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Questa dialettica tra l’affioramento intellettuale del corpo divenuto carne con l’emissione verbale, e la sua pronta ritirata entro il suo abisso stratificato punteggiato di sillabe selvagge, emerge anche dall’accostamento di due passi relativi a testi del periodo della militanza surrealista di Artaud, altrimenti in contraddizione tra loro, qualora non li si inscriva, come momenti diversi, in un processo bifasico. In Position de la chair e nel Manifeste en langage clair, entrambi del 1925, ci si imbatte in due espressioni analoghe: nel primo si parla della “place de la plus haute pensée”78

; nel secondo della “forme de l’intellectualité la plus haute”79. Ma se, in quest’ultimo caso, si segue la

risalita dell’immagine lungo il reticolo nervoso, dal “domaine de l’impondérable”80

fino all’altezza intellettuale, in un processo di assottigliamento sino alla parola emessa, che è il punto in cui si riduce al minimo quell’imponderabilità di partenza, in Position de la chair si parla di una sostituzione, un rimpiazzamento o un passaggio di consegne: le “forces informulées” e “du dehors” che “ont la forme d’un cri”81

e assediano l’individuo, devono potersi installare, col lasciapassare della “raison”82

, al posto del pensiero più elevato. In un caso si auspica la salvaguardia dell’intellettualità, nell’altra la sua estromissione. Ma si tratta di due situazioni colte in due momenti

78 Antonin Artaud, Position de la chair, 1925, in Antonin Artaud, Œuvres, cit. pag. 146. 79 Antonin Artaud, Manifeste en langage clair, 1925, in Antonin Artaud, Œuvres, cit. pag. 148. 80

Ibid.

81 Antonin Artaud, Position de la chair, cit. in Œuvres, cit. pag. 146. 82 Ivi, pag. 147.

solo apparentemente contrari, di uno stesso processo dialettico, e, il che è lo stesso, di una sola danza. In uno si tratta di garantire al corpo la condizione necessaria perché esso raggiunga l’acme del proprio assottigliamento con l’emissione linguistica. Grazie alla secrezione dei suoi corpi sottili, il corpo esce fuori di sé: in questo caso il “caractère d’intellectualité”83

dev’essere rispettato. Nell’altro caso, quest’ultimo è già in una fase di cristallizzazione: l’intelletualità, frattanto, è transitata alle forze di fuori, a cui ora passa l’iniziativa. Se la ragione non le accogliesse, l’intellettualità si scollerebbe dal corpo, dando una chance al dualismo gnoseologico e psicologico. In questo modo sono proprio queste forze assedianti a trattenere i corpi sottili delle operazioni più astratte nei paraggi del corpo, o a ricondurli nel suo abisso stratificato, impedendo che le eminenze intellettuali cadano preda delle cattive forze, parassitarie ed esproprianti, di “dio”. Impedendo in ultima istanza che esse cadano: cadano “loin du corps pour déchoir en signe ou en œuvre, en object”84

, come precisa Derrida ne La parole soufflée. Caduta che, beninteso, è soprattutto in su; caduta che è sempre verso dio.

In questi passi del biennio surrealista giacciono, già sottese, tutte le componenti nelle quali si articolerà il complesso diagramma della parola artaudiana negli anni Quaranta. Prendere coscienza di queste ampie continuità concettuali e poietiche non significa qui lasciarsi incantare da un continuismo che rischi di suggerire l’immobilità di un pensiero deciso da una persuasione originaria, che contenga in sé sviluppi solo deduttivi. Viceversa compulsare la costanza di un’alveo è qui condizione necessaria ad apprezzare l’esercitarsi in esso di un lavorio eccezionalmente irrequieto, discontinuo, insoddisfatto, perplesso, dove la lucidità dell’orientamento di fondo è tutt’uno col procedere en aveugle, e la fedeltà si manifesta nella coerenza dei tradimenti.

Non è rapsodico il movimento sinuoso e retroattivo che, dalle pagine de Le théâtre et son double ci ha ricondotti, in una sorta di flashback critico, a questi concentrati passi di due testi del periodo dell’adesione, tutto sommato fugace, di Artaud, al movimento surrealista85

. Ciò è stato perché ci

83 Antonin Artaud, Manifeste en langage clair, cit. in Œuvres, cit. pag. 148. 84

Jacques Derrida, La parole soufflée, in L’écriture et la différence, cit. pag. 261.

85 Artaud ebbe una collaborazione stretta e intensa col gruppo surrealista sin dalla pubblicazione del Manifeste du

pare che gli scritti che prendono le mosse dallo shock balinese segnino un momento di espirazione spaziale della riflessione sulla scena, per cui essi si aprono a squarci descrittivi – dovremmo dire visionari, ma la visionarietà è la grafia descrittiva di Artaud, ed è analitica – di più ampio respiro su una teatralità ricca iconicamente e corale.

Questa più disinvolta e fiduciosa ouverture allo spazio e alle intersezioni estensive della scena fanno sembrare tortuosi ed involuti, se non addirittura vaghi ed avari, gli scritti del decennio precedente. Mentre però, nell’ultima fase del rapporto di Artaud con il teatro, parte dal materiale teorico del Théâtre et son double verrà rigettato, pressoché tutte le riflessioni embrionali contenute negli scritti degli anni Venti si riveleranno allora ancora attuali, e vi troveranno la loro fioritura. Ciò perché essi erano già incentrati, sotto la patina fuorviante di una generica messa in stato di imputazione della parola, sulla parola non come dato di fatto, ma come necessaria possibilità. Il teatro vi era già in nuce come un viaggio verso la parola, e la parola dunque o bandita od ospitata, a seconda che essa fosse già formata, e dunque passata, oppure ancora in in statu nascendi. In questo secondo caso è la parola il soggetto del viaggio, in quanto parola che viaggia intransitivamente verso se stessa. Si tratta di mettere in fosforescenza, di focalizzare l’importanza, che è la vera e propria portanza della struttura temporale. È questa che viene in qualche modo sospinta sulla sponda, e riposta di sguincio in posizione defilata, dalle descrizioni ed autotestimonianze del “periodo balinese”. Se si fa propria quest’ottica, ecco che espressioni come “le domaine de l’impondérable affectif”86

, o le “forces informulées qui m’assiègent”87, non sono semplicemente l’altro della parola: sono al contempo i due aspetti della sua necessità, rispettivamente il prima e il dopo della struttura temporale di una tale urgenza: la premonizione della parola e un tipo di oblio che ad essa non è meno indispensabile perché viva. L’”imponderabile dell’affettività” è il

Artaud dal movimento. Le cause dello scontro furono molte e complesse, ma gravitarono, in particolare, intorno alle divergenze sempre più profonde riguardo al concetto di rivoluzione. Nel momento in cui il gruppo surrealista sceglie di riconoscere nella dialettica marxista la parola adeguata a dire la trasformazione delle cose e nel suo programma l’imminenza di un’azione efficace, avverrà il rabbioso distacco di Artaud dal gruppo. Possiamo trovare traccia del dissenso di Artaud, carico di una delusine rabbiosa, in: À la grande nuit ou le bluff surréaliste del 1926 (scritto in risposta a: Au grand jour nel quale, il gruppo dirigente surrealista – Aragon, Breton, Éluard, Péret, Unik - rendeva pubblica l’esclusione dal gruppo di Artaud e Soupault e l’adesione al partito comunista), e in Point final del 1927; in Œuvres, pagg. 241-242.

86 Antonin Artaud, Manifeste en langage clair, cit.; in Œuvres, cit. pag. 148. 87 Antonin Artaud, Position de la chair, cit.; in Œuvres, cit. pag. 146.

preverbale, perché necessita di essere ponderato attraverso l’eminenza della parola; e le “forze in formulate” sono ciò che l’emergenza della parola ha lasciato come resto informulato, e da cui essa deve lasciarsi cancellare. Solo allorché questa capriata temporale prende il sopravvento su ogni mitologia spaziale di simultaneità, la parola artaudiana cessa di essere punto, per diventare ciclo. Occorre, in altri termini, che il “Manifestato”, il campo cui si applicano le operazioni magiche, la materia su cui lavora il metteur en scène balinese, diventi “façade”, “mascarade” che nasconde la vera temporalità del corpo umano, che è quella di un “champ de guerre”88, perché anche la parola possa transitare dallo statuto dei “comportements visibles”, al “formicolio della vita vissuta”, come scrive Artioli, che parla di un vero e proprio “strangolamento” del mondo compiuto da Artaud per tramite del suo alter-ego Paolo Uccello, all’epoca della stesura dei drammi dedicati al pittore. Così, per essere visibile, la parola dev’essere puntuale, si deve cioè radunare e concentrare intorno a un punto dello spazio; ma per essere udibile deve allentarsi ed estendersi; spazializzarsi, si, ma lungo la temporalità di un ciclo.

Quello strangolamento del mondo – mondo inteso soprattutto come connivenza di spazialità e visibilità – ambìto fin dal 1924, scentrato ed eufemizzato nel quinquennio balinese, è ripreso con inaudito accanimento dall’epoca dell’internamento a Rodez fino alla morte, quando sarà la vera e propria condizione trascendentale dell’estremo trattamento artaudiano della parola. Lo stesso antico, tenace dualismo mot/parole, subisce un’ultima reincarnazione, che così può riassumersi: il mot è puntiformità spaziale e visibile, la parole è temporalità ciclica e udibile. Entriamo così in una fase radicale, nel senso di conferire crudeltà alle più inveterate intuizioni, nella quale si tende all’estremizzazione degli stessi rapporti tra le due sensorialità, per cui l’udito tende a darsi come invisibile, la vista come inudibile. Quasi si applicasse loro una sorta di principio di indeterminazione per il quale ad essere visibile sarebbe solo ciò che è fermo, mentre ciò che è in moto sarebbe solamente udibile.