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CARNI DI CITTÀ

Per una popolazione sempre più urbanizzata, che tuttavia desidera man-giare quello che produce e a chilometri zero, vi é anche la voglia, se non il so-gno di produrre in città il proprio cibo, se non tutto, almeno in parte.

In questo modo si può spiegare la recente comparsa di orti cittadini, che ricordano quelli imposti dalla ri-strettezze alimentari del tempo di

guer-ra, o la diffusione di alveari urbani, dai quali ricavare un poco di miele.

Tra gli alimenti prodotti in città, indubbiamente un posto particolare hanno le carni, non solo nella nostra tradizione e nelle altre società occiden-tali, ma anche in alcune grandi culture orientali. La più importante carne ur-bana tradizionale cinese é senza dubbio quella del cane.

Oggi, in occidente e in Italia, non si parla (ancora) di allevare in città animali che producono cibo, come in-vece avvenne, sempre durante l'ultima guerra con i pollai urbani, spesso al-loggiati nei sottotetti, alimentati con gli scarti della cucina familiare e che pro-ducevano poche, ma apprezzate uova.

Prima dell'ultima guerra, e in un lontano passato, in città vi erano molti animali, diversi dei quali erano man-giati secondo ben precise regole, e che oggi sono proibiti non solo dalle leggi, ma soprattutto da un diverso sentire so-ciale.

A volte, solo parlarne, suscita reazioni emotive, in chi non conosce il contesto al quale ci si riferiva in un passato ai più ignoto.

Molte sono le carni degli animali urbani che oggi sono proibite, e che un tempo potevano o non potevano essere mangiate, secondo diverse condizioni e che per questo sono state anche definite come carni ambigue.

Senza entrare in troppi dettagli, le più rilevanti carni urbane erano pro-dotte da animali presenti in tutti gli spazi cittadini, dell'aria, della terra e anche sottoterra.

In cielo urbano un tempo, molto più di oggi, era popolato di molti uccel-li che nidificavano sotto i tetti o in co-lombaie di fortuna o costituite apposi-tamente.

Gran parte di questi uccelli non si nutriva in città, e ogni giorno si spo-stava nella vicina campagna o nei ter-reni incolti, dove trovava cibo se non abbondante almeno sufficiente, oppure si alimentava d’insetti volanti, che non mancavano in città e campagna.

Facevano parte della fauna dell'aria i colombi selvatici o torraioli,

e poi quelli addomesticati e mantenuti in colombaie. Una consuetudine tanto antica che nella Roma imperiale Otta-viano Augusto impose una tassa sulle deiezioni, o guano, che dalle colombaie cittadine, soprattutto di notte, era e-sportato per concimare i campi. La giu-stificazione di questa tassa (ammesso che ci debba essere una giustificazione delle tasse!) era che i colombi urbani si alimentavano di quanto prodotto nelle terre incolte periferiche alla città, di pertinenza imperiale. Una tassa che successivamente fu copiata dall'impe-ratore Vespasiano che impose un tribu-to sulle urine raccolte nelle terme e che uscivano dalla città. Da qui la origine di chiamare vespasiani gli orinatoi pubblici.

Nessuno, oggi si sognerebbe di mangiare colombi selvatici urbani o torraioli e ci si limita a mangiare, sem-pre più raramente, quelli di allevamen-to agricolo.

Completamente scomparsa é l’abitudine di mangiare altri uccelli ur-bani e che un tempo erano abbondanti sotto i tetti, come i rondinini di nido, dei quali erano ghiotti i Farnese e tutti i signori del fastoso Rinascimento.

I poveri invece si dovevano ac-contentare dei passeri, catturati con di-versi artifici come semplici e artigianali trappole e reti, soprattutto dai ragazzi.

Una misera preda, che più che nutrire serviva a insaporire un poco di polenta o un pancotto, dando l'impressione di un piatto di succulenta selvaggina, co-me si favoleggiava mangiassero i si-gnori.

Padrone dei tetti delle città era il gatto, tra il domestico e il selvatico, che trovava nutrimento negli scarsi avanzi della cucina umana, ma soprattutto

ne-gli uccellini e nei topi delle case e dei granai che riusciva a catturare.

Un’attività, questa ultima, pre-ziosa e protetta, per cui il gatto, almeno in parte, poteva salvarsi dalla dilagante fame urbana.

Una protezione tuttavia parziale, perché spesso trasgredita e per questo stigmatizzata.

Da qui la accusa non benevola di magnagatti data ad alcune popolazioni cittadine, od in queste ad alcune cate-gorie di persone, e tra queste i ciabatti-ni.

Tra le molte categorie di artigia-ni, quella dei ciabattini di città non era certamente una di quelle socialmente più elevate e spesso si limitavano a rabberciare le rustiche calzature dei popolani.

Diversa era la situazione dei cia-battini che giravano per le case di cam-pagna, dove si accontentavano di man-giare quel che passava il convento...

I ciabattini erano spesso tacciati di mangiare i gatti, forse anche per una vendetta di coloro che, volenti o nolen-ti, erano costretti a ricorrere alla loro attività.

Se i gatti mangiavano i topi, non potevano competere con i grossi ratti che vivevano nelle fogne del sottosuo-lo, e che non di rado uscivano allo sco-perto a cercare cibo e a impaurire la gente, perché e non a torto erano rite-nuti portatori di malattie.

Se era possibile contrastare i ratti con il cane, più frequentemente ai ratti si dava la caccia con apposite trappole e non raramente, ma in casi di grande fame, erano mangiati.

Sul mangiare i ratti, pratica oggi ritenuta orribile e impossibile, si ricor-da che in Africa sono definiti le quaglie

dei poveri e che nel passato si é co-struita una completamente falsa etimo-logia del ragù, riportandolo al rat au gout (du beef) o ratto al gusto di bue.

Questo sarebbe avvenuto durante l'as-sedio di Parigi del 1870, quando furono mangiati anche tutti gli animali dello zoo cittadino. Un’etimologia comple-tamente falsa, anche se a Parigi durante tale assedio é plausibile si siamo man-giati anche i ratti, ma perché ragù deri-va da ragouter, o insaporire, e la de-nominazione é ben precedente a tale data.

Sul mangiare i ratti vi sono di-verse testimonianze passate e non solo in città, ma anche in altre situazioni particolari, tra queste quelle delle navi che un tempo compivano lunghi viaggi, come i clipper che partendo dalla costa orientale della America settentrionale, doppiando Capo Horn arrivavano alla costa occidentale.

Durante questo tragitto che du-rava almeno tre mesi, la ciurma si ali-mentava anche dei ratti che riusciva a catturare. Interessante é il rilievo che questi animali sono capaci di produrre la vitamina C di cui le loro carni sono ricche e per questo chi mangiava ratti non era colpito dallo scorbuto.

Altri animali di frequentazione cittadina erano i maiali e sotto alcuni aspetti anche i cavalli.

In molte città e per lungo tempo i maiali sono stati gli "spazzini". I cit-tadini buttavano nelle strade tutti i loro rifiuti e i maiali se ne cibavano.

Tuttavia questi animali, pur utili, non erano certamente molto graditi.

Per questo molti comuni medie-vali emisero delle ordinanze che ne vietavano la presenza almeno nel

cen-tro della città, ma con scarso o nessun risultato.

A modo loro, i maiali risolveva-no almerisolveva-no tre problemi.

Il primo era di eliminare gran parte dei rifiuti organici.

Il secondo era di produrre carne a poco o nessun costo.

Da ultimo la loro presenza non era gradita da popolazioni straniere di ebrei e musulmani, che quindi erano tenuti lontani dai cristiani.

Non é male dimenticare che ali-mentare i maiali con i rifiuti urbani é arrivato fin quasi ai giorni nostri e che negli anni sessanta del secolo scorso, quindi circa cinquanta anni fa, si alle-vavano maiali sulle discariche romane nei pressi dell'aeroporto, appena co-struito, di Fiumicino, e che a questa pratica fu attribuita la diffusione in Ita-lia della Peste Suina Africana, ipotesi peraltro non realistica.

Anche se non destinati alla ma-cellazione e alimentazione, nelle città del passato vi erano numerosi cavalli.

Il cavallo era un tabù alimentare per le classi abbienti, ma in caso di in-cidenti, malattie, disgrazia o di vec-chiaia, i cavalli che erano macellati tevano essere mangiati dalle classi po-vere.

Per queste carni si usavano lun-ghe cotture, che mettevano al riparo da

infezioni e malattie trasmissibili all'uomo, e permettevano di intenerire carni dure e magre di animali ammalati o vecchi.

Una condizione ben diversa dalla attuale, quando si mangiano animali sani e anche giovani puledri.

Nel passato vi era quindi un chiaro caso di ambiguità, perché non si poteva mangiare il cavallo sano, che era protetto dalla fame delle popolazio-ni povere, ma lo si poteva mangiare quando questo era ammalato o inutiliz-zabile per la vecchiaia.

Nuove carni urbane?

Tutto porta a ritenere che il mo-derno modo di sentire il nostro rappor-to con gli animali, l'attuale loro staturappor-to e le presenti esigenze di qualità am-bientale porterà a mangiare animali ur-bani e alimenti da loro prodotti in città.

Anche per la facilità e la rapidità dei trasporti e lo sviluppo delle tecnologie del fresco.

Il ricordo di un antico e relati-vamente recente nostro passato permet-te però di meglio conoscere quanto complesso e differenziato sia il rappor-to tra l'uomo e gli animali, e al tempo stesso comprendere l'importanza delle differenze di comportamenti alimentari delle diverse etnie e culture umane.