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Carmelo Bene: l’attore dei tre subjectiles

II.VIII. Il terzo subjectile: la tecnofonia

Il crinale della svolta, nella parabola beniana, è segnato probabilmente dal Macbeth. È da qui che Bene, autografizzandosi, data la nascita di una “macchina attoriale” che, in realtà, è già di lungo corso. Comincia il suo lavorio pubblicitario a far sembrare nuova una parabola artistica che è già segnata da pieghe contratte da tempo, e alle quali lui stesso resterà fedele. Di fatto, il suo arrabattarsi pubblicistico è depistante, rispetto a ciò che realmente sta cominciando ad accadere nella sua scena. Ma ciò che a noi interessa di tutto questo polverone è salvare l’uomo di teatro da se stesso, ed ascoltare l’intenzionalità profonda di ciò che gli sta accadendo, dietro le paillettes che Bene sta secernendo. Tutto dev’essere rispettato di questa vulnerabilità talmente gridata, ma ciò che

per noi è pertinente sul piano della prassi artistica è l’eccesso del desiderio di costruire un teatro il cui unico peronaggio sia la voce.

Bene anticipa il teatro che desidera fare saturando lo spazio teorico con una proliferazione di formule talmente caustica che è bene prescinderne quasi del tutto per non lasciarsene frastornare, quando ciò che importa è mantenere la lucidità necessaria ad appropriarsi sensibilmente e cognitivamente di ciò che, frattanto, avviene nella sua scena di attore. Perché Bene, mentre dirompe come un personaggio nella scena mediatica italiana, continua ad andare in scena. Non è nella stessa posizione di Artaud, che pensa il teatro senza riuscire a farlo, e così lo fa senza farlo. Bene lo fa, ma mima la situazione artaudiana, quasi ne avesse nostalgia. Quasi fosse contrariato che nulla gli impedisca, né dentro né fuori di sé, di andare in scena. Vagheggia una situazione impossibile: una scena nella quale egli possa andare in scena quando lo voglia, come fa, e al contempo non possa andarci, come Artaud. Questa impasse pertiene alla sostanza stessa del suo teatro. È una versione teatrale, ma tutt’altro che illustrativa, anzi, rigenerativa, della nozione di “cattiva coscienza” e, di cui il corpo attorale di Bene veicolerà gli effetti subendoli, mentre quello di Sudano ne farà il centro attivo e propulsore della scena: per questo il suo teatro sarà immune da qualsiasi nostalgia artaudiana e, proprio perciò, il più prossimo allo spirito e non alla lettera della crudeltà artaudiana. Ciò che soprattutto non deve distrarci, nell’accostarci al Macbeth e all’ultima fase dell’opera beniana, è la formula della “macchina attoriale”. Essa infatti prende corpo nel momento, quello appunto che coincide con la messinscena del Macbeth, in cui il progetto di un teatro nel quale la voce sia protagonista assoluta. Questo intendimento implica ipso facto che la voce debba essere supportata da protesi tecnologiche. E non v’è dubbio che pertanto essa dovrà comportarsi diversamente rispetto a quando faceva a meno di questi supporti. Tutto ciò apre a prospettive poetiche non solo interessanti, ma necessarie. Ma è proprio parlare di “macchina attoriale” per descrivere questa apertura di virtualità, che è fuorviante. Si tratta di ben altro che del passaggio dell’attoralità a statuto di macchina, garantito soltanto dal fatto che le sue performances entrano in intimo contatto con le più nuove tecnologie.

O quella dell’attore era già una macchina, oppure egli non diventa tale solo perché la sua azione entra in relazione dialettica con le macchine. Si configura semmai un confronto tra macchine da cui deve sortire, perché sia di interesse artistico, qualcosa di diverso dagli elementi macchinici confrontati.

La formula “macchina attoriale” non fa giustizia della complessità dialettica degli eventi scenici del periodo che Bene intitola ad essa. Ma ciò che importa è che la protesi tecnologica sia mobilitata per realizzare un teatro del personaggio-voce.

Per ergere la voce a protagonista assoluto, ai due subjectiles del periodo precedente se ne aggiunge un terzo, costituito dalla tecnologia fonica. L’attore non mette in scena, propriamente, che questo intreccio di supporti. Muta intanto il rapporto con quelli che già conosciamo. Col Macbeth si esorcizza preventivamente, e non più momento per momento sulla scena, il Testo, che viene ridotto a una partitura186 per strumento solo. In scena giunge un Testo già addomesticato a partitura che l’attore-Macbeth può indossare. Non viene più sfidato nel pieno delle sue forze resistenziali alla scrittura di scena, nel turgore fallico di subjectile nemico, e amico per l’assolvimento del compito di secernere spaventi, che l’autospavento deve prevenire-esorcizzare. Il subjectile testuale è assottigliato allo spessore di carta velina, e poggiato come uno strato epidermico sul subjectile della voce-corpo. Da questa indossato come un guanto, è manovrato come mano e avambraccio fanno riempiendo il vuoto del burattino. Questa riduzione del Testo a partitura, e l’assottigliarsi di quest’ultima a guanto trasparente del corpo-voce, è l’effetto di un processo di liricizzazione. Il testo perde ora i suoi grumi di contingenza, prodotti dalla tessitura sempre macchinosa dell’intreccio e della trama, perché superstiti ne siano le sole potenze liriche. I due subjectiles, quello piano e quello volumetrico, quello bidimensionale delle paroles, nelle quali è stata preventivamente tradotta la langue testuale, e quello tridimensionale della chora vocale, non entrano più in contatto percussivo, per collisione dall’esterno, ma aderiscono con le rispettive superfici in un rapporto di amplesso. Un amplesso, s’intende, che consiste, come sempre, di un insieme di microcolluttazioni, tutte però ben

186 Armando Petrini a questo proposito ha parlato di “svolta concertistica”. Cfr. Amleto da Shakespeare a Laforgue per

al di sotto della soglia dello stupro. Fatto salvo che una microcolluttazione è tutt’altro che scevra di possibili effetti dirompenti, in relazione alla vulnerabilità accresciuta dalla situazione di massima intimità fisica: dalla promiscuità tout-court. Bene vuole in questo caso esplorare le potenzialità di sottile, ma non meno dirompente, violenza, che sortiscono da un rapporto di massima contiguità, al limite della promiscuità e oltre, fra i due subjectiles. La liricizzazione del subjectile testuale è necessaria a creare le condizioni di questa intimità.

Ma Bene si procura con questa operazione anche un’altra chance: quel velo che ora è il testo, dal quale la gestualità vocale si lascia avvolgere e rivestire, le conferisce una maggiore acutezza sensoriale; meglio: accresce la sensualità della sensorialità. Lo sapeva Goethe: l’impatto visivo di un paesaggio è accresciuto, non già diminuito, dall’essere percepito attraverso il diaframma di un vetro. Bene usa il testo lirico come un diaframma vetroso187, perché esso, con le sue impercettibili diffrazioni, altrettanto impercettibilmente sfuochi, e proprio con ciò acuisca, i lineamenti del corpo vocale. È questo a conferire alla vocalità beniana gli effetti di una tavolozza cromatica che nasce tecnicamente nel campo sonoro, ma affetta di strascichi sensibili anche il vero e proprio campo ottico. E comunque l’effetto-vetro del testo liricizzato deve “rivestire dell’alone il suono”188

. E quel “recitarsi addosso”189

, che egli rivendica come cifra più propria, è anche un recitare con la pellicola lirica appiccicata alla pelle e, nella drammaturgia della voce, alternatamente alla pelle strappata come uno scorticamento.

187 “Una palestra fondamentale, questa, “pre-amplificata” come in un campo lungo; ancora meno, a volte: quasi un

delirio (dis)articolato dietro un cristallo”; Cfr. Carmelo Bene, Autografia di un ritratto, 1995, in Opere, cit. pag. XXXIV.

188 Ibid. 189 Ibid.