Basta pronunciare la parola pa-vone per evocare favolosi pranzi d’antichi romani o rinascimentali.
Il pavone è oggi scomparso dalla cucina e dalla gastronomia e riappare sulle tavole, se non quando si vuole ri-produrre una situazione ormai definiti-vamente superata, come avviene per l'abbigliamento del passato che oggi è risuscitato al più per carnevale.
Ma perché il pavone ha fallito?
Abemus in cenam pullum piscem pernam paonem è inciso su di un’epigrafe marmorea, già citata e cu-stodita nei Musei Capitolini di Roma, dove accanto al pollo e al pesce è pub-blicizzato il prosciutto e soprattutto il pavone.
Quest’animale era stato per lun-go tempo sconosciuto ai romani e no-nostante fosse sacro a Giunone, quando i Galli tentarono di entrare nel Campi-doglio, dove c'era il tempio della Dea, lo trovarono custodito da altri e più u-mili uccelli sacri, le oche, adatte all'ambiente acquitrinoso che attornia-va Roma, e capaci di fornire non solo una buona guardia, ma anche penne per le frecce e una carne grassa che all'e-poca era molto apprezzata. I pavoni, sacri a Giunone, non erano ancora arri-vati a Roma.
Il pavone (Pavo cristatus) o pa-vone indiano è originario dell'Asia e fa parte della leggenda e delle rappresen-tazioni artistiche umane almeno da 3000 anni.
Ampiamente diffuso in India, dai
Minore. Esistono anche precise indica-zioni sulla sua presenza presso gli anti-chi Assiri e Babilonesi.
Sembra che il primo ad introdur-re a Roma i pavoni, ma soprattutto ad allevarli in gran numero, sia stato Mar-co Ausidio LaMar-cone, che Mar-con tale attività avrebbe guadagnato sessantamila se-sterzi.
Vincenzo Tanara riporta che An-tifane dice di averne visto vendere una coppia a mille dramme e Varrone rife-risce che un uovo si vendeva a cinque denari.
Anassandro, secondo Ateneo, vendendo un paio di pavoni ricava una somma sufficiente per comprare una bellissima statua.
Alessandro Magno ordina ai suoi soldati di non uccidere i pavoni, mentre l'imperatore Romano Tiberio condanna a morte un soldato che ne aveva rubato uno.
I Romani usano cibarsene ed il primo a mettere in tavola il pavone a Roma sembra sia stato Ortensio, anche perché questi animali gli rovinavano l'orto, tanto che nel secolo XVUI Tana-ra poeta come segue.
L'aver d'Ortensio l'orto lacerato fummi di gloria dolce, e morte amara, che col gusto placai l'animo
ira-to a che non mi giovò beltà
precla-ra.
Vitellio predilige le cervella di pavone e le chiama celata di Minerva
volatili accrescesse e giovasse al cer-vello umano, in modo migliore di quel-lo degli animali quadrupedi, perché meno molle.
Eliogabalo predilige le lingue di pavone oltre che di fenicotteri. Caligola esige che gli siano sacrificati pavoni e Muleasso infine, re di Tunisi, mangia il pavone ripieno con tanti odori e aromi da costare cento scudi e da lasciare im-pregnato d’odore il vicinato per due giorni.
A parte una lunga serie di leg-gende nate e sviluppatesi attorno al pvone, soprattutto alla sua bellezza e a-bitudini, é interessante ricordare come nel passato si riteneva che la sua carne si putrefacesse più tardi d’ogni altro a-nimale, a causa della sua durezza.
Il pavone é cotto né più né meno come i polli, capponi ed altri volatili. Si preferiscono i pavoncini di tre mesi d’età e vi é l'uso di presentare il ma-schio in tavola, soprattutto nei grandi pranzi, cotto in diversi modi, adornato con la coda allargata, la testa ed il collo con le piume ben in mostra. Dopo aver-lo disossato si preparano arrosti da pre-sentare in tavola adornati, come già detto, con le penne della coda, nonché la testa ed il collo piumati.
La carne dura e compatta del pa-vone adulto (arriva all'età di venti anni) serviva anche per preparare insaccati.
Il pavone non ha mai avuto un grande successo nella alimentazione umana, per una serie di caratteristiche negative ben note anche nel passato e che Vincenzo Tanara (1658) sintetizza definendolo “distruggitore di tetti, rui-natore d’orti, avido usurpatore delle altrui fatiche” anche se non gli nega la caratteristica di fare buona guardia e di segnalare l'arrivo di qualche forestiero
o estraneo e di essere il più bello d’ogni volatile.
È un cattivo riproduttore, perché le femmine depongono le uova al mas-simo tre volte l’anno, in un numero di cinque, quattro e tre uova.
Le tre deposizioni sono possibili soltanto se le uova sono tolte e date da covare a galline, altrimenti si ha una sola figliata, con non più di quattro o cinque pavoncini per anno.
Dopo la cova, che dura un mese, i pavoncini erano lasciati alla gallina per tre mesi.
A questa età molti pavoncini e-rano destinati alla tavola; gli altri inve-ce, in gruppi di circa venti, erano dati alla madre per essere condotti al pasco-lo.
Nella cucina il pavone é più ce-lebrato per la sua apparenza che come reale alimento.
Nel suo De Re Coquinaria Mar-co Gavio, più noto sotto il soprannome d’Apicio (25 a.C. - ?) lo cita unitamen-te a tutti gli altri volatili e soltanto in un titolo, a proposito delle salse con le quali condire le carni di volatili.
Ovviamente il pavone non può mancare nella celebre cena di Trimal-cione, di cui ci riferisce Petronio (I se-colo d.C.) e durante la quale ai convita-ti sono offerte uova di pavone rivesconvita-tite di pasta frolla; dentro al guscio di que-ste uova, immerso nel tuorlo pepato, vi é un grasso beccafico.
Sparziano ci informa che il piatto preferito da Adriano, e siamo già a qualche secolo dopo Cristo, é il Penta-farmaco (fagiano, prosciutto con pasta, cinghiale e pavone) la cui invenzione si dice sia d’Elio Colonio Commodo, fi-glio adottivo d’Adriano, e derivato da un altro piatto citato peraltro sempre da
Sparziano, il Tetrafarmaco (fagiano, maiale, prosciutto e pasticceria).
Nella cucina italiana dal XIV al XIX secolo scarsa é la presenza del pa-vone, che compare al più nei grandi pranzi.
Se ne ha una conferma nelle non frequenti ricette, ma soprattutto per es-sere queste spesso comuni o soltanto varianti di ricette riguardanti altri vola-tili.
Nel Libro della Cocina d’Anonimo Toscano Del Trecento è descritto un “ripieno per pavone” da presentare, quest'ultimo, adornato con le sue penne.
Il Maestro Martino Da Como (1450 ?) destina il pavone alla cottura come arrosto, ma dedica particolare at-tenzione a come prepararlo “vestito” in modo che sia portato in tavola quasi da parer vivo, con fiamme che escono dal becco o, o con quest'ultimo dorato.
Messisbugo (1549) nel suo libro Banchetti, composizioni di vivande et apparecchio generale cita il pavone accanto ad altri uccelli ed una “Salsa di pavo”, una sorta di sapore.
Nel menù delle nozze di Marcan-tonio Colonna con Orsina Peretti, il trinciante Reale Furosito (Alberti, 1969) prepara “pavoni arrostiti e sal-sapimentati con granati e limoni sopra, dorati il becco e li piedi, e abbia la co-da posticcia e il suo collo”.
Romoli (1560), più noto come il Panunto, nel suo libro La singolar Dot-trina cita il petto di pavone per fare delle salsicce.
Scappi (1570) nella sua Opera (Pranzo del 28 ottobre, Libro Quarto) cita pavoni nostrali arrostiti allo spiedo.
Cervio (1581) ne Il Trinciante apre un Primo servizio di credenza con “pavoni bianchi rivestiti ed adornati di perle, coralli e fettucce d'oro et argento, con pendenti all'orecchio e profumi nel pi-co”.
Dopo la scoperta dell'America, l’importanza di quest’uccello diminui-sce rapidamente.
Il tacchino non solo lo sostituisce sulle mense, perché ha un sapore mi-gliore e più facile da allevare, ma so-prattutto perché ha il modo di espan-dersi in una misura nella quale il pavo-ne non era riuscito.
Oggi il pavone sopravvive come animale da ornamento, adatto soprattut-to per grandi parchi.
Qualche volta, come si è già ac-cennato, arriva sulla tavola.
Se si usano dei giovani pavonci-ni possono vepavonci-nire preparati come una normale cacciagione da penna.
Se invece si usa un pavone adul-to è necessaria una lunga frollatura ed una preparazione come un animale sel-vatico.
La carne ha un sapore dolciastro e lascia abbastanza delusi, se non si u-sano molte spezie od abbondanti erbe aromatiche.
Anche per questi motivi ancor oggi si usa portare il fagiano in tavola adornato con almeno una parte delle sue penne, tanto che può valere il detto
“molta apparenza, ma poca sostanza”.