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Carmelo Bene: l’attore dei tre subjectiles

II.III. Femminilità di Gloucester

Vagendo un nuovo modo di produzione – il margine acustico della scena è disegnato da strilli neonatali –, una forza utopica aspirerebbe tutte le attrici fuori scena, e la sfollerebbe così di tutta la compagine fantasmatica, residuo del vecchio modo di produzione, onde lasciare sola sulla scena l’attoralità individua, finalmente incoronata re, Riccardo “ormai terzo”145

. Ora, questa utopia è proprio ciò cui la scrittura di scena Riccardo III resiste: se attuata spazzerebbe ipso facto la scena di ogni strascico fantasmatico della fabula elisabettiana, qui costituito dalla molteplice diffrazione del femminile, della cui astanza146 entro la scena l’istrione non può fare a meno senza languirne. No, l’istrione e la scrittura di scena devono regnare senza essere re, eccedendone la funzione in là e in qua: è così che Riccardo sperimenta quello stato di incertezza del femminile che corrisponde al regime di indeterminazione proprio alla scrittura di scena, allo statuto stesso dell’istrione. Il corpo femminile è colto nell’istante preciso entro il quale non è possibile discernere se si stia spogliando o invece rivestendo; oggettivazione, quest’ultima, davanti all’istrione, del suo stesso indeterminarsi rispetto alle proprie protesi e trucchi ortopedici: se le mette o se le leva?

Il femminile ora sciaborda verso Riccardo e ora se ne ritira con un controtempo di risacca cui si accorda la pulsazione della stessa messinscena, a cominciare dallo stesso rispondervi delle cadenze vocali e gestuali di Riccardo-attore, che scongiurano il cristallizzarsi identitario di Riccardo- personaggio.

Le sei donne (una della quali addirittura volge al femminile, e al ruolo di cameriera, il luogotenente Buckingham), assolvendo nei confronti di Gloucester le funzioni di assistenza e di astanza,

145Carmelo Bene, Riccardo III, in Sovrapposizioni, cit. pag. 57. 146 Ivi, pag. 50.

svolgono lo stesso servizio nei confronti della scrittura di scena in quanto tale. Affinchè questa non si dispieghi troppo immediatamente, occorre che il testo letterario si ponga ora nei suoi confronti in posizione di spettatore, attraverso la sua fantasmatica avanguardia femminile cui esso si è ridotto dopo la mutilazione dei personaggi-poteri, e che veste-sveste, con la stessa pulsazione della propria presenza in palcoscenico, l’attore solista. Glocester stesso è vestito-svestito dalle sei attrici e dalle loro attenzioni, mentre il vestirsi-svestirsi delle attrici in scena e il loro continuo fare la spola tra questa e le quinte, tutto ciò non è che l’eco di quella pulsazione primaria che sortisce dal rapporto perverso che la stessa scrittura di scena intrattiene col suo antagonista letterario.

Il fatto che la scrittura di scena riduca la testualità shakespeariana allo statuto di cameriera – e in questo senso tra le sei situazioni147 femminili quella di Buckingham è a tutti gli effetti la più nuda, minimo comune denominatore delle altre –, fa sì che essa si renda autonoma da questa collaborazione e non risenta dell’alienazione in questa connivenza residuale: la scrittura scenica reca dietro di sé l’ombra, lo spettro dell’antenato letterario che essa dovrebbe sostituire. Questa dialettica dell’ombra e del fantasma, queste umbratilità e fantasmaticità del passato elisabettiano, sono riflesse dagli stessi rapporti tra Riccardo e le donne in seno alla scrittura di scena beniana. Se Bene accetta il termine rivisitazione per definire le riscritture shakespeariane è certo per la sua congruenza con la spettralità, ma per rendere ragione dei movimenti tellurici che esse innescano nella stratigrafia delle scritture, occorre parlare di una scrittura di scena che non già rivisita, bensì è visitata dal testo drammaturgico di riferimento. Questa visita resa da parte del Riccardo III shakespeariano a quello beniano è riflessa all’interno di quest’ultimo nella compagine femminile, l’elemento fantasmatico, l’angelico messaggero da cui la scrittura attorale non vuole essere abbandonata: rimarrebbe altrimenti nuda, sterile, priva di visite, cadendo in una situazione di autosufficienza mitica, di autarchia simbolica. Proprio il non tranciare del tutto il cordone ombelicale con l’antenato drammaturgico consente di instradare il teatro alla massima emancipazione dall’ipoteca letteraria, in modo da non sostituire a un mito drammaturgico di puro

controllo un mito scenico di puro imprevisto.

Il testo shakespeariano si femminilizza dunque per poter visitare la scrittura di scena. Ma questa sottesa nozione di femminile, nonostante tutte le apparenze, è ben lungi dal lasciarsi ridurre a una funzione materno-assistenziale, verso cui già sembrerebbe farla virare recisamente la premessa Nota generale sul femminile148, che invece verte sull’ob-sceno: gli strilli di bebè che attirano le attrici fuori dalla scena ne recingono acusticamente il confine, altrimenti invisibile in quanto ob-sceno. Così il femminilizzarsi del monumento elisabettiano non si lascia rappresentare-esaurire dalle sei donne: queste sono il sintomo superficiale di un Femminile che attraversa la testualità sommovendone dalle fondamenta l’architettura. Le donne sono piuttosto quel che ne resta, i residui superstiti al ritrarsi altrove del Femminile. Il quale, tutt’altro dalla donna circostanziata burocrate del piacere, la eccede, e così dilaga nell’invisibilità dell’osceno, che Bene definisce, come una sorta di apriori del suo teatro, “l’eccesso del desiderio.”149

La donna quanto più simulacro del femminile, tanto più ne difetta. Nella nottataccia di un uomo da guerra150 le donne attingono femminilità dall’essere l’esito residuale, spettrale del processo di femminilizzazione del testo letterario, così che esso “visiti” la scrittura di scena; ma nondimeno si approvvigionano di femminilità da Gloucester stesso, il cui tratto femminile gli deriva dall’essere figura radicalmente “altra” – in quanto nomade per il legame, quasi l’affaturamento, con la guerra – rispetto ai poteri statali, rappresi in un simbolismo fallico e unilateralmente maschile. Colui che appicca la guerra, che nella guerra è contestualizzato, dalla guerra è anche continuamente rifemminilizzato, perché il regime temporale richiesto dalla fedeltà ad essa comporta l’impossibilità di un ripiegamento consolidante – quello dell’amministrazione in quanto tale sedentaria e pacifista. Da Alessandro Magno al “Che” il comandante è sempre eccentrico ai poteri statali, lungo le cui superfici pure scivola, senza far presa, in un vertiginoso glissando. Si defila negli interstizi della cronaca e nelle pieghe della storia, si mimetizza all’ombra, si femminilizza in un recidivo rianonimarsi. Gloucester semieclissa, nella penombra dell’oscura pulsazione della sua ambizione,

148

Carmelo Bene, Riccardo III, in Sovrapposizioni cit. pag. 12.

149 Ivi, pag. 14. 150 Ivi, pag. 13.

monca essa stessa, i contorni del substrato attorale sul quale si avvicenda lo sciame di protesi che disorganano e disorganicizzano il suo corpo: ed è la stessa scrittura di scena in cui si disarticolano e fluidificano i feticci della drammaturgia trascendente (intreccio, dialoghi, psicologia, firma letteraria) e dove la nuova drammaturgia immanente e processuale chiama a sé la vecchia e trascendente a svolgere la funzione spettatrice.

Le suture maldestre della scrittura di scena sono lo stesso assemblaggio protesico della macchina attoriale incipiente, che attira a sé le donne, le quali, liberate dalla massa gravitazionale costituita dalla compagine dei personaggi attinenti alla legalità del potere statale “pacifista”, possono accorrere a vestire di sé l’isolamento del protagonista. Ma lo fanno al fine di caricarsi femminilmente, abbeverandosi alla fonte della sovranità intrinsecamente cava, costitutivamente priva di durata, e dunque alla femminilità paradossale, ma proprio perciò effettiva, di Gloucester. Quella femminilità che la testualità elisabettiana veicolava e attingeva dall’humus della prassi attorica, laddove essa prevedeva naturalmente il travestitismo per la risoluzione scenica delle parti femminili151.

Perversione ed eccesso che si perdono con la disambiguazione sessuale, che è tutt’uno con quella cristallizzazione, la quale fissa il testo come a-priori della scena, e così lo depriva di quella femminilità senza la quale esso manca di ob-scenità: letteralmente, come vedremo, di fuori-scena. Ritroveremo questo concetto di ob-scenità nella poetica di Rino Sudano, dove assume un’ancora maggiore centralità. In ogni caso, per entrambi questi autori, l’ob-sceno comporta un trattamento specifico caso per caso, ed ogni messinscena richiede che si calcolino daccapo i rapporti che intercorrono tra l’in-scena e il fuori-scena (topograficamente intesi come palcoscenico e quinte) da una parte, e tra questi e l’ob-sceno dall’altra. Quest’ultimo è una sorta di zona di confine tra i primi due, ma un confine che non si lascia ridurre a semplice soglia topografica tra scena e retroscena.