Play Theory in Game and Media Studies
2. Playing with media
2.3. Media come giocattolo
Nulla togliendo a Bogost e Silverstone (gli spunti offerti da quest'ultimo saranno affrontanti poco più avanti), è Paul Levinson a offrire un'occasione di approfondimento rispetto a McLuhan. Benché non parli mai direttamente di temi legati a play – se non in un più astratto quadro ascrivibile al giocattolo, il suo contributo permette di fare qualche considerazione su sviluppo, diffusione, ruolo e uso della tecnologia nella formazione della cultura di massa. Per Levinson, critici e studiosi hanno approcciato la cultura di massa – o cultura tecnologica – focalizzandosi sulle prospettive estetiche e sociologiche del loro oggetto di studio. Una scelta che contemporaneamente ha tagliato fuori dal discorso qualsiasi attenzione alla tecnologia: sebbene plausibile affermare che molte delle forme di cultura odierne siano possibili solo grazie a essa, si è preferito “to view the connection as axiomatic and undeserving of further research”30. Certo di poter trovare degli elementi comuni nelle meccaniche di adozione, percezione e diffusione delle tecnologie, Levinson procede spedito verso una generalizzazione di principi comuni allo sviluppo della cultura di massa in funzione delle tecnologie dell'intrattenimento. In questo suo percorso, egli distingue tre fasi così sintetizzabili: 1) media as toys; 2) technology as
mirror of reality; 3) technology as midlife to art.
Il cinema è il media scelto per affrontare la prima delle tre fasi. Al tempo della sua prima ascesa, i film erano un pretesto per una dimostrazione di forza che sfruttava elementi quali narrazioni e personaggi per dare lustro alle possibilità della neonata tecnologia, come se il contenuto più importante del medium fosse il medium stesso. McLuhan, scrive Levinson, non a caso sosteneva il concetto della tecnologia come contenuto della tecnologia e ricorreva a questa visione post-funzionale per affermare un rapporto inversamente proporzionale tra l'uso di una tecnologia e il suo essere invisibile (il suo nascondere l'impatto esercitato sulla società): ovvero, essa emergerebbe solo all'atto della sua dismissione o cambio d'uso. Tanto si può dire della polvere da sparo in Cina, impiegata per l'intrattenimento prima di passare a destinazioni militari, o del primo telefono destinato alla sua nascita a essere non più
30 Levinson, “Toy, Mirror, and Art: The Metamorphosis of Technological Culture” in Hickman (ed.), Philosophy, Technology, and Human Affairs, College Station, Ibis, 1985, pagg. 162-175. Disponibile online: http://asweknowit.ca/papers/levinson/toymirrorart.txt (ultima consultazione: 16/12/2013).
di un giocattolo elettronico. Insomma, in questa fase, una tecnologia sarebbe come un giocattolo in cui è l’”uso ludico” – media come “oggetto di gioco” – a regolarne l'ingresso nella società e la sua accettazione. Una sorta di cavallo di Troia con specificità ben visibili e un potenziale ben nascosto. In questo caso, “the enjoyment in these primal forms lies in a fascination with the process -- not the product of the process, but the process itself”31. Sebbene questa propensione al play sia importante per il passaggio alla fase successiva, essa può anche non arrivare mai. Tuttavia, puntualizza l'autore, è molto comune con i media vedere quanto quasi tutti gli esemplari fin qui arrivati abbiano superato questa primo scoglio evolutivo affermandosi poi universalmente.
Il cinema torna utile anche per la seconda fase. Il kinetoscopio di Edison si arrese ai Lumiere quando i due fratelli francesi rinunciarono a gag e scatti in sequenza per puntare la camera verso il treno. Il divertimento e la curiosità con cui si usano le tecnologie nella loro fase di giocattolo abdicano in favore di ben altre emozioni più consone a eventi che sembrano reali. Questa sospensione dell'incredulità ribalta quanto visto con lo stesso McLuhan: con questa transizione, il contenuto supera e oscura la tecnologia. Questa è solo in parte una disconferma del canadese, perché è proprio per tale conquistata condizione di realtà che è possibile parlare di strumenti, protesi che estendono il controllo dell'uomo sul reale: così è per il telefono come primo strumento di comunicazione prima dell'arrivo del computer, di film e televisione ove la tecnologia del primo (produzione) e della seconda (trasmissione) sparisce di fronte al contenuto.
L'ultimo stadio è per Levinson il più importante per le finalità del suo studio circa la capacità di alcuni media di raggiungere l'arte diventandone strumenti. In questo caso è Melies a rappresentare il cinema: l'incidente durante le riprese di una scena quotidiana svela al regista le possibilità dell'editing proprie della macchina da presa come strumento tecnologico. Quello stesso editing che sarà usato da Griffith come “montaggio”. Non si tratta però per Levinson di riconoscere i meriti dell'elemento soggettivo nel farsi veicolo di questo avvicinamento verso l'arte. Al contrario, il contributo soggettivo dell'artista, così come l'editing, sarebbe una conseguenza della scoperta – fortuita o no – di alcune caratteristiche latenti dei
media. Se si segue la teorizzazione delle ere di McLuhan32 (orale, scritta e elettronica) si può tentare un interessante parallelo:
technology as toys displays the subjectivity of the oral, the no seriousness of the joke, the flexing of muscle for its own sake characteristic of sensorimotor activity, and the emphasis upon technicque or delivey common to humor, oral communication an sensorimotor behavior. Technology as mirror stresses accuracy, objectivity, and prominence of content knowledge [...] Technology as art [...] is both serious and subjective33.
Pare evidente che Levinson tratteggi una visione del gioco secondo i caratteri di soggettività, divertimento, assenza di serietà, autotelismo. In questa schietta difesa del determinismo tecnologico, l'ipotesi per la quale i media nascano come giocattoli, diventino specchi del reale e poi strumenti di espressione artistica ha il suo fascino (anche per la concezione a due vie di questo processo evolutivo). Così come non è esente da critiche. Kucklich, ad esempio, osserva l'incapacità di Levinson di concepire le fasi come coesistenti e connesse. Ciononostante, “Levinson's argument draws attention to the fact that the perceived playability of new media might fade as [they] evolve”. I giochi digitali visti – a tratti – come arte, altre volte come puro intrattenimento, altre ancora come mero susseguirsi di innovazione stanno proprio in questa zona grigia che Levinson non ha saputo coprire. Pare azzeccata l'intuizione di Kline et al. nel considerare i videogiochi come merce prototipale del capitalismo dell'informazione ove il centro dell'economia passa dalla produzione di merci alla produzione di innovazione34. Lo stesso notano Ivonne e Jacobs anni dopo nell'affrontare lo stato di beta perpetua di alcuni Facebook games35.
32 Cfr. McLuhan, 1964.
33 Levinson, 1985, cit., pag. non disponibile.
34 Kline et al, 2003, pag. 66.
35 Jacobs, Sihvonen, “In Perpetual Beta? On the Participatory Design of Facebook Games”, Proceedings of DiGRA 2011 Conference, Disponibile online:
http://www.digra.org/wp-content/uploads/digital-library/11312.19220.pdf (ultima consultazione: 15/12/2013).