Anton Maria Dalli, cuoco perso-nale di Ranuccio Farnese, alla fine del milleseicento e nella fastosa residenza di Parma, per il suo augusto signore cuoce per un'ora la pasta genovesa, che compra in bottega e non prepara lui stesso, come tutti gli altri cibi.
Genova e il suo montuoso terri-torio non producono grani e farine, e tanto meno una pasta che resista a un'o-ra di cottuun'o-ra, anche se un tempo la pa-sta "al dente" non era nota e tanto me-no gradita.
Pasta genovesa é quella com-merciata in quel porto, dove arriva da altri porti mediterranei, in particolare da Napoli e da Palermo, in territori nei quali si coltiva il prezioso grano duro, con la cui semola e sola acqua si prepa-ra una pasta che, essiccata al sole di quelle terre si conserva nel tempo, an-che nei lunghi viaggi di mare, secondo un costume alimentare arabo.
Sono gli Arabi che inventano la pasta e soprattutto gli spaghetti di fari-na di grano, in modo del tutto
indipen-so preparano lunghi fili. Ma indipen-sono tutt'altra cosa.
Alla fine del primo millennio della nostra era gli Arabi sono i grandi, temuti navigatori mediterranei e i co-mandanti delle loro veloci navi si nu-trono di pasta di semola essiccata, de-nominata tria, e poi cotta in acqua, probabilmente marina miscelata con acqua dolce. Il più antico condimento di questo cibo é il formaggio di capra o pecora, lungamente stagionato, forse con aggiunta di pepe.
La ciurma si alimenta con pappe di semi di leguminose, soprattutto ceci, e cereali, al più con pane cotto due vol-te, o biscotto, come le ancor note gal-lette. Questo termine relativamente re-cente, dal francese gallet, deriva da ga-let cioè ciottolo, per la forma schiaccia-ta e per la durezza. Infatti la galletschiaccia-ta è una vera pietra se non è spugnata, tra-sformata dall'acqua in una morbida spugna.
L'abitudine alimentare della pa-sta di semola essiccata degli arabi arri-va anche nei porti italiani, prima della Sicilia poi della Campania, dove si co-pia il metodo di produzione, e da qui prende avvio un nuovo commercio.
La pasta da cibo marino diviene cibo terrestre.
La prima attestazione della pasta essiccata in Italia e dell'esistenza dell'industria della pasta si rintraccia nella descrizione della Sicilia traman-dataci da Idrisi al tempo di Ruggero II.
Tuttavia si trattava in questo come in altri casi, di fettuccine essiccate. « ...la famosa fettuccina secca di derivazione araba, che si produceva in Sicilia...» ri-ferisce Anna Martellotti ne I ricettari di Federico II (pag.95")
Nell'opera del poeta e comme-diografo napoletano Antonio Viviani,
“Li maccheroni di Napoli” (1824) compare per la prima volta il termine spaghetti e sono illustrate le varie fasi della lavorazione. Le fonti letterarie an-teriori, invece, utilizzano in alternativa rispetto a spaghetti, la parola macche-roni, da maccare o impastare, e non dal termine greco che significa beato, una etimologia solo fantasiosa.
Per quel che riguarda il condi-mento, in origine gli spaghetti, come tutte le paste asciutte, e come facevano gli arabi, si ritiene permanga l'uso del formaggio e a, pii del pepe, per chi se lo può permettere.
É tra la fine del XVIII e gli inizi del XIX che compare l'uso di condire la pasta con il pomodoro. La prima te-stimonianza in tal senso si ritrova in un presepe napoletano databile agli inizi del settecento, conservato nella Reggia di Caserta, nel quale due contadini ar-rotolano attorno alla forchetta i primi spaghetti colorati di rosso.
Bisogna attendere i primi decen-ni del XIX secolo per la prima ricetta in cui la pasta é abbinata al pomodoro.
Nel 1839 Ippolito Cavalcanti pubblica la seconda edizione del tratta-to Cucina teorico pratica che, ripren-dendo quella che doveva essere una a-bitudine diffusa tra il popolo, riporta due distinte ricette in tal senso: i Ver-micelli con lo pommodore ed il Ragù napoletano.
É a Genova che Nicolò Paganini, celebre violinista, conosce la pasta condita con il pomodoro e la descrive in una lettera oggi conservata nella Bi-blioteca del Congressi di Washington.
Una buona e durevole pasta di semola deriva da un impasto molto
du-ro e da un'essiccazione al tempo stesso intensa, prolungata e dolce.
L'impasto si ottiene prima con le mani e poi con i piedi, anche se a volte, sembra avvolto in un telo.
Anche il mosto d'uva per il vino non é ottenuto con i piedi?
Sarà solo nel 1833 che Ferdi-nando II di Borbone incarica l'ingenie-re Cesal'ingenie-re Spadaccini di studial'ingenie-re un me-todo più igienico per produrre la pasta.
L'anno successivo l'ingeniere presenta la sua macchina per impastare, un uomo di bronzo, che é prodotta in una Napoli dove una nascente industria meccanica costruisce anche la prima via ferrata italiana.
Sempre a Napoli e negli stessi anni s'inventa e costruisce la gramola a coltelli che sostituisce la gramola a stanga.
L'essiccamento migliore avviene con il sole, di cui i paesi mediterranei sono ricchi, ma anche sotto un nugolo di mosche, che non fanno paura in quanto la pasta é a lungo bollita prima d'essere mangiata.
Ma come? Con le mani!
Sulle veloci feluche dei corsari saraceni arabi non possiamo immagi-narci raffinate posate, neppure per i lo-ro comandanti, certamente non di raffi-nati comportamenti.
Per questo le paste di semola hanno formati "lunghi", gli unici che rendono possibile l'uso delle dita.
Accanto agli spaghetti di forma simili agli spaghi e canapi delle navi, compaiono forme lunghe con una cavi-tà interna per meglio accogliere il con-dimento.
Mangiare con le mani é del po-polo, soprattutto dei giovani, e gli scu-gnizzi napoletani che mangiano i
mac-cheroni con le dita divengono oggetto di curiosità dei turisti inglesi e francesi nel loro tour culturale italiano nel quale non manca la tappa napoletana e dove, ancora alla fine del milleottocento, so-no fissati nei primi dagherrotipi dei fo-tografi ambulanti e documentaristi.
Mangiare con le mani non s'ad-dice alla corte regale borbonica napole-tana e si narra che nel 1850 il re Ferdi-nando II Borbone delle Due Sicilie è golosissimo di maccheroni, anche di quelli a trafila lunga e sottile detti ver-micelli che la plebe consuma per strada portandoli alla bocca con le mani.
Stanco di non poter farsi servire nei pranzi gli amati maccheroni, che con le posate ordinarie è difficile man-giare, comanda al suo ciambellano Gennaro Spadaccini di risolvere la fac-cenda.
Lo Spadaccini (parente dell'in-ventore dell'uomo di bronzo?) ha un’idea semplice, ma geniale e porta da tre a quattro e poi a cinque i rebbi della forchetta, per avvolgere con facilità i vermicelli.
Di conseguenza la pasta entra nei pranzi di corte, accontentando il go-loso sovrano.
Un problema che a fine milleot-tocento non pare interessare la nuova sovrana, la Regina Margherita di Sa-voia che, quando arriva a Napoli, desi-dera gustare la pizza, e le viene portata quella che in suo onore diviene la Pizza Margherita.
Quasi certamente la Regina, nel segreto del palazzo, mangia la pizza con le mani, come gran parte dei napo-letani.
Non é infatti noto il detto che la Regina Margherita mangia il pollo con le dita?
Oltre il pollo, perché non anche la pizza?
Quello che invece non sappiamo, tornando all'inizio, in che modo
Ra-nuccio Farnese mangia la sua pasta cot-ta per un'ora, in brodo e quasi cercot-ta- certa-mente spezzettata.
Probabilmente con il cucchiaio.