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Socìetas Raffaello Sanzio: la metamorfosi della scena

IV.IV. L’autodesignazione dell’attore come homo sacer

Giorgio Agamben – cui dobbiamo pagine epocali, sull’attuale estensione dello stato di eccezione a norma306 e delle cui risorse concettuali e profetiche tentiamo qui di avvalerci – ha parlato della nostra come di un’epoca nella quale tutti siamo diventati potenziali homines sacri, cioè esposti a una vitae necisque potestas307, dovuta a un surrettizio quanto inesorabile generalizzarsi dello stato di eccezione. Ancora più inquietante è l’asserzione che i diritti civili, che dovrebbero essere le armi con le quali ostacolare questo processo, non sono in grado di adempiere a questa promessa perché provengono dalla stessa radice da cui si diparte il potere sovrano, e devono quindi essere altrimenti

305

Cfr. Romeo Castellucci, Amleto: là dove la A.., cit. pag. 42.

306 Lo stato di eccezione cessa, così, di essere riferito a una situazione estrema e provvisoria di pericolo fittizio e tende

a confondersi con la norma stessa”; cfr. Giorgio Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino, 1995; pagg. 187-188; vedi anche in particolare i paragrafi: Il bando e il lupo, pagg. 116-124; e Il campo come nòmos del moderno, pagg. 185-202.

fondati. Ma più inquietanti ancora, e più direttamente pertinenti agli interessi di questo studio, sono le ulteriori conseguenze che possono essere tratte dal mettere in relazione queste riflessioni con la nostra nozione di panpanottico, per la quale guardare ed essere guardati costituisce un unico plesso di potere, simultaneamente subito ed esercitato, le cui fasi non si lasciano più articolare in una alternanza temporale-dialettica. Ne discende che non soltanto siamo diventati tutti potenziali homines sacri, in balia di uno stato di eccezione giuridica dilagante, ma la particolare configurazione che questo stesso stato assume attualmente, in un contesto panpanottico, ci rende tutti potenzialmente - e con lo stesso grado di arbitrarietà e responsabilità – soggetti portatori di un potere sovrano: cioè a dire una società in cui resterebbe indeterminato e infinitamente in sospeso se K.308 sia un suddito homosacerizzato o un sovrano assoluto, come dire un Matteotti, o un Mussolini prigioniero dei partigiani.

L’ homo sacer è uccidibile senza che con ciò si commetta omicidio, come, nel panpanottico, è osservabile senza essere violato. Nel primo caso si è esposti al crimine di sangue, nell’altro alla curiosità, morbosa in quanto indifferente, di uno Sguardo che non è mai responsabile. In entrambi i casi si tratta di abbandono, e, ben più apocalitticamente, di abbandono alla legge309.

L’abbandono alla legge è l’apriori dell’Amleto autistico della Socìetas e, nella gittata di questo apriori, è già contenuto il materiale che si espliciterà nel successivo spettacolo su Masoch310. Ma, lo ribadiamo ancora una volta, esso non è qui la cifra di una rassegnazione; tutt’al contrario è la sofisticata compulsazione di una breccia che per restare aperta non deve attirarsi alcuna attenzione. Essa richiede al contempo il fanatismo e l’andare a tentoni.

Quest’adito, compulsabile solo alla cieca, consiste di una sorta di atto di autoconcentramento. A instradare ad esso è il paradosso, che l’esperienza ci svela continuamente come affatto reale, di un non-luogo nel quale pur essendovi un solo individuo, egli vi sia concentrato come in un campo.

308 Il riferimento è qui al protagonista dei romanzi di Kafka, Il processo e Il castello. 309

Abbandonarsi alla legge significa viverla, invece che come garanzia della propria integrità, come una sovrastruttura alienatasi dall’individuo che si consegna ad essa come a un potere sovrano esercitato in uno stato di eccezione. Per questo Agamben marca il bando nell’ab-bando-no, avendo la sovranità di eccezione il potere di mettere al bando, in qualsiasi momento, l’individuo, nelle forme della morte, dell’internamento o dell’esilio, e quindi avendolo sempre potenzialmente già bandito. D’altro canto l’abbandonarsi dell’individuo alla legge implica anche l’abbandono di ogni illusione sulla legge stessa.

Chiamiamo non-luoghi le estensioni in cui sempre più si spazializza l’utopia tardocapitalistica, per la paradossalità, che in essi si invera perfettamente, di poter essere concentrazionari perfino quando deserti. È anzi proprio quando sono spopolati (dépeuplés per riecheggiare un celebre titolo beckettiano) che essi svelano con la massima evidenza la loro fisionomia concentrazionaria.

La scena in cui l’Amleto autistico si autoesilia, trattiene gli umori sinistramente utopici di una tale spazialità paradossale; il che gli consente, prima di tutto, di non alludere ad altro che a se stessa. É una gola dalla quale nessun suono cade di fuori; nessun evento acustico fuoriesce distaccandosene, al di là di essa, in un fuori di cui essa è e non è altro che la negazione. Amleto abita dentro la propria gola, circondato dalle sue secrezioni. E questa internità, quest’autointernamento, questa piega utopica dello spazio, è la breccia cercata, l’adito che non chiama e che può esserci solo se non è invocato prima di esserne risucchiati. Questa breccia ha cominciato piuttosto a raggiungere chi ha smesso di guardare fuori, chi ha cominciato a ignorare. Da questo spazio scenico senza aggettivi, realizzato dal genio della Socìetas, e certo dall’attore Paolo Tonti non meno che dai fondatori della compagnia, è gestato qualcosa che chiamiamo ormai nuda vita, a partire da una laconica, fulminea suggestione benjaminiana che, come ogni altro lascito proveniente dall’officina di questo filosofo, costituisce una provocazione gravida di futuro, breccia nel già pensato che indica, con ciò stesso, il da pensarsi.

Giorgio Agamben ha avuto il coraggio di ereditare e manipolare una nozione così sdrucciolevole ed insidiosa nel modo più corretto, non solo perché non ne decide univocamente il senso, ma perché non ne ricerca il referente, implicante certo alcunché di estremo, in qualcosa di logicamente precedente e originario, bensì in qualcosa di ulteriore e storicamente derivato: ciò che è nudo infatti sortisce da ciò che è vestito, e non viceversa311.

A un livello di analisi più generale, possiamo partire dal postulato che, perché si aprano le condizioni di un nuovo denudarsi della vita, occorre che esse siano la conseguenza di qualcosa come un sovraccarico del suo essere vestita, tale da metterne a repentaglio la stessa sopravvivenza:

uno scenario come l’habitat paradossale di quest’Amleto sarebbe allora quello più vivibile. La prerogativa di questa messinscena, infatti, consiste nel fatto che essa è perfino meno la denuncia di una situazione-limite che la presentazione di una soluzione esistenzialmente avanguardistica e resistenziale, e comunque le due cose in un colpo solo. L’efficacia e l’importanza di questa messinscena riposano intanto sulla pressione implicita che esercitano sullo spettatore, perché si interroghi urgentemente sulla portata del denudamento cui assiste. Urgenza che rimanda allo stesso sballottamento bio-grafico entro cui si è prodotto il filosofare benjaminiano, che di un tale denudamento, mentre lo pensava acutamente, inscriveva per sempre, nella carne della propria lettera, le stimmate. Si dà in tutto ciò una forma estrema di resistenza che consiste nel fare un proprio utero del destino.

Se gli stati di emergenza, come denuncia Agamben312, si quotidianizzano, e se il Campo e il palcoscenico si ubiquano, allora è sul palcoscenico che potranno essere vissuti gli ultimi residui di solitudine, nel Campo l’ultimo velo di intimità. Si forma così la più mostruosa zona di indeterminazione, quella tra concentramento e spettacolo, in cui lo spettacolo eufemizza il lager mentre il lager ferializza e secolarizza lo spettacolo, il cui risultato è che l’individuo autistico trova proprio nel palcoscenico stricto sensu l’angolo più defilato, il miglior habitat attualmente disponibile. Sul palcoscenico si può non guardare di fuori, e ciò proprio grazie al fatto che si è il bersaglio di una barriera di sguardi all’unisono, fatta della stessa stoffa dei sogni e della legge. In Auschwitz, secondo atto di Genesi, il Campo si eufemizza mostruosamente (e dunque ossimorizza) in un Kindergarten: l’acme d’orrore, “irrappresentabile”313, è trasmissibile solo se avvolto in “pelle d’agnello”314

.

Se nella società panottica essere soggetto di sguardo contrappesa il continuo esserne oggetto, sul campo-palco l’esistenza si denuda, velo dopo velo corrosi dallo sguardo massivo della platea, senza filtrarlo col proprio e restituirlo nella direzione inversa. Questo autodenudamento anticipa la

312 Cfr. Giorgio Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, pagg. 185-202, Il campo come nòmos del

moderno.

313 Romeo Castellucci, Genesi,from the…, programma di sala, in Epopea della polvere, cit. pag. 264. 314 Ibid.

condizione di nuda vita indotta dall’estensione indiscriminata e biopolitica dello stato di eccezione. Amleto gioca d’anticipo, in un regime di avant-coups, autoconcentrandosi ed autodenudandosi prima che sia l’oggettività biopolitica a farlo. Per applicare la propria politicizzazione su un individuo riportato al grado zero di organismo, di substrato organico medio, deve essere stato spogliato di ogni diritto, di ogni abito giuridico che sia stato tessuto al di fuori dello stato di eccezione. La legge come minaccia fa presa sulla vita spogliata della legge come tutela. L’attore si autoespone preventivamente, si pone in balia della vitae necisque potestas, e, in conseguenza dell’essere denudato giuridicamente dal venir meno della tutela della legge, sperimenta una condizione di abbandono, che costituisce comunque una posizione esistenziale diversa da quella di un qualche stato di natura. È la situazione in cui viene a trovarsi il masochista quando stipula il contratto nel quale ratifica preventivamente, e quindi autorizza al buio, lo stato di eccezione nel quale si trova in balia della dominatrice. Questa la continuità tra l’autismo e il masochismo, e tra i primi due spettacoli che si inviluppano attorno a questi due capisaldi psichiatrici.

In Masoch, i trionfi del teatro come potenza passiva, colpa e sconfitta, questa condizione di abbandono alla legge, ormai consistente nella sua abolizione, è resa palpabile dall’Ombra che, proveniente sull’Uomo da qualcuno che misura coi suoi passi il piano superiore , vi proietta “l’idea stessa di controllo, attraversandogli la via sotto i piedi”315

. Il contratto firmato dal masochista è un copione che anticipa la scena316 d’eccezione, aderendovi più di quanto essa stessa richieda, e così conferendogli uno spiazzante e straniante statuto di normalità, che ne disarma l’autorità rilanciandola, mettendola a sua volta a nudo e in disaccordo con se stessa, al vedersi superata alle proprie spalle, ridimensionata nel versante inatteso d’essere incrementata, ed aprendo in questo scarto l’intervallo in cui riluce ed abbaglia l’assurdo e la sua vertigine. Questo evidenziare la violenza della società assecondandola quanto più è possibile, “scopre il più distruttivo e invisibile esodo” da essa317

. Rispetto al capillarizzarsi del reticolato di controllo pansensoriale, la rinuncia a guardare, controllare, denunciare, comporta ipso facto l’accesso ad uno statuto di invisibilità, che è

315

Socìetas Raffaello Sanzio, Masoch, i trionfi del teatro come potenza …, in Epopea della polvere, cit. pag. 64.

316Cfr. Romeo Castellucci, Il contratto come copione, in Masoch, teorie, in Epopea della polvere, cit. pag. 74. 317 Ivi, pag.71

tutt’uno con quel muto-cieco aderire, che tende a cancellare perfino il proprio spessore.

IV.V. Defigurazione, mimetizzazione e laringectomizzazione