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CAPITOLO SECONDO

2. PER UNA METODOLOGIA TRANS-LOCALE: ETNOGRAFIA DI UNA RETE

2.1. Quando il “campo” non è un “dove”

Ormai da tempo la concezione classica di “campo” come luogo unico e ben determinato dove approfondire gli aspetti culturali di uno specifico gruppo umano, caratterizzato da “historically specific range of distances, boundaries, and modes of travel" (Clifford 1997: 190), è stata messa in discussione in antropologia. Allo stesso modo, è entrata in crisi l’idea di un fieldwork condotto con dei vincoli temporali, spaziali e metodologici ben precisi. E tuttavia, vero come lo era vent’anni fa quando Akhil Gupta e James Ferguson curarono il volume Antropological Locations: Boundaries and Grounds of a Field

Science (1997a), la conoscenza antropologica tramandata nelle università continua a

prediligere un’idea convenzionale di come e dove l’antropologo dovrebbe fare esperienza, con poche revisioni critiche del concetto di campo e ancor meno indicazioni metodologiche su come affrontarlo (Matera 2015). In tal modo, il campo continua non solo a rappresentare quella pratica iniziatica che funge da sigillo di garanzia e criterio di selezione del “vero antropologo”, ma anche a definire i confini tematici ed epistemologici di quella che deve essere considerata la “vera antropologia” (Gupta e Ferguson 1997b). La ricerca sul campo così pensata è infatti ancora considerata una sorta di rito di passaggio per raggiungere la maturità professionale (Hayano 1979; Gupta e Ferguson 1997b; Hannerz 2012; Matera 2015) o, come messa argutamente da

Hannerz (2016: 4), “the stuff from which heroes and heroines are made in anthropology”. Se da una parte questa azione trasformativa attribuita all’esperienza etnografica è un dato di realtà, dall’altra parte però questo ha più a che vedere con l’esperienza del viaggio “profondo”, del contatto con la diversità, dell’andare oltre la propria comfort zone e della crescita che ne deriva (Clifford 1997), piuttosto che con un’idea di campo storicamente costruita e geograficamente determinata.

L’aura di mistero che avvolge la ricerca empirica appare quasi una condizione imprescindibile affinché l’antropologia possa continuare a professare la validità del proprio contributo teorico all’interno del dibattito culturale interdisciplinare. Come osserva Francesco Remotti (2006) citando Hobsbawm e Ranger (1987), non sono solo le comunità e i gruppi sociali studiati dall’antropologo ad “inventarsi” alcune tradizioni in tempi di crisi, con lo scopo di legittimare la propria esistenza riallacciandosi a un passato idealizzato: a volte sono le stesse comunità scientifiche ad avere bisogno di costruirsi delle tradizioni ad hoc per giustificare la propria validità epistemologica (cfr. Clifford 1997). Il campo è una di queste.

Questa attitudine conservatrice nei confronti dell’etnografia ha avuto due conseguenze principali: da un lato, ha alimentato la convinzione che ciò che contraddistingue l’antropologia dalle altre scienze umane e sociali a lei affini sia nient’altro che il metodo di raccolta dati, una sorta di “controparte qualitativa” della statistica (Hannerz 2012: 75), e non quella prospettiva comparativa sull'umanità che permette di analizzarne la diversità accogliendo in maniera critica e densa le sue deviazioni e contraddizioni . 22 Dall’altro lato, la rigidità con cui il lavoro di campo è pensato (proprio perché conditio

sine qua non che legittima la disciplina stessa) ha in qualche modo rallentato

l’antropologia rispetto alle altre discipline che fanno della critica culturale l’obiettivo centrale nella comprensione della contemporaneità. Questo perché pensare il campo

Tomlinson la definisce “una modalità inquisitiva di abitare il mondo sociale basata sulla pratica di 22

esclusivamente come luogo fisico ha contribuito alla concettualizzazione della cultura come un oggetto di studio localizzato (Matera 2015) che mal si presta all’analisi e alla comprensione di un mondo interconnesso e deterritorializzato come quello contemporaneo. Come sottolineato da Appadurai (2007), nell’epoca genericamente definita post-moderna, una delle grandi certezze venute a mancare è stata proprio quell’interconnessione apparentemente stabile tra spazio e riproduzione culturale su cui si basava buona parte delle etnografie canoniche. Ora invece, “il prefisso etno- dell’etnografia assume una connotazione instabile, spaesata, alla quale le pratiche descrittive dell’antropologia dovranno rispondere” (Appadurai 2007, cap. 2).

La necessità di localizzazione, unita alla paura di una eccessiva generalizzazione, ha così portato a celare o addirittura a eliminare la complessa dimensione reticolare entro cui ogni società si colloca, dunque a ignorare il fatto che qualsiasi fenomeno ci troviamo ad analizzare, per quanto apparentemente piccolo, “tradizionale” o localizzato sia, richiama innumerevoli connessioni col mondo esterno, siano queste politiche, economiche, ambientali o determinate dall’immaginario individuale e collettivo che i mezzi di comunicazione contribuiscono a creare.

2.1.1. Teoria omogenea, pratiche eterogenee

Nonostante le numerose riflessioni in ambito teorico, spesso l’accademia continua a insegnare e sostenere una concezione classica di campo (cfr. ad esempio Hastrup e Hervik 1994), soprattutto come atteggiamento difensivo nei confronti di una sempre maggiore interdisciplinarità che rischia di privare l’antropologia di una sua identità distintiva. D’altra parte tuttavia, le contingenze storiche e sociali hanno reso la pratica etnografica molto più innovativa ed eterogenea che in passato (cfr. Des Chene 1997), a dimostrazione che l’appello mosso da pensatori quali Appadurai (le cui riflessioni sopra riportate sono state pubblicate per la prima volta nel 1991) non è rimasto inascoltato. Nonostante infatti gli archetipi malinowskiani dell’antropologo sul campo

siano ancora profondamente implicati nella pratica etnografica (Fillitz 2013), le nuove generazioni di ricercatori che vivono (prima che analizzare) la mobilità, la precarietà, il cambiamento e la mediatizzazione del mondo contemporaneo come parte integrante della loro sfera quotidiana, si trovano molto più che in passato a riflettere sulle discrepanze tra ciò che hanno studiato e la realtà che li circonda. Molti studenti oggi vivono quotidianamente la differenza culturale, abituati a viaggiare frequentemente all’estero, o nell’interazione con lo straniero nel proprio quartiere, oppure perché provengono proprio da quei luoghi remoti di cui si parla nelle classi di antropologia (Hannerz 2012). E questo influenza come l’antropologia contemporanea viene insegnata, pensata e praticata, rendendola “transnazionale” anche quando la globalizzazione non è l’esatto argomento di ricerca (ibidem).

In questa revisione della pratica etnografica, l’osservazione partecipante è uno degli aspetti più messi in discussione: pur essendo ancora considerata fondamentale per la produzione di un sapere antropologico “autentico” infatti, se non è accompagnata da una medesima rilevanza dell’attribuzione di senso che gli stessi attori sociali danno alle proprie azioni, rischia di appiattire e banalizzare la complessità dell’interazione etnografica (Matera 2017). Per questa ragione durante i periodi trascorsi tra ecovillaggi, e influenzata da una delle “filosofie pratiche” maggiormente professate dai membri del movimento, la Permacultura, mi divertivo a definire il mio lavoro “osservazione interattiva”, sottolineando in questo modo la maggiore aderenza etimologica a quella fondamentale reciprocità che si instaura tra i diversi attori sul campo. Uno dei principi fondamentali della visione permaculturale infatti, che a mio avviso richiama molto da vicino la pratica etnografica, è la convinzione che, prima di iniziare la progettazione di uno specifico ambiente, sia necessario un periodo molto lungo di osservazione dei meccanismi culturali e naturali già in atto su quel territorio, così da far emergere le sue caratteristiche intrinseche e potere interagire efficacemente ed eticamente con gli elementi presenti (umani e non). Sempre per lo stesso motivo, fin dalle primissime

esperienze etnografiche ho provato un certo imbarazzo nell’utilizzare il termine “informatori”, preferendogli di gran lunga quello suggerito da Sanga (2007) di “interlocutori”, che ne riconosce l’importanza come co-partecipanti alla produzione di una conoscenza antropologica dialogica (cfr. Tedlock 2002 in: Matera 2017).

Ciò tuttavia non significa che l’osservazione partecipante sia un metodo che non ricopra più una sua ragione d’essere: se l'etnografia è ancora considerata elemento distintivo dell’analisi antropologica è perché quest’ultima dipende ancora molto da essa non solo come laboratorio teorico, ma anche perché rispecchia l’importanza data alla conoscenza diretta e approfondita della diversità nella nostra disciplina, conoscenza che non può darsi come già nota o scontata, e non si può apprendere solamente di seconda mano o con metodologie che vincolano eccessivamente la nostra esplorazione (Ingold 2008; Hannerz 2012). Significa invece che la nozione di fieldwork e tutte le metodologie centrali in un’analisi qualitativa vanno reinterpretate alla luce dei nuovi contesti che l’antropologo contemporaneo si trova ad affrontare (Gupta e Ferguson 1997a; Amit 2004b; Coleman e Collins 2006).

Nella pratica odierna dunque, l’osservazione partecipante può non prevedere più necessariamente un’immersione prolungata e continuativa e una presenza costante dell’antropologo in un unico contesto (Amit 2004a), poiché il campo stesso non è più necessariamente un luogo univoco e circoscritto dove trascorrere un tempo prolungato, totalmente immersi in un contesto da cui il resto dell’esperienza soggettiva dovrebbe rimanere fuori. Sempre più spesso è invece pensato come “una dimensione conoscitiva, etica e politica” (D’Agostino 2013), più simile alla metafora fisica di un campo di forze interattive (cfr. Martin 1997; Strauss 2004) che a quella del terreno agricolo, dove un insieme di “vettori” (persone, organizzazioni, oggetti, idee, ma anche gli obiettivi, i limiti e la vita del ricercatore stesso) sono collegati e interconnessi tra loro, veicolando e indirizzando il campo stesso.

A volte poi il campo non è neanche considerato un luogo, fisico o virtuale, mono o multi-situato che sia: a volte può essere un periodo di tempo o un insieme di eventi (Des Chene 1997). In casi simili la discontinuità dei fenomeni culturali contemporanei non si dà solo nello spazio ma anche nel tempo (cfr. Wulff 2002) e la concezione tradizionale di ricerca sul campo perde ulteriormente di senso. Nel mio caso ad esempio il movimento degli ecovillaggi vive solo durante i raduni e le conferenze (nel caso della RIVE cinque all’anno) e nella realtà dell’incontro virtuale. Non che in passato il campo esistesse come luogo a se stante, in cui il ricercatore poteva saltare dentro come Alice nella tana del Bianconiglio. Era tuttavia così che questo veniva generalmente pensato, come il contenitore di un particolare insieme di relazioni sociali (Falzon 2009) da cui in realtà si sceglieva arbitrariamente di escludere tutte le connessioni da e verso l’esterno (ingerenza statale, conseguenze economiche e ambientali dell’esternalizzazione industriale, emigrazione e conseguente rielaborazione di pratiche tradizionali, ecc.), per poter così ritagliare l’oggetto di interesse antropologico attraverso processi di localizzazione e destorificazione (Matera 2017) che permettessero all’antropologo di costruire una conoscenza olistica e un expertise identificativa della propria competenza professionale. Questa visione è ancora parte integrante dell’immaginario antropologico, sia interno che esterno alla disciplina.

Oltre all’unicità e alla delimitazione spaziale poi, il campo tradizionalmente inteso si collocava in contesti in cui il posizionamento e lo studio dell’antropologo seguivano un percorso dall’alto verso il basso: ci si concentrava cioè solo sui marginali, gli svantaggiati, gli oppressi, le minoranze, le società isolate a rischio di estinzione a causa dell’imminente fagocitazione da parte della globalizzazione capitalista (cfr. Nader 1974). Già dagli anni ’70 tuttavia si cominciò ad avvertire la necessità di studiare anche “chi sta in alto”, ai vertici delle società, e “chi sta di lato” (ibidem), ovvero individui le cui aspirazioni e pratiche quotidiane non sono poi così diverse da quelle del ricercatore (è questa forse la definizione più semplice e chiara dell’antropologia a casa) e che

possono essere considerati anch’essi “produttori di conoscenza” (Hannerz 2016: 5). Non come alternativa allo studio dei “dannati della terra”, ma a complemento e comparazione di quest’ultimo, per capire meglio come si creano i meccanismi di potere e privilegio che ne determinano l’esistenza. Non solo perciò studiare “in alto, in basso o di lato”, ma farlo “attraverso”: attraverso i flussi che si creano tra classi sociali, attraverso le “reti di relazioni fra attori, istituzioni e discorsi” (Hannerz 2012: 93).

Oggi dunque sempre più spesso, in un’epoca di “infinite connessioni e contesti sovrapposti” (Amit 2004b: 6), il field viene pensato come uno spazio relazionale che si costruisce attorno al ricercatore stesso (e che il ricercatore stesso costruisce o “mette in scena”, come suggerito da Coleman e Collins, 2006), mentre sorregge precariamente il bandolo di una matassa fatta di connessioni fragili, mobili e mutevoli (cfr. Amit 2004a; Casas-Cortés 2013). Come hanno sottolineato Gupta e Ferguson, “"The field" is a clearing whose deceptive transparency obscures the complex processes that go into constructing it” (1997b: 5), giocando sulle sfumature semantiche del “field” come spazio libero e circoscritto e come luogo di ricerca, e del termine “clearing”, che significa radura ma richiama anche il senso di chiarezza.

Il campo può (e deve) comunque rappresentare un’esperienza totale, in cui tutte le risorse dell’antropologo, siano queste intellettuali, fisiche, emotive, politiche o intuitive, vengono chiamate in causa (Okely 2005). L’esperienza dell’etnografo continua a essere prolungata e approfondita, guidata dalle sue conoscenze pregresse e dalla sua intenzionalità conoscitiva (Matera 2015) e contraddistinta da quella “lentezza” e da quella costanza nel tempo che ancora oggi fanno da matrice alla disciplina. Ma questo può avvenire “qui” come altrove, in più luoghi interconnessi, con un alternarsi significativo di assenze e presenze, attraverso comunicazioni vis-à-vis o elettroniche, per mezzo di continui e improvvisi dislocamenti sia del ricercatore che dei suoi interlocutori, con salti repentini tra i vari ruoli che l’antropologo ricopre nel rapporto con l’altro e nella propria vita quotidiana. In altre parole, il campo non è più

ontologicamente dato: è uno spazio che si attiva solo nel momento in cui è praticato dalle azioni e dai continui andirivieni di chi lo abita, antropologo compreso (De Certeau in: Clifford 1997).

Nel mio caso specifico l’ambito della ricerca - il movimento transnazionale degli ecovillaggi - è stato analizzato etnograficamente costruendo un campo di relazioni i cui nodi sono stati selezionati tra i molti possibili in base alle intuizioni, alle occasioni e agli imprevisti gradualmente occorsi (cfr. Hannerz 2003 e 2012), nonché alle risorse economiche, concettuali, accademiche e relazionali che avevo a disposizione. Le metodologie, i luoghi e le relazioni prescelte per un’analisi antropologica infatti dipendono sia dalle opportunità e dalle competenze del ricercatore, sia dai suoi interessi specifici e da quello che considera essere lo scopo della sua ricerca o dell’antropologia in generale: uno “studio sull’intimità” (Hannerz 2012: 117) prevederà quindi incontri faccia a faccia, storie di vita, ecc., mentre uno studio sui movimenti sociali avrà necessariamente un approccio più multi-situato. Così ad esempio gli studi di antropologia e il mio interesse per le questioni di giustizia sociale e ambientale mi hanno fatto entrare in contatto con il pensiero di Latouche e le teorie economiche della decrescita; il conseguente attivismo nel Movimento della Decrescita Felice mi ha portato a conoscere gli ecovillaggi e a partecipare al mio primo raduno RIVE in uno di questi; questa esperienza ha spinto me e alcuni dei ragazzi della decrescita a creare un progetto di comunità diffusa; diventando membro della RIVE sono entrata a far parte del gruppo che gestisce la loro comunicazione; come rappresentate del gruppo ho potuto partecipare al mio primo raduno europeo del GEN e diventare in seguito referente e traduttrice del GEN per la rete italiana; durante la permanenza in uno degli ecovillaggi RIVE ho potuto osservare e interagire con i partecipanti a un corso di progettazione in permacultura; e così via in un crescendo di esperienze e connessioni che hanno contribuito gradualmente a costruire il mio personale campo di ricerca. Ogni tassello di questo mosaico di relazioni è passato attraverso rapporti personali e ha arricchito la mia

raccolta dati di prospettive sempre nuove, anche quando si trattava di luoghi, persone o esperienze che mi erano già noti.