi liminali sarebbero così caratterizzati da forme di gioco o rituali in qualche modo obbligati, sorta di riti di passaggio: pur quando abrogano o negano strutture del potere esistenti o le stesse soggettività, essi rappresentano un punto di ancoraggio sicuro allo status quo per i partecipanti che, concluso il rito, possono lasciare lo spazio liminale per tornare al mondo reale con un rinnovato e ritrovato senso di ruolo sociale. Gli spazi liminoidi “develop apart from the central economic and political processes, [...] in the interstices of central and servicing institutions – they are plural, fragmentary, and experimental in character”59. A questi ultimi il ruolo di trasformare la cultura attraverso istanze creative radicali che si pongono come critica, stimolatori di nuovi ordini sociali alternativi. Insomma, la partita si gioca tra gioco e spazi preposti all'adattamento dell'individuo al mondo sociale e in giochi e spazi per le performance della sovversione dei significati dominanti con un movimento dall'interno (gioco) all'esterno (realtà dove poteri e significati da superare sono radicati).

Si torni a Silverstone. Per il sociologo la cultura odierna, o “mediale”, si basa tutta sull'accettazione del “come se” in ragione di un movimento ininterrotto tra confini e soglie a volte indefinite, altre volte nette e marcate. Che l'atto di erosione di questi confini sia conseguenza o meno del post-modernismo poco importa. Ciò che è importante è notare come nel quotidiano, tali barriere siano continuamente erette per creare rituali, momenti di disimpegno dal reale, distinzioni tra culture e popolazioni.

58 Turner, “Liminal to Liminoid, In Play, Flow, And Ritual: An Essay in Comparative Symbology”, in The Rice University Studies, vol. 60, n. 3, 07/1974, pagg. 53-92.

Il persistere di tale condizione di separazione sembra aver dirottato i ricercatori verso le teorie del gioco. Il motivo è presto detto. Il ricorso al gioco come modello dell'esperienza mediale trova totale approvazione nel momento in cui lo si considera come spazio. Sacrificato dagli illuministi per la sua irrazionalità, scrive Silverstone, il gioco è diversamente razionale, differisce dalla ragione di una vita quotidiana di cui è parte e al contempo separato. Varcare il confine del gioco, significa lasciarsi il mondo alle spalle per un altro mondo con meccanismi, dinamiche e regole del tutto diverse. In questo luogo i giocatori sono al sicuro poiché impegnati in un'attività non pericolosa, normata da regole, senza conseguenze pur nel suo eccesso e dalla quale possono fare ritorno al mondo reale. In un sol colpo, Silverstone resuscita Huizinga (e Caillois) invocando la definizione di play – “una categoria generale di cui i singoli giochi sono l'espressione specifica. [play] eccede le sue manifestazioni particolari”60 – e costruendo sul concetto del rituale il “come se” del gioco, il suo essere isolato, sicuro, improduttivo. Tanto basta a tirare dentro sia i computer games, che la lettura, il rispondere alle parole crociate, il guardare la televisione, il navigare in rete. Tutto all’insegna della metafora bahktiana del carnevale e dei baccanali: momenti di svago che i detentori del potere concedevano al popolo per provare il piacere di una realtà altra priva di codici. Baccanali e carnevale non erano esclusivo appannaggio della cultura bassa del e per il popolo: le stesse elite, espressione della cultura alta, avevano le proprie rappresentazioni allegoriche. A dimostrazione di un confine difficile da demarcare tra serio e divertimento, tra impegno e disimpegno.

Il “confine”, la soglia, è ancora importante perché è la condizione di esistenza del gioco: l’impossibilità di stimare il valore che la dimensione spazio-temporale del gioco apporta alle varie culture, per Silverstone, non giustifica l’espulsione dell'incantesimo del gioco dall’analisi dei media, poiché il suo essere contributo alla costruzione dell’identità così come alla catarsi di giocatori e spettatori è elemento costitutivo dei media. Il gioco informa i generi e la loro programmazione, la visione e l'ascolto, costruisce un dialogismo tra giocatori e pubblico. Proprio durante questa rincorsa, Silverstone s’imbatte nelle tensioni prototipiche – “libertà contenuta”, “creatività prefissata”, “passività attiva” e “dipendenza volontaria” – e aggiusta il tiro del suo discorso passando da una estrema generalizzazione alla presa di coscienza di una generale difficoltà nell'indagare la sociologia, l'antropologia e la mediazione del

gioco. Non è però una resa, bensì una presa d'atto che il gioco è “essere” e “fare”, è piacere come può non esserlo, l’inversione, il ribaltamento, la fuga, l'evasione, la perdita del giudizio critico, la persuasione, l'educazione oppure palestra del reale. A questo punto la costruzione di una definizione potrebbe rispondere alle sue domande:

stiamo parlando di coinvolgimento o fuga? Giochiamo per vincere oppure, in una società tardo capitalista siamo nati per perdere? Quali valori esistono nel gioco? Quali i premi concessi al vincitore?61

Tuttavia Silverstone sceglie di rimandare il discorso così come qualsiasi giudizio di valore preferendo insistere sul posto che il gioco occupa nella società e nella cultura e compiendo forse la scelta più interessante dell'intero contributo ove conclude con la presa di coscienza che in fondo siamo

tutti giocatori di giochi, alcuni dei quali […] prodotti dai media: sviano, ma forniscono anche un centro, confondono i confini ma in un certo senso li mantengono, poiché sappiamo, fin da bambini, quando stiamo o non stiamo giocando62.

Nel gioco dei media si entra per motivi diversi – lavoro, ricerca di informazioni – e qui perché spettatori del mondo e soprattutto giocatori – sostiene ancora Silverstone – giochiamo liberamente, per il piacere, per esplorare, indagare, e creare la cultura. Del contributo di Silverstone allora resta questo: il riconoscimento dei media come gioco (una delle possibili incarnazioni) e del ruolo di giocatore attribuito allo spettatore. Qui non conta più solo lo statuto ontologico – cosa è gioco. Una volta dichiaratone la condizione di esistenza, a prendere banco sono i giocatori, le loro motivazioni e le loro pratiche quotidiane.

61 Ivi, cit., pag. 110.