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La sensibilità alle strutture temporali del rapporto tra linguaggio preverbale e linguaggio protoverbale era stata maggiore negli anni Venti, quando la critica nei confronti dello statuto rappresentativo del teatro sottoponeva il linguaggio visivo alla stessa diffidenza riservata a quello verbale, e riteneva che l’imitazione, questo “caso particolare di rappresentazione che si attua attraverso la dimensione iconica dei segni”73, fosse da aborrire altrettanto che “les mots”. Nello scritto del 1924, L’évolution du décor, tale sensibilità era paradossale, coincidendo con una sorta di spoliazione della scena, nella quale nulla doveva esservi che non fosse strettamente necessario all’esplicarsi della sola azione dell’attore. La componente visiva era avvertita come un indice fortemente sviante, un elemento dispersivo e distraente, insidioso nel trascinare verso l’esteriorità la fruizione, inducendola surrettiziamente a sostare su forme definitive, e a soffermarsi sull’immagine isolata, quindi psicologicamente idolatrata.

Molto più che visiva, si auspicava che l’immersione dello spettatore sulla scena fosse acustica, giacché le sensazioni che appartengono all’ambito uditivo sono le più idonee a propiziare un viaggio nel tempo, riattualizzando l’espace di gestazione e incubazione dell’oralità e della scrittura verbali. In esso – secondo la visione singolare della Seconda lettera sul linguaggio – il gesto fa la

72 Ibid.

spola fra strati di sillabe. Perché il teatro inneschi l’attualizzazione di questa situazione protoverbale occorre far compiere, come si legge in Position de la chair del 1925, “à chacune des vibrations de ma langue tous les chemins de ma pensée dans ma chair”74. Ma, si badi bene, con tutto ciò, non è qui minimamente questione di ricostruire archeologicamente un’epoca arcaica, contraendo il torcicollo dello storico e dei libri di storia in cui si usa volentieri la parola “scenario”, dove la storia si teatralizza e il teatro si storicizza, nel chiasmo più sintomatico di un’intera civiltà della rappresentazione. Lo stadio della necessità della parola, prima della parola già formata, deve coincidere con l’ora dell’attore e della scena. L’attore deve ogni volta pervenire alla parola perdendola e ritrovandola in sé a partire dalle sue premesse respiratorie, fonatorie, muscolari, perfino manuali; ed anche vegetali e animali. Per esempio quando “l’homme était un arbre sans organes ni fonction”75

. La parola è ammissibile, da questo punto di vista, solo se ogni volta la si emette dal punto originante la sua necessità: quel punto in cui l’uomo investe i propri sforzi per aprirsi questo nuovo varco – fra gli altri muscolari, psichici ed affettivi –, al fine di rispondere ad altre urgenze di conoscenza del proprio ambiente fisico e del proprio spazio di possibilità, fuori della portata dei varchi psichici già dischiusi. E neppure questo è sufficiente: la parola non deve essere, subito dopo la sua emissione, accouchée nello spazio acustico: non deve astrarsi dal corpo, involandosene. Deve invece sostare nei suoi paraggi, trattenerne l’eco – la notizia e quasi l’umore – degli altri strati del corpo che ha attraversato affiorandone, rientrare presto in essi dopo essersene sporta, addirittura ricadervi reimmergendovisi. È questo l’antidoto, il contravveleno, il pharmakon artaudiano all’alienazione linguistica. L’attimo in cui la parola fa capolino dal corpo verso la gola – in realtà non è che voce che si stacca da se stessa – è un picco di assottigliamento, un punto in cui il corpo, estendendosi oltre di sé, raggiunge la massima sottigliezza: momento intellettuale. Ma bisogna evitare che la voce plasmata in parola, e il suo corpo sottile, si allontani troppo dal corpo più grossolano, e venga rapita dal Fuoco che, lassù, avendo preso troppa forma di Padre, se ne appropria scorporizzando e facendone mot. Il mot è questa parola alienata, smaterializzata,

74 Antonin Artaud, Position de la chair, cit. in Œuvres, cit. pag. 148

smemorata della sua origine e della sua substance. E, nel mot, la parola – come ha spiegato magistralmente Derrida76 ne La parole soufflée – è doppiamente rubata: carpita dall’alto a un corpo che non l’ha legata a un filo di fiato e bava a sé dopo l’emissione; ma rubata in modo esponenziale, sottratta alla seconda potenza, nel modo più diabolicamente, anzi divinamente paradossale, con la sua restituzione.

L’algebra del furto prevede anche l’addizione: in questo caso ad essere aggiunta furtivamente è la parola che, dopo essere stata decurtata di ogni materialità e di ogni eco corporea, in poche parole ridotta a mot, viene calata dall’alto nel corpo che, frattanto, se n’era smemorato, introdotta furtivamente nella mente e travestita da un’altra. Come venisse suggerita (altro possibile referente del lessema souffleur), furtivamente e proditoriamente, nel momento in cui il parlante è sul punto di pronunciarne un’altra, o di tacersi. Ecco perché la parola non è stata annichilita dopo il primo furto: affinché si forgiasse con essa lo strumento di una seconda espropriazione, consistente in un dono maligno e inopportuno.

Per eludere questo abuso alienante non v’è che un modo: vegliare affinché la parola non fuoriesca dal corpo che per tornarvi, prima di evaporare, facendosi suggere dal finto fuoco, ed alienare in un mot rivestito di parole.

Per svolgere efficacemente questa veglia bisogna essere attori, e chi vuole emettere solo parole- boomerang, suoni articolati in un linguaggio che, una volta emessi da carne e sangue, ricadano dentro il corpo rifacendosi carne e sangue, deve fare di quel suo stesso corpo un teatro.

È in questo modo, in ultima analisi, che la nozione convenzionale di teatro viene ribaltata, facendone un’oasi nell’ubiquità della finzione. Non stato d’eccezione rispetto alla realtà, ma rispetto alla finzione. Ed è in questa teoria dell’alienazione linguistica come doppio furto che dev’essere spiato il momento germinale di quell’assunzione del teatro nel proprio corpo che sarà esplicitata all’epoca di Suppôts et Suppliciations: dove Artaud scrive che dal corpo umano “ne sont plus des sons ou du sens qui sortent, /plus de paroles /mais des CORPS”77

. Il corpo può, coerentemente con

76 Cfr. Jacques Derrida, La parole soufflé, 1966, in L’écriture et la différence, 1967; pagg. 253-292. 77 Antonin Artaud, Cougne et foutre, 1946, in Suppôts et Suppliciations, 1947, in Œuvres, cit. pag. 1352.

un lungo percorso di preparazione di quest’esito estremistico, costituire la scena prescindendo dal palcoscenico, esso stesso luogo deputato all’alienazione. In realtà, e più puntualmente, per quest’ultima fase estrema dell’opera di Artaud, sarà meglio parlare, come vedremo, di corpi, sempre al plurale, ad intendere la parola nella sua massima estensione, comprendente la sua espressivita pre e postverbale.

Tornando al punto di necessità della parola, cui nel Teatro e il suo doppio si fa spesso cenno ma in modo discontinuo, se non rapsodico: il momento intellettuale in cui il suono articolato è emesso, deve essere pensato consistere nel formarsi di una sorta di bolla intorno al corpo emittente, che ne estende i confini, ed impedisce alle parole vibranti nell’aria di disperdersi. Questa bolla si può rompere e dissolvere per due diversi motivi: uno, naturalmente, con la ricaduta, in una sorta di effetto-boomerang della parola emessa, nell’abisso stratificato del corpo; l’altro, artatamente, causa il furto della parola emessa da parte delle forze paternali dello pseudofuoco. Ma è molto importante comprendere che ogni momento intellettuale non è che l’estensione di bordi corporei a difesa delle proprie secrezioni linguistiche. Vedremo risiedere in questa concezione il nucleo germinale dell’elaborazione, da parte della Socìetas Raffaello Sanzio, di un’attoralità autistica, improntata ai dettami di una retorica endocrina, per la quale anche lo sguardo e il linguaggio sono trattati come secrezioni, ed è necessario per la salvezza dei corpi di cui consta l’individuo, che esse ricadano sempre entro l’ambito dal quale sono state emesse.

Quanto alle parole sottratte prima di rincasare nell’abisso del corpo, prima di riconventirsi in carne, esse anestetizzano la carne in cui vengono, in un secondo momento, insinuate surrettiziamente dopo la loro stessa anestetizzazione, che le ha preventivamente condotte dallo stato plastico di Parole a quello cadaverico di Mot. Questa anestesia sottrae dolore al corpo: lo scippa con ciò del suo carburante fondamentale, che alimenta la sua estensione intellettuale e la sua rigenerazione fisica, le quali procedono di pari passo. È la rottura della bolla intellettuale ad opera delle paroles soufflées e delle paroles revenants – come possiamo bene chiamarle – a causare la separazione dell’elemento intellettuale da quello fisico, sortendo l’avvento catastrofico delle gnoseologie dualistiche, dalle

quali filia anche il concetto stesso di rappresentazione. Il dualismo è il risultato della manomissione del corpo intellettuale, cioè della Carne vera e propria.