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Play Theory in Game and Media Studies

3. Playing with creative platforms

3.1. Sistemi, software e piattaforme

3.1.1. Giochi e sistemi

In una recente speech dal titolo “Playing the 'Games'“, Raph Koster ha sostenuto che i giochi siano un sistema denso e complicato ove la parola play indica lo spazio delle possibilità, dell'esplorazione, della scoperta:

Games are meant to wiggle; they're like machines. You poke and prod at them to see what comes out the other end. That is the overall scope of play of the system [...] Play is the wiggle room. It is space. It is explorable areas14.

La sua idea è che per funzionare, per essere ingaggiante, un sistema debba lasciare spazi interpretabili, offrirsi al giocatore come né troppo complesso, né troppo

12 La finalità dell’interaction design è raggiungere la condizione ottimale tra la realizzazione dei bisogni avvertiti da un utente (sinergia tra goal e motivazioni) e l’uso di uno strumento, prodotto, servizio da cui questa stessa realizzazione dipende. Cfr. Cooper, Reimann, Cronin, About Face 3, Indianapolis, Wiley, 2007, pagg. xi-xxxv.

13 Cfr. Evans, Hagiu e Schmalensee, Invisible Engines, Cambridge (MA) and London, The MiT Press, 2006, pagg. 1-16.

14 Nutt, “Raph Koster on Play - The Possibility Space for Games” in Gamasustra, 5 novembre 2013, cit. Disponibile online:

http://www.gamasutra.com/view/news/204085/Raph_Koster_on_play__the_possibility_space_for_ga mes.php (ultima consultazione: 01/12/2013).

semplice. Astenersi dall'indicare relazioni univoche tra simboli e meccaniche, o di lasciare al giocatore una così come infinite possibilità. Invitarlo a fare cose differenti. Permettergli di comprendere in qualche modo come il sistema funzioni. Impostazione decisamente romantica che, se da un lato conferma ancora una volta la natura sfuggente del play, così come abbiamo imparato a conoscerla, manca di dirci cosa sia questo sistema che si deve auto-svelare al giocatore. La stessa metafora che accosta il gioco alla macchina è poco fruttuosa perché “macchina” (letteralmente tradotto) è un termine fin troppo generico che difficilmente, senza l’ausilio di altri indizi, saremo in grado di mettere a frutto. In Rules of Play Salen e Zimmerman offrono nuovamente qualche utile spunto. I due identificano meaningful play, design, sistemi e interattività come concetti indispensabili e interdipendenti per spiegare l'idea di gioco come insieme formale, esperienziale e culturale:

In defining and understanding key concepts like design and systems, our aim is to better understand the particular challenges of game design and meaningful play. Game designers do practice design, and they do so by creating systems [...] The systems that game designers create have many peculiar qualities, but one of the most prominent is that they are interactive, that they require direct participation in the form of play15.

Il centro della questione gira intorno a quanto Huizinga esprime circa la funzione significante del giocare – intesa come attività capace di avere un senso, un significato per sé che è impartito ed espresso attraverso l'azione. Il concetto di design è quindi ricondotto alla sfera dei processi di significazione. Benché vengano offerte una serie di definizioni più o meno esaustive a seconda degli ambiti scelti, qui esso è inteso come creazione di un contesto messo a disposizione di un partecipante dalle cui azioni emerge il significato del giocare. Definizione che tira in ballo quella di interattività intesa come la capacità di interagire con un sistema progettato in tal senso. Il frutto di questo complesso gioco di relazione è il meaningful play. Esso emerge ogni qualvolta si genera interazione tra un soggetto e un sistema progettato per generare senso attraverso la compartecipazione, poco importa che si parli di interattività cognitiva (interpretazione); funzionale (o utilitaristica); esplicita (rispetto a precise scelte e procedure progettate) o culturale (esterne al gioco e all'esperienza

del singolo sistema). Siamo sempre di fronte a una struttura interna e un contesto pensati per attribuire valore alle azioni che sono per questo significative.

Non facciamo alcuna fatica a sostenere che qui sia la progettazione (design) a fare da fulcro: un processo di design o di messa in contesto preventiva di produzione di senso risultanti da una possibile performance più o meno inscritta nel sistema. Attingendo alla teoria dei sistemi, i due autori delimitano una serie di caratteri applicati alla definizione funzionale di gioco. Tratti che possono essere intesi anche in maniera più generale, come sembra fare lo stesso Zimmerman nel suo manifesto quando ne estende la portata a tutti i contesti non ludici entrati in contatto con la filosofia del gioco. Seguiamone le tracce. Tutti i giochi possono esse definiti come sistemi ovvero come un gruppo di elementi correlati e interdipendenti che interagiscono formando un complesso tutt'uno. Benché la parola “sistema” si presti a una pletora di possibili definizioni – dalla matematica alla biologia, essa sembra sempre riconducibile a questo statement generale che serve dunque come prima messa in quadro. Quindi, definire un sistema come complesso di relazioni significa riconoscere che esso altro non è che un insieme di oggetti che “affect one another within an environment to form a larger pattern that is different from any of the individual parts”16. Secondo quanto scrive Stephen J. Littlejohn in Theories of

Communication, che i due citano, sarebbero quattro gli elementi costitutivi da

considerare:

1. oggetti o parti, elementi, variabili all'interno del sistema (astratti o meno); 2. attributi o qualità, proprietà del sistema e dei suoi oggetti;

3. relazioni interne tra gli oggetti;

4. ambiente – i sistemi non esistono in astratto o nel vuoto, ma sono influenzati da quanto li circonda.

Una simile struttura si presta a differenti tipi di analisi e nello specifico: formale,

esperienziale o culturale, secondo la prospettiva che di volta in volta si sceglie di

utilizzare. Una cosa è bene precisare: la scelta del frame entro quale inquadrare l'analisi a un sistema non è mai esclusiva, ma permette di muoversi per inclusioni. Il sistema formale è sempre incluso in quello esperienziale che a sua volta è parte del

più ampio sistema culturale. Se richiamiamo lo schema di gioco e play di Salen e Zimmerman visto nel primo capitolo, quanto appena detto non è di certo niente di nuovo. Applicata al gioco, la formula diventa (dal più piccolo al più grande): regole,

play, cultura. Il che vuol dire che il design di ogni sistema non prevede mai

esclusivamente gli aspetti formali, ma ne considera in maniera specifica l'attuazione (o l'esperienza) all'interno di un dato contesto di valori.

Se ci si sofferma sulle relazioni tra sistemi, bisogna ancora aggiungere un tassello e riferire delle categorie di open system e closed system. Con il primo si indicano tutti i sistemi aperti allo scambio con l'ambiente esterno. Con il secondo, i sistemi perfettamente impermeabilizzati. Nel caso del gioco, se esso è considerato come un sistema formale (regole), questo è un sistema sempre chiuso; se considerato come un sistema culturale esso è sempre aperto; se considerato come un sistema esperienziale esso può essere aperto o chiuso. Quando un sistema raggiunge un livello di complessità elevata (per semplificare, ci limitiamo solo a riferire che qui si guarda al grado di stratificazioni delle relazioni tra i suoi elementi) esso acquisisce proprietà particolari come la capacità di generare pattern inaspettati (emergenti) da un set limitato di elementi formali. Il che palesa comunque il carattere fallace del sistema (e del design) come strutture “restrittive o predittive” perché un risultato emergente non può essere mai anticipato. Esso è frutto dalla messa in uso del sistema da parte del giocatore (play) per via di quell'interattività o agency che gli è propria e riconosciuta dal sistema. Quello che in pratica succede è che, i giochi come molti altri sistemi affini, costituiscono un second-order design problem ove il designer può progettare il sistema formale, ma prevedere solo indirettamente l'esperienza del giocatore. Torneremo ad affrontare con Latour questo preciso aspetto.

Per ora ci basti costatare che tale impalcatura regge altrettanto bene al passaggio dal “gioco come sistema” al “gioco digitale” come sistema. Se progettare è innanzitutto “progettare l'esperienza”, il mezzo hardware (la macchina che esegue il software) e le sue proprietà contano quanto un qualsiasi altro elemento del gruppo. Ecco allora emergere una serie di tratti che, sebbene estendibili genericamente ai giochi, sarebbero più accentuati nella loro controparte digitale: interattività immediata e regolata, manipolazione dell'informazione, automatizzazione delle complessità (gestione simultanea di più livelli), network communication (opzionale). Tuttavia, se manteniamo l'equivalenza tra “sistemi e giochi digitali”, sarebbe il caso di parlare di

proprietà dei sistemi digitali includendo tanto il concetto generale di software quanto quello più specifico di media digitale. Vedremo a breve in che senso.