CAPITOLO PRIMO
1. IL PECCATO ORIGINALE DELL’ANTROPOLOGO: FARE RICERCA A CASA
1.3. Vantaggi e svantaggi della ricerca at home
Analizzare un fenomeno sociale prodotto dal nostro stesso ambiente socio-culturale implica una serie di vantaggi e svantaggi all’apparenza evidenti. Tuttavia, tra le caratteristiche peculiari dell’antropologia a casa molte risultano controverse, a seconda di chi ne fa menzione e per quali ragioni (cfr. Messerschmidt 1981; Jackson 1987; Gupta e Ferguson 1997a; Amit 2004; Hannerz 2012). In ogni caso, è fuor di dubbio che condurre un’etnografia at home stia diventando sempre più comune, sia che venga considerata antropologicamente valida o meno. Va inoltre sottolineato che tale giudizio di validità si basa esclusivamente sulla scelta del campo e dell’oggetto della ricerca, preponderanti nel determinare l’antropologia “autentica” (Gupta e Ferguson 1997a), e non sulle metodologie, la prospettiva teorica e le competenze del ricercatore (cfr. Weston 1997).
Già più di trent’anni fa Aguilar (1981) e Hayano (1979) citavano alcune delle ragioni specifiche per questo “rimpatrio dell’antropologia” (Marcus e Fischer 1986), sebbene alcune di queste siano prettamente correlate al contesto accademico statunitense. Tra
queste c’era la drastica diminuzione dei fondi alla ricerca scientifica, per cui condurre un’etnografia entro i propri confini nazionali risultava spesso l’unica opzione disponibile ; a ciò poi si aggiungeva l’ingresso progressivo nel mondo della ricerca di 11 esponenti di minoranze etniche e sociali, che, per quanto fosse un dato intrinsecamente positivo, comportava una maggiore competizione non solo per il reperimento dei finanziamenti ma anche in merito al “diritto” di parlare in nome dei propri concittadini. Inoltre, con il compimento graduale del processo di decolonizzazione, il rifiuto da parte di alcuni paesi di accogliere ricercatori accomunati con i precedenti dominatori si stava facendo sempre più concreto da una parte e, dall’altra, una disciplina che si occupava esclusivamente dell’umanità “non occidentale” cominciava a risultare poco accettabile sia moralmente sia da un punto di vista politico e intellettuale (Hannerz 2012). Infine, la sempre maggiore specializzazione in sottodiscipline (antropologia urbana, antropologia medica, ecc.) permetteva a molti ricercatori di lavorare fuori dal mondo accademico, mettendo le conoscenze antropologiche al servizio delle istituzioni locali. Hannerz (2012), da una prospettiva più recente, sottolinea che se il compito dell’antropologia è quello di esplorare la diversità, oggi ce n’è abbastanza a casa senza la necessità di spostarsi altrove; anzi, avrebbe poco senso escludere tale diversità solo in base a un criterio di vicinanza. L’antropologo svedese cita inoltre un’ulteriore motivazione spesso taciuta, ovvero il fatto che la tendenza odierna ad accelerare i percorsi di studio per equipararsi alle necessità del mondo lavorativo rendono ancor più difficile portare avanti una ricerca di stampo classico, quella che per intenderci Evans-Pritchard riteneva dovesse comprendere due anni di preparazione teorica, l’ottenimento di un finanziamento, due anni sul campo, altri cinque anni almeno per elaborare e pubblicare i risultati della ricerca e, implicitamente, una condizione di vita libera da qualsiasi altro
In Italia la situazione è probabilmente anche peggiore: ricordo un professore al primo anno di 11
antropologia alla Sapienza che provocatoriamente ci disse “se non siete ricchi di famiglia dimenticatevi di fare gli antropologi di professione”.
impegno professionale o familiare (Hannerz 2003). Tali condizioni sono evidentemente difficili da raggiungere oggi ancor più di ieri, eppure questo modello continua ad avere un ruolo predominante nelle modalità di concezione e insegnamento della materia, creando una dissonanza sempre più crescente tra i progetti di ricerca scritti e i siti e i metodi di ricerca concretamente vissuti (Des Chene 1997), tanto che, da antropologi neofiti, oggi ci si forma con una nostalgia intrinseca per una mancanza a priori, quasi che il campo classico fosse il peccato originale dell’etnografo contemporaneo.
Sembra quasi scontato sottolineare che fare ricerca a casa porti una serie di evidenti vantaggi pratici, come un linguaggio veicolare - verbale e non - condiviso da tutti i poli della relazione etnografica, il risparmio economico dovuto a viaggi più brevi, una quantità maggiore di conoscenze e informazioni preliminari, un accesso al campo più facile e veloce e la possibilità di potervi tornare più frequentemente, intervallando così le fasi di raccolta dati a quelle di elaborazione degli stessi. In generale, fare ricerca a casa spesso comporta condizioni di vita più agevoli (“un lavoro sul campo senza pillole della malaria”, come ironicamente osservato da Hannerz 2012: 92) e la mancanza di tutte quelle conseguenze relative all’isolamento e alla nostalgia di casa che rendono così difficile (e per alcuni significativa) l’esperienza.
Eppure, anche quelli che sembrano vantaggi possono rivelarsi trappole ben nascoste se si danno troppi elementi per scontati. Così, una ricerca condotta in un contesto vicino, diffuso o difficilmente localizzabile può riscontrare più difficoltà nel reperire finanziamenti; oppure l’eccessiva vicinanza col campo può far sottovalutare al ricercatore la reale necessità di trascorrervi periodi di immersione totale; o ancora, la familiarità col campo, come spiego più avanti, può implicare degli obblighi sociali e morali che ne ostacolano lo svolgimento; e così via. Tra i privilegi più rischiosi di una ricerca a casa c’è quello del linguaggio condiviso, che può portare a minimizzare i significati nascosti e alternativi con cui alcune parole di uso comune vengono impiegate in quel particolare contesto. Molgaard e Byerly (1981) ad esempio, studiando un cerchio
di guarigione in una comunità hippie, diedero inizialmente per scontato il fatto che l’utilizzo degli appellativi “fratello” e “sorella” all’interno del cerchio denotassero solidarietà di gruppo, così come vengono ad esempio utilizzati nelle comunità afroamericane; solo col tempo e da interviste successive emerse invece che in quel caso gli altri membri del gruppo venivano definiti tali perché considerati effettivamente fratelli e sorelle (o persone estremamente vicine) nelle vite precedenti. Nella mia ricerca ricordo un’assemblea della RIVE tenutasi nella primavera del 2015 nella cooperativa biologica di Dulcamara (all’epoca progetto di ecovillaggio) in cui, fra le decisioni da prendere, bisognava scegliere il titolo del raduno successivo. Alcuni “novellini” (me compresa) proposero “Ecovillaggi: radici di cambiamento”: ne seguì una lunga discussione sull’inappropriatezza del termine “radici”, che, nelle menti di alcuni comunardi più anziani evocava l’idea di purezza e superiorità professata dai nazionalismi autoritari del XX secolo, mentre per noi era un’evocativa metafora naturalistica per esprimere a un tempo il radicamento in un territorio e il desiderio di migliorarlo. La discussione proseguì a pranzo con altri membri più giovani della rete che lamentavano come alcuni concetti venissero caricati di significati politici, storici ed etici che ne impedivano il libero utilizzo, mentre uno degli scopi degli ecovillaggi sarebbe dovuto essere proprio quello della riappropriazione: non solo quella fisica di territori abbandonati e spazi in disuso, ma anche quella simbolica di linguaggi e pratiche comuni. All’interno del mondo degli ecovillaggi italiani non è raro infatti leggere o ascoltare neologismi di tipo avanguardistico che cercano di veicolare, attraverso variazioni minime del linguaggio comune, profondi cambiamenti sociali (“FormAzione” nel parlare di forme di educazione alternative, “Condi-Vivere” a intendere la condivisione comunitaria, “IncontrAMarsi” per indicare una forma di relazione più profonda, “Valorare” invece di lavorare, ecc.). In questo gli ecovillaggi si avvicinano con una forma meno incisiva alle pratiche di guerrilla communication di altri movimenti alter-globali, dove alla mobilitazione di massa si preferiscono azioni
simboliche che distorcano la norma e sfidino il discorso egemonico (Blisset e Brünzels 2001). A volte dunque nella ricerca a casa è necessario “imparare un altro linguaggio nelle parole della propria madrelingua” (Okely in: Strathern 1987: 16), cosa che può risultare ben più insidiosa che apprenderne uno nuovo da zero.
Le caratteristiche peculiari che vengono solitamente ascritte alla ricerca a casa sono la sovrapposizione (fisica e concettuale) del luogo di lavoro con il luogo che si abita, il maggior grado di coinvolgimento col campo, una maggiore familiarità e la conseguente mancanza di quello “shock culturale” considerato essenziale nell’esperienza antropologica, la riflessività e l’empatia che possono conseguire dagli elementi precedenti. A questi aggiungo la diffidenza accademica nei confronti di un’etnografia condotta a casa, che, seppur non rappresenti una caratteristica intrinseca, ne influenza e modella enormemente risultati e condotta.
Ognuno di questi elementi può comportare sia agevolazioni che difficoltà, e spesso lo stesso aspetto, elogiato o denigrato a seconda che si supporti o si contesti la sua validità epistemologica, può fornire un ostacolo o, al contrario, uno spunto di maggior riflessione al ricercatore, in base a un insieme di elementi concatenati tra cui spiccano le sue stesse capacità e propensioni. In effetti, sia le difese che le accuse alla ricerca at home sembrano non tenere in considerazione due fattori principali: il primo è lo stato e la storia delle relazioni sia interne sia verso l’esterno che contraddistinguono il gruppo sociale analizzato (Aguilar 1981); il secondo è proprio la soggettività del ricercatore, le sue abilità comunicative e le sue competenze professionali, indipendentemente che faccia ricerca vicino o lontano da dove è cresciuto.
Tutte le critiche e le lodi, dunque in sostanza la distinzione tra ricerca a casa e non, si basano su una visione idealizzata che considera il ricercatore completamente insider o
outsider, concetti che, nella complessità della realtà sociale quotidiana, devono essere
considerati bozze di categorie preliminari, troppo imprecise e variabili per essere applicate come criteri analitici statici (Hannerz 2012). Generalmente, data la natura
altamente interconnessa della realtà sociale contemporanea, il ricercatore si ritrova semplicemente a essere intrecciato nella maglia relazionale che costituisce il suo ambito di ricerca e che si intesse inevitabilmente con il suo percorso di vita (Casas-Cortés et al. 2013). Lo status dell’antropologo può inoltre variare col tempo, arrivando a essere considerato insider, o viceversa, venendo disconosciuto come tale. Oppure, l’attribuzione può variare a seconda di quali aspetti si prendano in considerazione all’interno del contesto analizzato (genere, classe, ideologia, ecc.) (Narayan 1993). Infine, egli può decidere coscientemente di esaltare o minimizzare uguaglianze e differenze per agevolare la ricerca (Aguilar 1981), a favore di un posizionamento mobile costantemente rinegoziato a seconda delle variabili affinità che si creano con i soggetti con cui interagisce (Marcus 1995).
Ad esempio, il mio ruolo di attivista e al contempo di scienziata sociale “esperta del settore”, veniva a volte “sfruttato” dai miei interlocutori (e di conseguenza da me esaltato) nel corso di eventi rivolti a un pubblico esterno come garanzia di credibilità dell’evento stesso. Tale atteggiamento veniva a volte esteso per proprietà transitiva anche al mio compagno, fisico teorico: è capitato infatti che venisse citata la meccanica quantistica e la sua relazione con le visioni olistiche della realtà che circolano negli ambienti contro-culturali e New Age, molte di queste ispirate al “Tao della Fisica” di 12 Fritjof Capra, e che la sua presenza (casuale) venisse utilizzata per accreditare la veridicità delle teorie esplicate . Altre volte invece, ero io stessa a dover minimizzare la 13
“Contro-cultura” è un termine introdotto per la prima volta nel 1968 da un giovane accademico 12
americano, Theodore Rosznak, per indicare la base culturale della New Left, ovvero la ricerca di “nuovi tipi di comunità, nuovi modelli di famiglia, nuovi costumi sessuali, nuovi mezzi di sostentamento, nuove forme estetiche, nuove identità personali in opposizione al potere politico, alla casa borghese e all’etica del lavoro protestante” (Marwick 1998: 11).
È interessante notare come spesso contesti contro-culturali come questo, in cui ad esempio si dichiara 13
(come d’altronde fa la stessa antropologia) che il discorso scientifico sulla natura non rappresenti una verità incontrovertibile ma descriva solo una delle tante relazioni che l’uomo può avere con essa, sentano poi l’esigenza di una sorta di imprimatur da parte di quella stessa scienza per poter veder riconosciuta la propria validità all’esterno.
mia affiliazione con un sistema educativo che molti di loro ritengono sbagliato: così sul campo mi sono trovata spesso a dover definire interviste e gruppi di discussione come “flussi di coscienza”, mentre i metodi quantitativi di raccolta dati (ridottisi non a caso a un solo questionario) sono diventati “associazioni di idee”, per poter interagire più efficacemente con i miei interlocutori che spesso avevano una relazione problematica con modelli di fruizione ed elaborazione della conoscenza considerati impositivi e limitanti.
Tale sdoppiamento riflette una problematica comune dell’antropologo sul campo, il quale sente la necessità di riconoscersi ed essere riconosciuto dai suoi interlocutori entro un orizzonte accademico per poter svolgere autorevolmente il suo compito, ma poi, in un concreto contesto etnografico, questo universo di riconoscimento può rivelarsi un ostacolo più che una risorsa (Matera 2017). In generale tuttavia, il mio ruolo all’interno dell’università veniva accettato senza alcun particolare sforzo, probabilmente per quella comunanza di estrazione sociale per la quale molti dei miei interlocutori erano laureati, avevano frequentato l’università o avevano figli che la frequentavano.
1.3.1. Vivere tra “casa” e “campo”
Una delle difficoltà più oggettive della ricerca at home è quella di tenere separati la “casa” dal “campo”, non solo fisicamente, ma anche concettualmente. Se tradizionalmente infatti i due erano luoghi fisici, lontani e ben distinti, nel fare ricerca in un contesto non lontano da cui si vive è difficile distinguere e far distinguere quando si sta lavorando da quando si sta semplicemente vivendo (Caputo 2004; Dyck 2004). Come affermato da Caputo (2004), “one is never able to be completely ‘in the field’, nor is one
ever completely able to ‘leave the field’”. Al contrario di una ricerca classica infatti, questo
consideriamo casa o campo, fa sì che anche quando non siamo fisicamente sul campo, ci siamo mentalmente (cfr. Wulff 2002).
Connessa a questa difficoltà c’è poi quella di tenere separati i diversi ruoli che si interpretano nel copione della vita quotidiana. Per poter condurre efficacemente una ricerca a casa bisogna infatti intraprendere una continua negoziazione tra i doveri, le priorità e le esigenze lavorative e familiari, alcune delle quali possono entrare in conflitto tra loro. Nel mio caso, come probabilmente nella maggior parte delle ricerche a casa, le difficoltà maggiori riguardavano l’inserimento di un ulteriore livello di impegno nella trama preesistente di incombenze quotidiane: mentre in un’etnografia più tradizionale ci si immerge per mesi in un contesto nuovo, mettendo temporaneamente in pausa il resto della propria esistenza e mantenendo i contatti con la “vita vera” con un grado e una frequenza che noi stessi possiamo determinare, nella ricerca a casa non è stato sempre facile conciliare e distinguere i ruoli di figlia, moglie, amica, volontaria, attivista e ricercatrice, soprattutto perché la distinzione non era sempre ben compresa da chi mi stava attorno. Tali distinzioni infatti non sono solo difficili da mantenere, ma sono anche difficili da comprendere dall’esterno: all’antropologo è richiesta perciò un’elevata self-consciousness (Amit-Talai in Caputo 2004: 26), ovvero una capacità di comprendere come il proprio ruolo e le proprie azioni si riflettono su chi è intorno e sul contesto più ampio.
A volte gli stessi colleghi antropologi, dimenticando che si sta effettivamente nel pieno della ricerca sul campo, non ti ritengono esonerato dagli impegni di dipartimento (Caputo 2004: 28); oppure amici e familiari fanno fatica a comprendere quando stai lavorando e non devono disturbarti, soprattutto quando l’attività dell’antropologo consiste nel semplice “hanging out” (per quanto “deep” questo sia, Clifford 1997: 188) e dunque sembra non si stia facendo nulla di importante. Ma la relazione più delicata è ovviamente con gli interlocutori (col tempo divenuti inevitabilmente amici, collaboratori, maestri), con i quali il rischio di sfruttamento (reale o percepito) o
travisamento delle intenzioni è sempre alle porte (cfr. Okely e Callaway 2005). Ricordo perfettamente le tante serate trascorse all’aperto nella umida campagna tosco-emiliana a parlare con entusiasmo della vita parallela che loro si stavano impegnando a costruire giorno per giorno, e di come ogni volta mi sentissi una “spia” perché prendevo mentalmente nota delle contraddizioni, delle défaillances e delle inverosimiglianze che mi raccontavano. O come, a ogni loro tentennamento o divagazione, mi sembrasse di scorgere nel loro sguardo il dubbio che qualsiasi cosa mi stavano raccontando sarebbe diventata oggetto di scrutinio etnografico. Capitava effettivamente che durante quelle chiacchierate informali avvenute in situazioni confidenziali mi ritrovassi inconsapevolmente a indossare le mie “lenti antropologiche”, e che poi descrivessi analiticamente e nel dettaglio quelle confidenze nel diario di campo. Un compromesso che ho raggiunto nell’elaborazione scritta è stato quello di non citare confidenze fatte in situazioni in cui il ruolo che mi veniva attribuito era palesemente quello dell’attivista o dell’amica (a meno che questo potesse avvenire senza alcun riferimento riconducibile all’identità del soggetto in questione) e quello di chiedere feedback su ciò che stavo scrivendo ai miei interlocutori privilegiati (cfr. Hamm 2015). Del resto, anche senza citare episodi o confidenze particolari, l’esperienza che ne ho tratto mi ha dato la possibilità di analizzare il contesto più ampio con maggiore consapevolezza personale e professionale (cfr. Dyck 2004).
Il senso di colpa nei confronti della relazione di potere sbilanciata che si crea tra il ricercatore e i propri informatori, soprattutto quando queste relazioni si trasformano in amicizie, è sentimento noto all’antropologo. Tuttavia questo è ancora più accentuato se si lavora nel proprio contesto: in primo luogo perché è molto più probabile che ciò che scriveremo venga letto dai nostri interlocutori (cfr. Brettell 1993; Hannerz 2012), sebbene l’antropologo scriva comunque avendo in mente un pubblico accademico; in secondo luogo, perché spesso ci si trova a condurre l’osservazione partecipante durante delle
attività quotidiane che si compiono ricoprendo anche altri ruoli (Young in Dyck 2004) e questo ci fa sentire ancora di più come infiltrati sotto copertura.
Così, la strenua lotta che portavo avanti per farmi accettare, per sentirmi una di loro, per meritare la loro fiducia, faceva sì che a volte oscurassi il mio ruolo di ricercatrice e il reale motivo per cui ero lì. Quando mi trovavo in un ecovillaggio a lavorare come volontaria ad esempio, lavoro che spesso si traduceva in attività fisiche e manuali particolarmente impegnative o faticose, a volte non avevo il tempo e le energie necessarie alla redazione delle note di campo. Ciononostante non mi tiravo mai indietro, non mettevo mai dei paletti: sebbene per l’analisi successiva la mancanza di note riguardanti particolari esperienze sia risultato a volte uno svantaggio, ritengo però che questo atteggiamento mi abbia permesso di avere un rapporto di fiducia privilegiato con molti membri della rete.
Altre volte invece con i miei interlocutori sottolineavo maggiormente il mio ruolo di attivista, minimizzando esplicitamente quello di ricercatrice: da una parte per timore che mi considerassero una sorta di inquisitrice al soldo del “sistema”, dall’altra perché a volte mi sentivo effettivamente più vicina a quella comunità che a quella accademica che mi investiva del ruolo di antropologa. C’è da dire infatti che a volte sul campo, ovunque questo si localizzi, si produce un’inversione di ruoli e un rovesciamento di potere per cui il ricercatore si ritrova a essere discepolo invece che discente. Nel corso degli anni di frequentazione degli ecovillaggi, ho seguito molti corsi e laboratori, soprattuto in ambito comunicativo (comunicazione empatica, deep democracy, sociocrazia, ecc.). Poiché i metodi di comunicazione sperimentati negli ecovillaggi si basano sulla non violenza, l’empatia e l’ascolto profondo dell’altro, mi sono trovata a volte a intervistare persone a cui precedentemente, durante uno di quei corsi, avevo confidato i miei problemi raggiungendo livelli di condivisione profondissimi. Durante le conversazioni più “etnografiche” dunque, il livello emotivo era sempre molto alto,
spesso accompagnato da sincera commozione e dalla vivida sensazione che quello che stavo ricevendo era molto di più di quello che avrei potuto dare in cambio.
Un’altra difficoltà legata alla commistione tra casa e campo è il momento dell’uscita, che in un simile contesto di ricerca risulta assai più problematica. Mentre infatti in un campo più tradizionale il distacco avviene fisicamente attraverso una partenza, utilizzata anche come dispositivo narrativo per dare un senso di chiusura all’etnografia e per prendere le distanze necessarie a riportare per iscritto l’esperienza vissuta (Clifford 1997), in questo caso la conclusione del campo significa semplicemente che “non si visita più” (Norman 2004: 122), e questo potrebbe esser percepito come un tradimento o una noncuranza. Nel mio caso specifico tuttavia ciò non è accaduto, poiché, per quella frequente mobilità che ormai caratterizza tutti gli attori di una relazione etnografica compreso lo stesso antropologo, è stata la mia casa a spostarsi di un continente, e dunque il distacco fisico è comunque avvenuto senza che per questo mi sentissi in colpa o venissi accusata di indifferenza. In fase di scrittura il problema