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Play Theory in Game and Media Studies

2. Playing with media

2.2. Understanding the games

Rispetto a Stephenson, Marshall McLuhan (1964) si muovono su scenari differenti. Pur appartenendo allo stesso periodo storico, egli guarda ai giochi come media e come tali ne indaga l’impatto, gli effetti, l’influenza sul sistema di relazioni tra soggetti. A onor del vero, non siamo di fronte a una trattazione particolarmente importante per profondità: giusto un capitolo all’interno del suo libro più conosciuto e comunque un contributo che non ha (né pretende di avere) il sapore dei game studies. Scrive Maculani:

Games, like institutions, are extension of social man and of the body politic, as technologies are the extension of the animal organism. Both games and technologies

16 Sutton-Smith, “Introduction to the Transaction Edition” in Stephenson, 1988, cit., pag. XX.

17 Ibidem.

are [...] ways of adjusting to the stress of the specialized actions that occur in social group. As extension of the popular response to the workaday stress, game becomes faithful models of a culture. They incorporate both the action and the reaction of whole populations in a single dynamic image19.

Quanto appena formulato pare inquadrarsi perfettamente nel complesso delle teorie care al canadese che considera i giochi come media della comunicazione. L'effetto di questa presa di posizione mette subito in chiaro che a interessare non sono le specificità dei contenuti, ma il medium in sé e la sua influenza sulla società. Analizzando il breve passaggio citato, questa funzione (o effetto) emerge chiaramente: ai giochi il compito di fare da regolatore dei rapporti di forza e di potere propri della società, una sorta di valvola di sfogo della collettività dove azione e reazione si incontrano e neutralizzano, rifugio e ristoro dalle fatiche, dall'alienazione e dallo stress del lavoro quotidiano e quindi luogo di intergioco (interplay) della cultura di cui sono modello – “The games of a people rivela a great deal about them”20 poiché in essi tendono a essere codificate le pratiche sociali di una generazione così da essere tramandate alla prossima. Il gioco è una palestra in cui impariamo a regolare gli equilibri di una società che pretende la resa personale in favore della domanda collettiva – “a game si a machine that can get into action only if the players consent to become puppets for a time”21 – ove “the uncertainty of the outcomes of our contest makes a rational excuse for the mechanical rigor of the rules and the procedures of the game”22. Per McLuhan i giochi sono partecipativi nel senso che essi garantiscono all'individuo “who consent to being part of a dynamic mechanism in an artificially contrived situation” di partecipare “in the full life of a society, such as no single role or job can offer to any man”23. Il consenso o volontarietà con cui si accetta di prendere parte a una situazione artificiale progettata ad hoc24 è cruciale poiché marca la differenza con i giocatori professionisti, la cui incongrua posizione sarebbe più ascrivibile al lavoro.

19 McLuhan, Understanding Media, London and New York, Routledge, 1964, cit., pag. 255.

20 Ivi, cit., pag. 259.

21 Ibidem.

22 Ibidem.

23 Ivi, cit., p. 258.

24 Pare interessante il modo in cui le parole di McLuhan risuonino con quelle di Malaby che fa eguale ricorso alle parole “artificial” e “contrived” per la sua definizione di gioco.

Come detto, siamo lontani dal formalismo che qualche decennio dopo avrebbe infiammato il dibattito – nonostante evidenti tracce (o anticipazioni) quali regole, accettazione volontaria, artificialità della situazione, né è dato sapere se McLuhan scrive il saggio dopo aver letto Huizinga e Caillois, ma in generale il senso che se ne ricava è quella di una qualche influenza che porta il gioco a venire comunque considerato in funzione di una separazione. Proviamo a chiarire questa affermazione. Secondo McLuhan, possiamo rintracciare:

1. una separazione formale tra ciò che è gioco e ciò che non lo è – ”What disqualifies war from being a true game is probably what also disqualifies the stock market and business – the rules are not fully known nor accepted by all the players”25– come se fosse possibile pensare e operare una divisione netta tra due “entità”;

2. una separazione tra i partecipanti diretti al gioco (player) e audience. Qui non si mette in discussione la partecipazione più o meno attiva del secondo gruppo ma i diversi e distinti ruoli: la componente spettatoriale è necessaria per attivare l'effetto di catarsi del gioco. Senza un pubblico non può esserci un modello in cui specchiarsi e quindi nessun gioco come modello di confronto, riflessione e purificazione – “the audience is too fully participant in war and business, just as in a native society there is no true art because everybody is engaged in making art. Art and games need rules, conventions, and spectators”26;

3. una separazione spaziale, (sorprendentemente meno netta del previsto), affinché il gioco possa operare come modello di una cultura in un regime di mutuo interscambio – [Art and games] must stand forth from the over-all situation as models of it in order for the quality of play to persist. For “play” [...] implies interplay. There must be give and take, or dialogue, as between two or more persons and groups27.

Ci sono due ordini di problemi con questa visione. McLuhan non si interessa delle

25 McLuhan, 1964, cit., pag. 261.

26 Ibidem.

relazioni di potere che sono proprie dei media dimenticando che il “villaggio globale” è abitato da agenti e istituzioni con diversi poteri e posizioni. Nel sostenere che “the medium is the message” finisce con lo scordare che spesso il messaggio è il messaggio ovvero che spesso non sono i media con le loro specifiche caratteristiche (o non soltanto) – e nel nostro caso i (video)giochi – a influenzare la nostra percezione, ma che a farlo possa essere un preciso set di significati propri del contenuto. Ian Bogost (2013) si appropria di questo secondo punto per un'analisi dello stato di salute e avanzamento dei game studies sostenendo un'attenzione critica che non è mai rivolta al gioco specifico ma al gioco in quanto media (in ottemperanza all'influenza dei media studies) e la possibilità di sfruttare l'eredità di McLuhan e del suo pensiero per tracciare un nuovo corso in cui ogni singolo videogioco sia trattato come un media (piattaforma e contenuto) con proprie caratteristiche ed effetti.

The problem is, McLuhan gets it wrong, wrong in part anyway. While the “properties” of media are important, so is the “content.” If we use McLuhan’s own logic on his very thinking, we might say that media ecology reverses into criticism. It treats individual works as important and meaningful, each one possessing its own properties that both combine with and resist those of the medium that encloses it. Here we need not worry about embracing McLuhan, as the tetrad does all we need: [...] It encourages us to treat videogames as a medium and to treat individual videogames as their media in their own right28.

Allo stesso modo, Silverstone29 nota che per McLuhan i media (e i giochi) sono un'estensione fisica e psicologica dell'uomo, vere e proprie protesi in grado di trasformare gli esseri umani proprio partendo dall'uso che di esse viene fatto. Cosa di per sé problematica: nel momento in cui si preferisce indagare il cambiamento strutturale attraverso le proprietà dello strumento, si rinuncia automaticamente alle sfumature derivanti dagli usi e i fattori che modificano queste protesi, all'esperienza di e con i media.

28 Bogost, “You played that game? Game Studies Meets Game Criticism”, DiGRA 2009, paper. Disponibile online: http://www.bogost.com/writing/you_played_that_game_studies_m.shtml

(ultima consultazione: 14/11/2013).