Si era detto che, con la svolta di Rodez, la parola era transitata dallo statuto di punto individuabile nello spazio a quello di ciclo percepibile solo nella temporalità. Ora sappiamo che il ciclo consiste in una doppia puntualità intermittente, e che è refrattario alle prese della linea, ancora troppo compromessa al controllo ottico. Se ogni atto umano ha un suo doppio, il doppio della parola è la glossolalia, il quarto strumento che ci resta da analizzare, fra quelli elencati da Artaud nella lettera a Roger Blin, quali capisaldi della sua poetica non soltanto teatrale.
Ogni parola ha il suo inconscio glossolalico, ma è a sua volta essa stessa l’inconscio di una glossolalia. Parola e glossolalia sono vicendevolmente doppi, situati in due punti opposti del ciclo intermittente delle azioni e controazioni simultanee, nella “matière astrale” dove “tout est écrit, veçu”127. Sia chiaro che ogni parola ha la sua ombra glossolalica, ma non certo nel senso che le sia assegnata una volta per tutte. Per parola, ancora una volta, qui non si intende il mot, ma la parole,
126 Carmelo Bene, Macbeth, 1982, cit. in Opere, cit. pag. 1203.
che esiste una sola volta, perché è tutt’uno con la sua emissione, vocale o scritta. Quell’emissione fonica o grafica che chiamiamo parole, attiva - al polo opposto del ciclo dell’azione, della materia eterica dove tutto è vissuto-scritto - una controparole con la quale può dialogare o meno. È l’emittente ad attivare il dialogo tra l’una e l’altra, se nell’emissione l’una presta l’orecchio all’altra: la coscienza non è che questo dialogo, e siccome parola e glossolalia sono inconsci l’una all’altra, la coscienza non è che un dialogo tra inconsci. Questo rapporto è visualizzato nel testo di Pour en finir avec le jugement de dieu, in posizione opposta a quella della citazione che abbiamo già estrapolato a proposito del ritornello, cioè in incipit:
“Kré Il faut que tout puc te kré soit rangé puk te pek à un poil près li le kre dans un ordre pek ti le e fulminant. kruk pte”128
Qui il testo di paroles, nel suo tipico movimento serpeggiante e saltellante a capo, di versicolo in versicolo senza soluzione di continuità sintattica, scorre come un rivolo tra due sponde di glossolalie. Se le due colonnine di glossolalie stanno per le tracce foniche inconsce, e la frase centrale esemplifica la coscienza propria al linguaggio verbale articolato, la coscienza non è tale che tra le due sponde inconsce. D’altro canto gli allineamenti glossolalici non si limitano a questa funzione di intercalare inconscio a conscio. Uscendo dalla simultaneità della presa ottica frontale e scorrendo lungo le linee orizzontali, siamo indotti a percorrere una scansione temporale, per la quale le glossolalie sono, in ciascuna riga, il prima e il dopo delle paroles.
Finora abbiamo privilegiato il carattere di doppio delle glossolalie. Il transito dall’asse spaziale
delle compresenze a quello temporale delle successioni, ci consente di apprezzare l’altro loro carattere: la glossolalia è infatti anche l’ultima grande struttura di mediazione del teatro di Artaud, ed è anche per questo che essa è preliminarmente esplicitata all’inizio del testo connesso a quello che si rivelerà – prima di tutto a lui stesso – il massimo esito scenico e attorale di Artaud, e cioè l’omonima trasmissione non andata in onda nel gennaio 1948. A destra e a sinistra del testo che stiamo esaminando, per l’esattezza a sinistra della prima colonna di glossolalie e a destra della seconda, aleggia la presenza del gesto; esse assolvono a una funzione mediatrice fra l’articolazione verbale e ciò che non può essere scritto, e quindi comparire nel testo: quell’altro tipo di articolazione che è la gestualità. “La glossopoièse”, ha scritto Derrida, “ (…) nous reconduit au bord du moment où le mot n’est pas encore né”129. È quello stadio della necessità della parola che Artaud opponeva, o almeno teneva a distinguere nettamente, dallo stadio della parola formata, già al tempo de Le théâtre et son double, in uno dei non molti momenti di quel libro in cui la questione del tempo è posta non in un’ ottica sincronica, cioè fuori dalla ricevibilità ottica del divenire, fuori dalla con-tingenza. Ma riportarci al di qua della parola non è un esito da attingere con un viaggio mentale, culturale o fisico in qualche sorta di macchina del tempo, nè è la restaurazione di una condizione originaria. È uno stato in cui siamo gettati ogni volta prima di parlare, ma di cui non ci accorgiamo più, perché ci siamo abituati a farlo, e così non ne avvertiamo la necessità, vale a dire lo stato di emergenza e urgenza in cui la parola è gestata, e dal quale infine affiora alla luce. Noi viviamo il linguaggio come la regola, l’attore – che in Artaud equivale all’uomo – lo deve vivere come costante eccezione. La crudeltà riporta l’abitudine allo stato d’eccezione. Fra gesto muto e parola gestuale (“Comment fonctionneront alors la parole et l’écriture? En redevenant gestes (…).”130) la glossolalia è al contempo un raccordo e un inciampo. L’origine di questa prassi è ,
quanto mai altra, teatrale: è stata concepita dall’attore, prima che dallo scrittore, pur ormai così sovrapponibili, per sottrarre automatismo all’emissione della parola. Nella glossolalia, provenendo dal gesto corporeo e svolgendosi all’endroit del gesto verbale, si sosta per il tempo di una battuta a
129
Jacques Derrida, Le théâtre de la cruauté et la clôture de la représentation, 1966, in L’écriture et la différence, cit. pag 352.
vuoto, anche se ad essere emessa sarà la parola e non la glossolalia. Nella glossolalia, sempre presente anche se muta, afona o tacita che dir si voglia, l’uomo-attore si autosgambetta (ed autospaventa) sentendo così in sé, in un unico sterminato frangente, l’abdicare del gesto e il suo prolungarsi–spegnersi nella parola, e il passaggio di consegne necessario tra i due linguaggi. Ma non basta: la glossolalia si interpone anche fra la parola appena emessa e il conseguente silenzio, affinché non sia affatto conseguente in modo “sillogistico”, e non le subentri come un protocollo automatico. Qui si reinnesta il discorso da noi in precedenza sviluppato a partire dalla lunga citazione tratta dalla Deuxième lettre sur le langage, per quanto concerneva in particolare la problematica relativa al dopo-emissione. Il dopo-emissione è altrettanto importante del pre- emissione. L’attore si vede soprattutto da come proviene dall’emissione vocale. È subito dopo il risuonare della parola, che appare maggiormente il corpo. È in questo momento, soprattutto, che può farsi “soffiare” la parola. É cioè il momento di massima vulnerabilità sulla scena. Artaud lo sapeva già fin da quella lettera. Ciò che si è detto lo si vede dal successivo destino della parola detta. Che il corpo se ne faccia espropriare, o invece sia capace di farla ridiscendere al suo interno, decide di ciò che è stato detto.
Le feci devono essere espulse dal corpo, ed anche le parole escrementizie, ma non le parole-corpo, perché esse sono il corpo stesso, ossia il corpo senza organi. Le parole-organi devono essere espulse, mentre le parole-corpo, le parole-ossa, devono essere difese dal Furto, e restare nel corpo senza organi. L’attore di Pour en finir avec le jugement de dieu, per avvalerci di una metafora ferroviaria, è uno scambista, un deviatore. Egli de-costruisce il linguaggio, trovandosi nel punto di incrocio della sua emissione. L’emissione vocale sulla scena è un crocicchio, un nodo di scambi. Le parole provengono all’attore alle sue spalle, fino ad ingorgarsi nel tubo della sua gola, e ad attraversare la cruna della sua bocca, che raggiungono già sovraccariche delle stratificazioni cumulatesi in un lungo tragitto. La bocca dell’attore le smista decostruendole una per una nell’istante ob-sceno, cioè invisibile della sua glossolalia: la viande delle parole viene espulsa percussivamente, come in una defecazione. L’os della parola viene trattenuto, come un indugio su
ogni elemento fonetico della parola, che ne salvaguarda la componente ossea nello stesso momento in cui se ne espelle la viande, la carne fecale. Questa viene sputata come un proiettile contro il mittente, cioè “dieu”; l’altra viene serbata con la massima cura, perché alimenti il corpo senza organi. Il primo è il cibo organico, il secondo quello inorganico.
Chi non sente, in Pour en finir avec le jugement de dieu, il ralenti durante la propulsione emissoria, la carezza della cura insieme al proiettile, il discernimento durante l’espulsione diarroica, non sente niente. Se ne riascolti la radiofonia, in controtempo rispetto alla fruizione più sommaria, facendo caso a questa filigrana in levare che sottotrama microscopicamente la macroscopia espulsiva e percussiva, e si scoprirà un’altra attoralità, dietro quella assegnata alla categoria del vitalismo. È un’attoralità segnata dalle mediazioni del distanziamento, della quarta parete e dell’ob-sceno. Sono le tre cose che non si percepiscono, perché le si sente togliersi dalla percezione, eccederla.
La quarta parete è quella insita nella radiofonicità della scena; il distanziamento è quello della glossolalia muta che salvaguarda senza sosta l’inorganicità ossea della parola; l’ob-sceno è il resto di silenzio della xylophonie, come sarà quello della voce nella phoné beniana e nel frat-tempo sudaniano.
Il teatro di Pour en finir avec le jugement de dieu non fa che parlare di tutto questo. Non fa che parlare del teatro, e dell’uomo come attore.
Preservazione, resistenza, cura, veglia sono i doppi che ob-scenano la dissipazione, l’abbandono, lo spregio, l’oblio. Non ne sono la sublimazione, ma la conditio sine qua non. Non c’è dissipazione senza salvaguardia, abbandono senza resistenza, disprezzo senza cura, oblio senza memoria. Ma non c’è sintesi dialettica tra queste due catene di esigenze, perché si fanno sporgere nel visibile quelle meno nobili nell’assiologia umanistica: la defecazione, il furore, lo sfogo, la blasfemia. Gli aspetti soppesati come nobili nel sistema di valori umanistico sono sottoposti ad un silenziatore. Ciò impedisce che questi ultimi superino dialetticamente i primi, perché i doppi sono sinonimizzati e quindi appaiati dal segno di uguale, che blocca inorganicamente l’organicità dialettica.
pagina della scena e non sulla scena della pagina, il “Cri intellectuel” dei primissimi scritti sul teatro, “grido occipitale” non dell’organismo umano ma del corpo senza organi. Non è l’urlo della viande che la prolungherebbe, ma la raffica di vento dell’ ob-sceno del corpo senza organi. E dà voce all’Impossibile, ultimo, estremo nome dell’ob-sceno, non alla viande famelica della volontà di potenza.
La chora est le lieu d’un chaos qui est et qui devient, préalable à la constitution des premiers corps mesurables131