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Socìetas Raffaello Sanzio: la metamorfosi della scena

IV.V. La polvere come resto del simulacro

Nel Masoch, i trionfi del teatro come potenza passiva, colpa e sconfitta, in qualche modo assistiamo a un ulteriore, estremo giro di vite rispetto alla tappa precedente, in cui già l’attore sostava nel suo “extraessere”341

, ma in una postura tonale che, retroattivamente, può apparirci al confronto perfino vitalistica, in quel suo “ondeggiare di una canna al vento”342

, quel suo “far colare il tempo attraverso le membra”343

, proprio di un regime di retorica endocrina e mucosa, ma pur sempre ancora retorica. E se nella pièce precedente la componente tecnica dialoga ancora col corpo molle e basculante di Amleto, in quella successiva la tecnica è assurta allo status di un monologo che non lascia spazio a ad alcuna residua retorica attorale, sottraendosi alla complanarità nella quale essa sarebbe sottoposta a critica dal suo stesso uso scenico, e quindi almeno minimamente dialettico. E nell’oggettualità tecnica collocata parallelamente al sostrato del medium teatrale – il palco – può ancora depositarsi qualcosa come la polvere. Essa nell’Amleto cade ancora verso il basso, al pari delle secrezioni organiche e della parola che la pièce ci ha insegnato ad annoverare fra esse, ed al pari persino del tempo che ricade su se stesso, intercettandosi in un’ora che pertanto resta surplace, stillato dalla carne disarticolata dell’attore, non più fradicia di tempo perché capace di sgrondarsene,

341

Romeo Castellucci, Amleto, Masoch, la Macchina, la Tecnica, cit. in Epopea della polvere, cit. pag. 72.

342 Ibid.

343 Romeo Castellucci in L’attore deve essere cattivo per penetrare la struttura dell’azione scenica (intervista a cura di

Antonino Pirillo, in Culture teatrali n° 20), dove il regista continua puntualizzando che Paolo Tonti teneva la “scena sino a un punto esasperato di rottura”, laddove Santarelli nel Masoch rasenta la propria assimilazione enzimatica da parte della scena.

con un’ulteriore, estrema irrorazione endocrina. Nel Masoch ogni “apertura che si spalanca” – ogni spiracolo che il diktat, il monologo tecnologico della scena decreta debba inopinatamente quanto inesorabilmente aprirsi – “lascia uno strascico di polvere atmosferica”344. Esso si rivela in alto, come un’evaporazione, e non già dopo essersi depositato sulla terra: non è altro che un epifenomeno assoggettato all’epifania della luce, che, come lama ulteriore, quell’adito nella continuità ferrosa si è socchiuso per sprigionare. Sono di questo tenore i dettagli infinitesimali che fanno il grande teatro, e attivano, facendovi appello, la sensibilità dello spettatore, senza la quale essi non esistono affatto, ed evaporano raddoppiando il Monologo.

La polvere in questi spettacoli, a cui il loro insieme si intitola (insieme all’altro termine epopea che evoca una declinazione della parola diversa dal logos, altrimenti si tratterebbe di una logica della polvere) è il segno che echeggia e testimonia nel modo più fantasmatico e impersonale, fra altri che lo fanno in modo più sensuale e circostanziato, il destino della presenza attorale nella messinscena che lo realizza.

Nell’ultimo spettacolo dell’Epopea viene dichiarato l’assioma che si riverbera retrospettivamente sulle quattro tappe precedenti, ma non per surrogare didascalicamente ciò che non urgesse abbastanza già in esse, quanto come foce finale di molteplici rivoli portatori di un comune sentire, di una corale intuizione: che la creazione non è il regno della possibilità assoluta ma la democrazia della possibilità, che rinuncia alla propria assolutezza mutilandola. Perché qualcosa sia creato, ossia accada, occorre che esso cada, si stacchi violentemente con un’effrazione innaturale, o naturale solo in quanto violenta, dalla totalità compossibile e la sua sterile altezza. Dio in quanto possibilità assoluta, quindi perfetta compossibilità, è il nome di un’ impasse, di uno stallo, di un’intrinseca incapacità a creare. Lucifero, nel primo atto di Genesi, deve, perché tutto cominci, perché la creazione veramente cominci, al di là della creazione ancora chiusa in se stessa, e come imbozzolata nel preservativo del Logos, passare attraverso la strettoia che mutila l’integrità, di ciò che intendimo con la parola Dio. Per fare ciò Lucifero deve mutilarsi, compiere e ripetere in sé la mutilazione

stessa di Dio: e per farlo deve mutilarsi dei vestiti, che non sono affatto un orpello ma parte della sua integrità, perché la nudità non è il ripristino di un’integrità edenica ma, al contrario, il resto di una mutilazione.

La creazione è fatta di disintegrazione, di forze radioattive, emorragie di materia: perciò questa pièce prende le mosse dalle origini della fisica novecentesca, dai coniugi Curie e la scoperta del radium. Dalla scoperta dell’essenza radioattiva del mondo, in un controtempo vertiginoso, comincia la sua creazione, ha origine quello che forse non è più un universo. E se l’apertura alla creazione è all’insegna della disintegrazione, l’acme della chiusura creativa sarà ancora una volta, nel segno estremo di Auschwitz, un delirio d’integrità questa volta razziale, dopo la quale, nell’ultimo atto, persino la disintegrazione omicida di Caino avrà il sapore del dischiudersi di un orizzonte, e di un nuovo lancio di dadi. È appena il caso di ricordare come e quanto questa impostazione sia in sintonia con l’appello di Artaud al secondo tempo della Creazione, “celui de la matière et de l’épaississement de l’idée”345

. Ogni vera creazione rinnova “il drame essentiel”346, mentre ogni falsa creazione si richiama a un qualche stato di integrità “où règnent la simplicité et l’ordre”347, e in cui con un solo colpo di spugna sono cancellati dal dramma poesia e anarchia come processi in fieri. Questi simulacri di creazione sono tali proprio in quanto si richiamano alla Creazione originaria, cioè alla possibilità assoluta, e pertanto sortiscono la stasi più nefasta nella creazione seconda, nel cui spazio solo può darsi una creazione non idealistica e perciò non simulacrale proprio perché è l’unico nel quale si costruiscono simulacri.

Cos’è la polvere se non il resto per eccellenza? Se non la cenere del crogiolo simulacrale? Bordo del creato, neve dei margini, la polvere tratteggia, come le intermittenze di un’imbastitura, la via senza strada e senza direzione, la liminalità lungo la quale si orienta ogni “disconoscimento passivo del potere”348. La polvere, orlando di un resto il simulacro, cioè l’ente, ne raddoppia il linguaggio,

raddoppia l’ente-nome senza riprodurlo, solo impolverandone i convenzionali lineamenti. E così

345 Antonin Artaud, Le théâtre alchimique, cit. in Œuvres, cit. pag. 534. 346

Antonin Artaud, Sur le théâtre balinais, in Œuvres, cit. pag. 534.

347 Ibid.

facendo lo doppia, licenziandone l’Eco ed emancipandolo dal riecheggiato: “ninfa Eco sovrapposta a Orfeo. Antimondo della voce”349

. Quest’eco raddoppia il simulacro come un No di esso, in cui arde solo “ciò che è già in stato di cenere”. Così si tiene acceso il “falò mentale”350

, bordo di fuoco che detronizza i simulacri, incoronandoli. Brucia così la pelle della scultura di Giacometti: “Contro la figura nella figura”351.