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Play Theory in Game and Media Studies

1. Playing with (video)games

1.1. Homo Ludens

Il primo problema che si incontra affrontando Homo Ludens è di natura tassonomica. Difetto che affligge un po’ tutte le edizioni del testo: la presenza di un termine unico per riferirsi al “gioco” (come complesso di norme, quanto all'atto del giocare) rende complicato capire di cosa si stia veramente parlando. La definizione offerta da Huizinga è:

il gioco [è] un'azione libera: conscia di non essere presa « sul serio » e situata al di fuori della vita consueta, che non di meno può impossessarsi totalmente del giocatore; azione a cui in sé non è congiunto un interesse materiale, da cui non proviene vantaggio, che si compie entro un tempo e uno spazio definiti di proposito, che si svolge con ordine secondo date regole, e suscita rapporti sociali cha facilmente si circondano di mistero o accentuano mediante travestimento la loro diversità dal mondo solito9.

Si noti bene che Huzinga – nell'edizione inglese – non dice game ma play. Questo è un punto, come vedremo a breve, davvero cruciale e non tanto per dirimere una qualche schermaglia lessicale, ma perché permettere di capire di quale gioco si stia parlando. Da questo primo tentativo definitorio, si evince una natura del gioco/giocare come:

• attività libera, volontariamente intrapresa dai soggetti; • separata dalla vita ordinaria;

• definita nel tempo e nello spazio;

• sprovvista di alcun vantaggio materiale per il giocatore; • ordinata da regole;

• in grado di promuovere l'aggregazione di comunità di giocatori; • svolta all'insegna del mascheramento.

Un simile apparato ha il difetto di prestare il fianco a critiche metodologiche quanto strutturali. Cosa che non sfugge a Eco che, nella sua introduzione al libro, va subito dritto alla questione. A Huizinga, sostiene Eco, va riconosciuto il merito di aver accostato cultura alta e vita quotidiana offrendo una nozione di cultura come complesso di fenomeni (se non riti) in cui il giocare è la costante alla base dei comportamenti. Questa attività è però identificata come fuga dal quotidiano – da qui in parte il senso di quella separazione dal reale tra le caratteristiche strutturali del giocare. Una chiave che Eco attribuisce all’intenzione di Huizinga di affrescare più che di indagare l’oggetto che l’antropologo ha a cuore e che segna tutto il destino di un libro in cui si racconta il come ma non i perché. A onore del vero, secondo Eco non siamo nemmeno al “come”, colpevole quel mancato rigore metodologico che il semiologo italiano giudica fondamentale. Per Eco, infatti, lo strutturalismo di Huizinga si rivela sterile perché fallisce proprio per l’incapacità di riuscire a dire qualcosa di quella struttura che pretende di studiare e su cui si innescano i fenomeni descritti. Colpa grave, si direbbe:

Perché quel che chiederemo oggi all'autore, dopo averci detto che la cultura altro non è che il luogo di un gioco, è proprio che emergano schemi, e formule [...] Ciò che Huizinga non fa perché, [...] egli non è interessato affatto a dirci quale sia il gioco, e come funzioni, ma al fatto che questo gioco viene giocato10.

Ed ecco il secondo problema. Nell'affermare che i caratteri del gioco sono quelli della cultura e che la cultura si manifesta come gioco, Huzinga si disfa del gioco inteso come struttura formale (matrice) in favore di uno studio culturale ove il giocare è equiparato a una serie di performance. Rifiuta quindi la grammatica per analizzare i costrutti, per dirla con Eco, e quindi fa una teoria del comportamento ludico. Proprio

qui emerge quanto detto all'inizio del paragrafo: quello che manca è sapere se Huizinga intenda la cultura come play o game nonostante gli indizi circa l'esistenza di una struttura di base (e quindi del game) sembrano fare timidamente capolino di tanto in tanto.

A nostro avviso, Eco, nel ribadire la necessità di un ricorso alla struttura, cade egli stesso nella trappola della contingente miopia del periodo storico imputata a Huizinga e non si accorge che pur non dichiarandolo direttamente, Huizinga sembra propendere in favore del play, del fare soggettivo contro la scevra oggettività della forma. Pur peccando di rigore metodologico, fa a meno della struttura per interessarsi dei processi. Una scelta che, se oggi non è più scandalosa, fu troppo moderna per il suo tempo. I veri problemi semmai sono altri. Quell'idea di gioco (o play) come area confinata in cui ha azione il rituale sembra prevedere una separazione netta con la vita reale cosa che – proprio in ragione di un'applicazione delle teorie del gioco ai media digitali – fatica a resistere. Per Lastowka, che considera la definizione di play di Huizinga come l'antitesi di play, la caparbietà nel voler mantenere un confine tra due ordini è da interpretare come conseguenza di un preciso momento storico:

There is a specter haunting play and it is the specter of Protestant capitalism. For Huizinga, writing at the moment when the twentieth century corporation loomed large, technological progress trasformed society, and the bureucratic state arose in power, play proffered an alternative. The future promised increasing and comprehensive social control organized toward rational and utilitarian aims. All of this must have been on the mind of Huizinga [...]. It is all the more poignant that Homo Ludens was completed before the end of World War II while the author was imprisoned by the Nazis11.

E ancora di più, qui sì Eco ha ragione da vendere, se si sostiene che la cultura è play – attività ludica tale perché strutturata come game – allora è nell'esecuzione dei suoi riti che essa esprime tutto il suo reale potenziale e i suoi effetti esprimendo una serietà senza pari. Cosa che, a ben vedere, sconfessa una seconda volta l'idea di una separazione dalla vita quotidiana quanto l'assenza di effetti (seri) di tale attività. “Gioco che è già serio in se stesso perché è condizione della vita sociale; [che] non è gratuito perché a destrutturare i giochi o opporre opzioni [...] sta la pressione del

momento materiale che si risolve in gioco ma che nasce come qualcosa d’altro”12. Siamo solo all'inizio del viaggio, e il contributo di Huizinga, sebbene con qualche criticità, offre già molti spunti: tra i tanti, quel concetto di separazione che si dimostrerà ricorrente nel proseguimento di questo esame iniziale.