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Carmelo Bene: l’attore dei tre subjectiles

II.V. Il centro vuoto della scena

Queste invisibilità – quella dell’eccentrico alle polarizzazioni speculari in cui gli opposti copulano155, mortificando la perversione, e quella dell’unheimlich ipnotico della scrittura di scena mutilata e smembrante, ripiegata nella sua prosopopea - sono da intendersi come metafore ottiche di un più generalizzato processo di elusione ed elisione dei referenti oggettivi di tutti gli ambiti della sensorialità; così come, quando diciamo che alla visibilità si sostituiscono effetti di risonanza, questi non si confinano solo entro il dominio acustico. “La réssonance”, dice Klossovski di Virgilio, è “la seule raison de l’action humaine”156

, la nube invisibile che prepara la visibilità, il trattamento preventivo della tela percettiva, che decide la grana e il potere di definizione della percezione. Così

154 Carmelo Bene, La voce di Narciso, in Opere, cit. pag. 1005.

155 Cfr. Camille Dumoulié, Chora, o il corpo della voce, in AA.VV. La ricerca impoosssibile, Marsilio, Venezia, 1990 in

Opere, cit. pag. 1508 “( [Per Artaud] l’attore, Chora, sono i terzi esclusi alle cui spalle gli esseri e le cose si danno a una copulazione universale”); in Carmelo Bene, Opere, cit. pag. 1508.

a teatro, innanzitutto, a non dover essere lineare, netto, “pacifico”, deciso una volta per tutte, è lo stesso confine che discriminerebbe il palcoscenico dalle quinte, liminarità non solo sfuggente al controllo ottico, ma non ad esso pertinente. Ma se latita il confine tra la scena e le quinte, come staranno le cose nel cuore del palcoscenico, zona più esposta, il luogo privilegiato dell’esposizione, la parte più interna dell’estroversione – anzi, il crocicchio di tutte le esibizioni, anche di quelle che avvengono di straforo?

Proprio lì dove tutti gli sguardi confluiscono, nel fuoco prospettico verso cui tutte le visuali scivolano irresistibilmente, non deve esserci un pieno a riceverli, una presenza colmata, saturata e strutturata psicologicamente, portatrice di pensieri di fatti e fatti di pensieri. Al contrario ogni premeditazione e protensione vi è frustrata puntualmente da una forza paradossale e un’ingombrante assenza costituite dalla “stanchezza, l’immobilità, una grande fatica, un certo cocciuto mutismo, l’inerzia”157

, come dice Foucault, citato da Bene, passando in rassegna le paradossali risorse che consentono al pensiero di mantenersi nei paraggi della bêtise, quella stupidità soltanto senza la quale si è deficienti, poiché l’arma della “catatonia muove il teatro del pensiero, una volta che il paradosso abbia rovesciato il quadro della rappresentazione”.158

Il paradosso è l’eccesso del pensiero, la sua stupidità, laddove l’intelligenza ne è la deficienza: se la deficienza di pensiero dell’attore-interprete si manifesta come turgore e sporgenza di senso, sempre colto in flagranza di riempimento, l’eccesso di pensiero della macchina attorale si marca nella deficienza di senso e nell’abbondanza di stupidità, e si manifesta pertanto come paradosso permanente.

All’incrocio di tutte le aspettative e le premeditazioni più implicite e pertanto automatiche, pigre in quanto ostinate, vige l’Insoddisfazione, opera l’”infinalmente”159, ciò che non sazia di fine la catena di attese, nè corona di scopi la fuga crono-prospettica delle protensioni. Nel milieu del palco regna l’impasse, infinalmente non s’ode che l’eco “delle innumeri voci inghiottite”160

, non echeggiano che

157 Carmelo Bene, Ebbene, si, Gilles Deleuze! in Sovrapposizioni, cit. pag. 119. 158

Ibid.

159 Carmelo Bene, La voce di Narciso, cit. in Opere pag. 1000-1001. 160 Ivi, pag. 1001.

i “resti della parola-suono”161, i quali, occhieggianti dalla fessura tra le labbra un attimo prima di colarne circospetti, alimentano una loquela “sbavata sull’orlo della bocca”162. E “affaticate” sono anche le frasi e “come estorte sotto atroce tortura”.163 Ma questo “corpo del malessere”164 non percorre certo le stazioni di quello che sarebbe il senso tumido di una via crucis, di un Golgota, una Passione; “l’impasse, l’imbarazzo, il malessere”165

sono ciò che soltanto sopravvive, i rimasugli disiecta del sublime della Croce, dopo che esso è stato decostruito dalla sospensione del tragico. Sintomo di questa decostruzione, un retrogusto umoristico.

Inoltre il corpo del malessere è il contrario che il malessere del corpo: il corpo non ha ma è un malessere, consiste di un male di vivere che ne è la materia prima, non una mera affezione ; e lo sostituisce divenendone la carne. Diventato integralmente imbarazzo di occupare spazio, l’unico corpo di cui è allora possibile appropriarsi è piuttosto quello della propria voce. Vedremo quanto prossima ad Artaud sia questa nozione della voce come corpo, dove corpo non deve essere letto sotto metafora, proprio come poc’anzi il malessere era sostrato e non affettazione.

Il corpo della voce, nel corpo fatto di malessere, si avvale di una bocca-grotta166, “spalancata o chiusa”167 che sia, i cui suoni, i soli ad esserne emessi, sono solo gli echi delle voci che essa insaziabilmente inghiotte.168 In essa una lingua-ninfa169, che sguazza nuda tra le schiume della saliva, “dice la sua amnesia dell’amore”.170

Se tale grotta orale sembra lambire “la gola sessuale di Artaud”171, cui Romeo Castellucci vorrebbe far dire la retorica di Quintiliano come un rosario, e se dovremo interrogarci su quali rapporti di complicità essa possa intrattenere con la videoproiezione endoscopica di una laringe sotto sforzo all’inizio del Giulio Cesare della Socìetas Raffaello Sanzio, d’altro canto e per ora soprattutto questa “amnesia del cuore” ci riporta al discorso, finora appena

161 Carmelo Bene, Sono apparso alla Madonna, 1983, in Opere, cit. pag. 1203. 162 Ibid.

163

Carmelo Bene, La voce di Narciso, pag. 1026.

164 Ivi, pag. 1000. 165 Ivi, pag. 999. 166 Cfr. Ivi, pag. 1000. 167 Ibid.

168 Cfr. Ivi, pag. 1001 e pag. 1199. 169 Ivi, pag. 1001.

170

Ibid.

171 Romeo Castellucci, La critica e il ronzio del Coro, in La crisi della critica teatrale, Bulzoni, Roma, 1999; ora anche

abbozzato, sul cuore del palcoscenico.

Nel cuore del palcoscenico beniano un’amnesia del cuore! Nel punto terminale verso cui convergono il fascio degli sguardi – sguardo del senso e senso di marcia dello sguardo – e il fascio multiplo di cui consta ogni singolo sguardo, e intorno al quale il palcoscenico trova cardini e stipiti in cui centrarsi e di cui incorniciarsi: proprio in quell’intimo, nevralgico cuore che, intorno a sé, pompa concentricamente il sangue di ogni esibizione, avviene l’incidente di un’amnesia del nucleo. E il centro si tramuta in margine, in estremità, in lembo che, dislocato inopinatamente nel mezzo del mezzo, ne piega lo spazio scenico, ne inflette la trasparenza, lo corruga, mentre i contorni concettuali del palco, che lo ritagliano di qua dalle quinte, alternano inclinazioni. Ora si piegano verso fuori, l’al di là che prolunga il palco oltre di sé, ora inclinano verso l’al di qua, ripiegano i margini verso il centro, e così suscitano una brusca contrazione del palco, riducendolo claustrofobicamente, in quanto spazio vitale per il trofismo mentale formattato dello spettatore. Osceni gli estremi, osceno il mezzo.

In particolare l’oscenità del “centro” consiste del suo coincidere col lembo, ora pendulo ora serrato, ora flaccido e ora dentale, della bocca stessa dell’attore. Il confine della scena la fende passando per il suo centro inquieto, lo penetra come buccia che s’insinua nella polpa del frutto che dovrebbe proteggere. La solca spiovendovi, ma sempre comunque coincidendo con quei lembi semoventi di carne che orlano il buio della bocca, per la quale la scena si è già incrunata in se stessa, scivolando entro i visceri di una sua parte organica, da cui può essere ingoiata in ogni momento.

Fare l’endoscopia di questa discesa ai visceri, col surplus di oscenità che essa secerne, potenzia l’ob-sceno beniano, o piuttosto gli si ritorce contro, vanificandolo o neutralizzandolo? Per rispondere a domande di questo tenore occorre articolare ulteriormente i rapporti dell’in-scena, del fuori-scena e dell’ob-scena tra loro, incrociandoli ai rapporti tra visibilità e voce da un lato, gestualità e catatonia dall’altro