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PESCE DI PENITENZA

Un'aragosta o una croccante frit-tura di triglie non sono certamente una penitenza, almeno per chi non é aller-gico o intollerante al pesce.

Per questo molti si chiedono in che cosa consiste la regola di non man-giar carne che per molti secoli la chiesa cattolica prescrive in molti giorni

Una prescrizione anche avvalorata dal-la paura dell'inferno per chi avesse tra-sgredito.

Molto diversa dall'oggi era un tempo la valutazione degli alimenti e in questo s'adeguavano anche le religioni che dettavano regole che oggi conside-riamo "laiche".

In un periodo nel quale la carne era considerata "calda", stimolo agli amori, simbolo di potere, il pesce era invece "freddo" lontano da Venere, a-datto a una vita di preghiera.

Nel passato vi erano anche sta-gioni nelle quali le carni erano abbon-danti e altre durante le quali era neces-sario contenerne il consumo, impeden-do l'uccisione di animali agricoli desti-nati alla riproduzione.

Al termine dell'autunno, quando le riserve alimentari per superare l'in-verno sono completate, é saggio ucci-dere gli animali in eccedenza e mante-nere solo quelli utili per la ripresa pri-maverile.

Da qui le feste religiose di pas-saggio tra autunno e inverno del Natale e inizio d'anno che terminano con quel-le laiche di abbandono delquel-le carni, car-nevale o carne vale o carne ti saluto.

In attesa della nuova stagione segnata dall'equinozio di primavera e dalla festa religiosa della Pasqua, biso-gna impedire che la fame popolare uc-cida e si appropri degli animali che do-vranno assicurare la ripresa della vita primaverile.

Nei quaranta giorni della Quare-sima più quelli della Settimana Santa niente carne calda, oltre a tutto invitan-te i peccati di Venere, ma pesci freddi e soprattutto al di fuori di una salvaguar-dia primaverile.

Nel medioevo carnivoro il mon-do é rappresentato dalle carni che cuo-ciono su gli spiedi che ruotano davanti ai grandi fuochi d’immensi camini.

Il distacco dal mondo si manife-sta con un'alimentazione vegetariana che non evita il pesce.

Le comunità cristiane adottarono questo simbolo probabilmente per

rie-vocare il brano evangelico in cui Gesù si rivolge a Simone dicendogli «µή φοβού ἀπὸ τοῦ νῦν ἀνθρώπους ἔσῃ ζωγρῶν»: Non temere; d'ora in poi sa-rai pescatore di uomini (Luca 5, 10).

Come riporta Agostino d'Ippona ne La città di Dio, il termine greco Ἰχϑύς è a sua volta l'acronimo delle pa-role 'Ιησοῦς Χριστός Θεoῦ Υιός Σωτήρ (Iesùs CHristòs THeù HYiòs Sotèr) Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore

Cristo stesso moltiplica pesci e pane per sfamare le folle accorse ad a-scoltare la parola divina.

Quando vuole dimostrare la sua risurrezione, Cristo mangia pesce.

Uno dei più noti segni del potere divino di Cristo é la pesca miracolosa.

Infine vi é la trasposizione di Pietro da pescatore di pesci a pescatore d'anime.

Tornando al simbolo di un pesce stilizzato, formato da due curve che partono da uno stesso punto, a sinistra (la "testa"), e che s’incrociano quindi sulla destra (la "coda"), non bisogna dimenticare che la simbologia cristiana del tempo della persecuzione dei cri-stiani nell'impero romano (I - IV seco-lo) è molto ricca.

A causa della diffidenza di cui erano oggetto da parte delle autorità Imperiali, i seguaci di Gesù inventano nuovi sistemi di riconoscimento della loro appartenenza alla comunità senza destare sospetti tra i pagani.

Risalgono a questo periodo, tra gli altri, i noti simboli del chi-rho, dell'ancora e del pesce, adoperato come segno di riconoscimento: quando un cristiano incontra uno sconosciuto di cui ha bisogno di conoscere la lealtà, traccia nella sabbia uno degli archi che compongono l'ichthýs. Se l'altro

com-pleta il segno, i due individui si ricono-scono come seguaci di Cristo e posso-no fidarsi l'uposso-no dell'altro.

Il pesce del passato é a buon mercato e spesso di libera cattura, di-versamente dalle carni.

Basta pensare anche a quello sa-lato o seccato, primo tra tutti il baccalà e lo stoccafisso, che durante il lungo periodo invernale aiutarono la soprav-vivenza di molte popolazioni.

QUANDO UN POVERO MANGIA UN POLLO...

Quando un povero mangia un pollo, o é ammalato il povero o malato il pollo, recita un antico e saggio pro-verbio contadino, quando la povertà é molto diffusa, quanto le malattie dell'uomo e degli animali.

Il pollaio é un bene prezioso e la resdora che lo amministra é molto at-tenta, seguendo anche il proverbio se-condo il quale meglio un uovo oggi che una gallina domani.

Di solito si mangiano solo i gal-letti maschi eccedenti, qualche cappone e le galline vecchie, a fine carriera di ovaiole. Se i galletti finiscono in padel-la, capponi e galline sono destinati alla pentola da brodo, e il tutto solo nelle grandi occasioni festive.

Qualche capo pregiato é riserva-to al padrone della terra o serve per in-graziarsi qualche persona importante, come i capponi che Renzo Tramaglino dei Promessi Sposi porta all'avvocato Azzeccagarbugli.

Per i familiari, l'unica occasione importante fuori dalla festa, é una ma-lattia, quando per l'ammalato si prepara anche il pane bianco.

L’hanno messo a pane bianco, é una perifrasi o eufemismo che nel me-ridione d'Italia é sussurrata per indicare una persona sul letto di morte, o quasi.

Il malato ha mangiato il brodino

indica un miglioramento dell'ammala-to, e ricorda le virtù corroborative, die-tetiche e forse magiche del brodo nella medicina tradizionale.

Solo miti o vi é anche qualche realtà per le virtù medicamentose del brodo?

La moderna ricerca sembra con-fermare le antiche credenze sul brodo, nel quale i peptoni che derivano dalla scissione delle proteine hanno un pote-re di pote-regolazione delle attività digesti-ve, mentre taluni acidi grassi, come l'a-cido linoleico coniugato (ALC) stimola l'immunità che contrasta le infezioni.

Meno note ai più, o solo come paura, sono le malattie dei polli, e tra queste l’influenza aviaria, recentemen-te salita agli onori della cronaca giorna-listica.

Le malattie dei polli sono un do-lore per la resdora, ma al tempo stesso una malcelata gioia di chi in famiglia gode di una insperata imbandigione di carni di polli e galline.

Un'esperienza che ho avuto l'av-ventura di provare almeno due volte tra il millenovecentotrentacinque e il mil-lenovecentoquarantacinque.

In un regime di sanzioni econo-miche e di guerra il governo allora al potere incrementa la pollicoltura na-zionale e accanto agli orti di guerra si

liari, anche in città. Un periodo nel quale le conoscenze sulle malattie dei polli sono ancora rudimentali e non vi sono efficaci sistemi di prevenzione e cura.

In voga, ma di scarsa efficacia, la pratica di mettere nell'acqua di be-vanda qualche goccia di tintura di io-dio, o di un disinfettante all'ipoclorito di sodio, l’allora celebre Amuchina.

Più efficace la pratica della re-sdora che ogni mattino osserva atten-tamente i suoi polli.

Quando vede un pollo o una gal-lina triste, con le ali abbassate (fa car-rozzino, sentenzia), con un poco di diarrea o se emette striduli suoni al po-sto di un vigoroso chicchirichì o di un suo normale verso, tira subito il collo all’animale, avendo premura di dissan-guarlo accuratamente.

All'inizio della malattia l'animale é ancora in carne e in buono stato. Una sua rapida eliminazione dal pollaio ri-duce i rischi di diffusione della malatti-a. Un buon dissanguamento e la tradi-zionale e spesso prolungata cottura e-liminano ogni anche lontano rischio per chi mangia l'animale.

Ovviamente diverso sarebbe a-limentarsi di un animale morto!

In quest’occasione polli e galline compaiono sulle tavole contadine, con

la sia pur nascosta gioia dei commensa-li.

Fino a pochi decenni fa si ritiene anche che troppo grandi sono le diffe-renze tra polli e uomini, perché vi pos-sa essere un paspos-saggio di infezioni. I-noltre le malattie hanno nomi diversi.

Se l'uomo ha l'influenza, il pollo ha peste aviare o la laringotracheite.

In tempi a noi più vicini ci si ac-corge che queste malattie sono causate da virus non solo simili, ma in un certo senso interscambiabili.

Nel frattempo siamo diventati ricchi, non conosciamo più gli alleva-menti di animali e di conseguenza scoppia la paura della influenza aviare!

Una paura alimentata anche dal ricordo o dalla rievocazione delle deci-ne di milioni di morti causati all’inizio degli anni venti del secolo scorso dall’influenza denominata spagnola,

Diventando ricchi, i poveri man-giano il pollo quando stanno bene, per-ché é la carne meno costosa.

Gli ammalati, da parte loro, oggi non mangiano più polli, ma più o meno sofisticate diete.

Quando un povero mangia un pollo, o é ammalato il povero o malato il pollo é un proverbio irrimediabil-mente perduto e che resta solo nel rim-pianto di un tempo passato.