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Socìetas Raffaello Sanzio: la metamorfosi della scena

IV.X. Retorica della figura e retorica ob-scena

Il Giulio Cesare viene prescelto per l’occasione, che questo copione shakespeariano offre, di un indagine proprio su quella retorica della comunicazione che è antagonistica alla retorica endocrina su cui erano improntate le prime tre pièces dell’Epopea della polvere. La retorica vi si annuncia con un’immagine militare: il sipario ancora chiuso è investito, con la cadenza della risacca, dalle cornate di un ariete, la macchina bellica romana non tecnologica che perché mossa da sola energia muscolare. È essa ad aprire il sipario fendendolo: in realtà ad essere aperta violentemente è la

comunicazione, con una deflorazione analoga al compimento di un assedio. Un suono a bassa frequenza evoca subliminalmente “un tremore fisico delle viscere e della pelle”369. Questa lacerazione epidermica prelude alla visione, di lì a poco, di un altro sipario, endoscopico: quello delle corde vocali di un attore, riprese e proiettate in presa diretta sul fondo della scena. È un sipario mucoso: la sorgente delle asciutte costruzioni di mattoni linguistici finalizzate alla persuasione (la scena è popolata di laterizi e blocchetti di cemento, dove retorica e architettura si indeterminano in un continuum) è una membrana cartilaginea, vischiosa di muco e oscenamente rossa come un organo sessuale. Che sia mucoso anche il fine da raggiungere: la persuasione?

Di nuovo, all’acme drammatico del primo atto – l’ orazione di Antonio – viene estrovertito il retroterra fisiologico della fonazione: stavolta facendo perorare la fatidica arringa a Dalmazio Masini, un uomo laringectomizzato, quindi privo proprio della sorgente viscerale della fonazione, mostrata endoscopicamente all’inizio della messinscena. Ma l’attore non è muto: è in grado di surrogare l’organo mutilato, facendo assolvere la stessa funzione all’esofago. Il risultato è “una voce di commozione, di meraviglia”370. Nel primo caso l’operazione si attua avvalendosi del

supporto di un apparato ottico, in luogo di uno fonico, ma “il viaggio a ritroso della voce fino alla soglia delle corde vocali”371

, è liminale a quello della phoné beniana come estroversione del silenzio della voce. “Eco infinalmente delle innumeri voci inghiottite”372

, definisce Bene tale silenzio; “la polvere della voce”373

è ciò che vuole raggiungere Castellucci, e i morti che vi si annidano, di cui anzi quella polvere è costituita. E come la gola della “macchina attoriale” fagocita l’intera scena, all’inizio di questo Giulio Cesare “il boccascena diventa una bocca”374

, letteralizzandosi. Si annuncia, con questa avida evidenza di uno streap-tease della lettera, quel processo che ora sottoporrà le stesse figure retoriche al medesimo trattamento col quale il linguaggio drammaturgico del coro dell’Agamennone si era arrovesciato nella sua densità viscerale,

369

Socìetas Raffaello Sanzio, Giulio Cesare, atto I, prologo; in Epopea della polvere, cit. pag. 163.

370

Ibid., scena settima, Il discorso di Antonio; in Epopea della polvere, cit. pag. 182.

371 Romeo Castellucci, Cacofonia per una messa in scena: Giulio Cesare; programma di sala; in Epopea della polvere,

cit. pag. 208.

372

Carmelo Bene, Il monologo, in La voce di Narciso, in Opere, cit. pagg. 1000-1001.

373 Romeo Castellucci, Cacofonia per una.., cit. in Epopea della polvere, cit. pag. 208 374 Ibid.

deragliando attraverso i propri strati, in un’endoscopia lì ancora perpetrata con soli mezzi linguistici, autopenetrandosi come deve fare anche un semplice guanto per rovesciarsi. Qui sono sollecitate con lo stesso movimento, le figure di quella tecnologia del linguaggio che è già di per sé la retorica, a svelare il proprio corpo, invero corpo di vuoto, “l’elefantiaco lievito della parola vuota”375. E se anche la figura retorica, che si autopone come vertice dell’astrazione e della stilizzazione linguistica, ha un corpo che sta al teatro di svelare, ciò è perché “il verbo incarnato o il corpo letterale sono la stessa cosa”376. La visione endoscopica della sorgente carnea della parola, che un attimo dopo si sarà già rovesciata-dissimulata in verbo, la riporta al corpo della lettera, e la lettera di una parola può solo essere vista, non può essere detta, perché la sua dizione la dissimula, reimmettendola nelle nebbie del verbo: qui nebbia e fumo sono gli elementi più antitetici alla polvere. Lo sapeva Artaud, la cui xylophénie esige che la parola venga udita all’unisono con lo stridore della retina strappata. Così in Bene è nel visivo che si dà il “silenzio musicale della voce”377, quella sua lettera silenziosa che è la phoné. Né la miopia, nel cui deficit fisiologico la vista si attiva, è abolizione di quest’ultima, bensì il modo in cui essa apporta il suo essenziale e decisivo contributo all’esplicarsi della phoné.

D’altra parte, per giustificare l’esibizione endoscopica dell’incipit, si fa appello alla peculiarità del costume teatrale latino: “Roma si rivolge, in termini di figura, all’osceno, cioè al retro della skené greca”378

. Quanto nel Teatro di Dioniso era velato dalla tenda che nascondeva le quinte, le viscere della scena, in quello di Bacco è sciorinato in proscenio. La decisione sull’ob-sceno determina l’equilibrio tra ciò che accade davanti alla skené, e ciò che accade dietro di essa. Ad Atene si cominciava, a partire da quanto era destinato al retroscena, a calcolare la parola che doveva evocarlo in scena: essa era pertanto una parola epica. A Roma la parola epica cede il passo alla pantomima, che figura anche l’evento più cruento. Ecco che l’obscenità endoscopica si autorizza in primis per l’organicità alla teatralità latina, ma si ri-vela poi sulla scena per il suo essere un

375 Ivi, pag .207. 376 Ibid. 377

Carmelo Bene, La voce di Narciso, cit. in Opere, cit. pag. 1018.

378 Romeo Castellucci, Il sacro di Eleusi e la decorazione di Roma; in Cacofonia per una..; in Epopea della polvere, cit.

raddoppiamento viscerale del sipario stesso: le corde vocali infatti non sono un ultimum, ma un’ulteriore skené, stavolta carnea. Questa è la letteralità, il sipario letterale in quanto carnale, ma relativamente a quello che raddoppia, e di cui così rimotiva la presenza, disseppellendola dall’oblio dell’abitudine della fruizione teatrale. La letteralità è sempre relativa ad una metaforicità pregressa, ma non è mai risolutiva: essa è il resto, il residuo rimosso di un traslato, ma questo resto non permane, non resta. E se per Castellucci “L’indicibile è il guardabile che non importa più dire”379, ogni guardabile ha un resto inguardato, alla cui oscenità solo la parola può accennare, come la Pizia eraclitea380, tra glosso e mimopoiesi.

Per il resto, gli attori gesticolano, ingessati in pose da manuale di retorica, quasi manichini didattici di una scuola per retori. E quanto a Bruto e Cassio, il vuoto generato dalla stessa realizzazione del tirannicidio, li immette in una deriva eccentrica alla loro retorica laconica rispetto alla pingue retorica ciceroniana381, facendoli diventare, nel secondo atto, due donne anoressiche.

Così, per tutto il primo atto, pullulano le contingenze che rilanciano senza sosta le continue interferenze “di un teatro sull’altro”382: scenario storico, teatro della retorica, scena del teatro. Ad aprire le danze di questo gioco – sia nel senso di ludo che di spazio di escursione di un meccanismo – è la stessa Clio, la musa della storia, che fa uccidere Cesare nel portico del teatro di Pompeo. L’icona del potere è un simulacro teatrale fin dalla catena storica degli eventi: Cesare, come Gloucester, in quanto uomo di guerra, è lui per primo vittima dell’ “operazione buia, sotterranea, acefala del potere”383.

Si tratta, nel Giulio Cesare della Socìetas, del rapporto tra retorica e teatro, nel quale la retorica vuole asservire ai propri fini il teatro, per poi, dopo averlo strumentalizzato, metterlo da parte svelandolo come finzione. Il risultato come si è detto, “un indefinito effetto d’eco di un teatro

379

Romeo Castellucci, Il sacro di Eleusi.., cit., in Epopea della polvere, cit., pag. 207.

380 Cfr. Giorgio Colli, La sapienza greca, Adelphi, Milano, 2010.

381 Cicerone è interpretato da un attore iper-obeso, nel cui aspetto fisico si letteralizza la strabordante eloquenza

ciceroniana.

382 Romeo Castellucci, La morte di Cesare, in Epopea della polvere, cit., pag. 210

nell’altro”384

: del teatro della retorica sulla retorica teatrale, e viceversa. Ma si tratta anche del gioco combinato di due muse, Clio e Melpomene: l’una irrorandola coi fiotti di sangue che sprizzano dalle ferite inferte a Cesare, ridà vita alla statua di Pompeo; l’altra marmorizza il cadavere ancora fresco di Cesare. Qui è la drammaturgia tragica a sopraelevare i corpi in figure, pietrificandoli col suo sguardo di Medusa385; assecondando, con maggior zelo della stessa memoria storica, il tendere delle cose al monumento, alla statua. Per cui “Cesare è passato al teatro, potrebbe dirsi, altro che alla storia”386

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