Carmelo Bene: l’attore dei tre subjectiles
II.VI. La phoné come silenzio della voce
Perché la bocca attorale sostenga l’ob-scenità di un’estremità della scena che si disloca nel suo cuore, dove i picchi di intensità si mimetizzano alla base comune, facendo circolare nel suo medium i margini svasati all’infuori o gli orli ritorti all’interno, i lembi, insomma, che l’ “eccesso del desiderio” tiene vacanti e vaganti, in modo che il milieu si margini e rimargini insonne, l’estremo si accentri e si addentri - perché ciò sia possibile occorre che dal pozzo di buio deformato, tra e dalle labbra, fluisca incessantemente una forza di cancellazione in grado di investire e rifornire la scena di cecità molteplici. Vi è infatti una sciabordante, incalzante, sciamante opera di offuscamento del visivo da parte della voce, a cominciare dalla stessa “orale umoristica”172
di una phoné che si dissocia da se stessa fin dalla sua sorgente viscerale, più che interiore, non essendo essa che l’eco di voci di primo grado, come già si è visto, ingoiate, risucchiate nelle catacombe del corpo.
La phoné173 consta di una piccola parte di voce che fuoriesce dal corpo-malessere varcando la soglia delle labbra serrate, socchiuse o spalancate, coincidenti col ciglio del milieu scenico, e dalla maggior parte della voce deglutita nella visceralità in cui lo spazio scenico, che la comprende come una parte, si inflette e invagina. Ma da questa visceralità lo spazio scenico è nondimeno eiettato e spanso come “dispiegamento della cavità orale”174
, in una pulsazione come di sistoli e diastoli cardiache, dove l’effondersi a partire dalla gola ed entro essa defluirne, lo scaturirne rigoglioso e il
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Carmelo Bene, Sono apparso alla Madonna, cit. in Opere, cit. pag. 1203.
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“Con il termine phoné, evidentemente, Bene non intende alludere genericamente alla dimensione della voce ma, proprio in corrispondenza della ricerca e scelta dell’etimo del greco, alla voce intesa in quella che potremmo definire la sua fondazione originaria. (…). La phoné riguarda la voce come strumento assoluto, prima applichi alla parola. Non riguarda tanto il dire, quanto un “suonare il corpo” ”.Lorenzo Mango, La scrittura scenica, Bulzoni, Roma, 2003, pag. 379.
rintanarvisi della scena, non sono che gli effetti del “piegarsi e lo spiegarsi barocco dello spazio”175 . L’andirivieni delle attrici del Riccardo III beniano tra i poli della quinta e del proscenio non sono che la traduzione in visibilità e cinetica antropomorfe di questo sussultare ob-sceno della scena lungo gli assi del continuo ribaltarsi e avvicendarsi delle inclinazioni orientate al dentro e al fuori. Ancora una volta vedremo la Socìetas Raffaello Sanzio portare alle estreme conseguenze della lettera, nello spettacolo Genesi, questa inquietudine del palco, che in Bene è impercettiva e ob- scena, e lì sarà effettiva.
Quella che fa vibrare il timpano è solo una piccola parte di voce emersa, di contro alla massa della voce sommersa, che attraversa il condotto orale in senso inverso a quello dell’emissione nello spazio scenico, che è sia la proiezione esterna della cavità orale e quasi il suo specchio, sia la sua cassa di risonanza amplificante. Tutto ciò che avviene nel palco è in funzione di questa risonanza, nè ha esistenza autonoma rispetto ad essa. Contemporaneamente è sempre udibile – seppure non attraverso la vibrazione timpanica – il muto sottofondo della voce inghiottita, calco negativo di quella affiorata in uscire nello spazio acustico.
La phoné si esplica nei tre registri fondamentali del “grido, del silenzio” e del “murmure”176. All’affiorare oltre la soglia acustica della phoné affettata da uno dei tre registri - per esempio il murmure -, si devono sentire gli altri due, grido e silenzio, affettare la massa di voce inghiottita. Alle risonanze estroverse, emesse, si accompagnano risonanze introverse, trattenute. Il movimento degli occhi deve dissociarsi dai flussi della phoné, tenere una linea di variazione177 autonoma rispetto a quelli, onde evitare tassativamente di raddoppiare l’udibile con le complementarietà del volto. E infatti nei rapporti tra voce e visibilità (di cui la viseità, cioè la lettura del volto, è un caso particolare), sono soprattutto da bandire le relazioni di complementarietà. Questo basso continuo di astensioni, nella sfera sonora e in quella mimica, svela paradossalmente, perché crivellandola di dilazioni, la coralità intrinseca alla voce umana. Conditio sine qua non perché questo accada è che le linee di variazione della sonorità e quelle della visibilità non si sovrappongano, non si
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Ibid.
176 Carmelo Bene, La voce di Narciso, cit. in Opere cit. pag 1000.
assommino, non solidarizzino dando luogo a grumi psicologici. I quali ostacolerebbero la circolazione atomistica necessaria al farsi, disfandosi, di sciami di coralità asociale, il cui pulviscolo si offre ad essere crivellato dai dardi istantanei di luce acustica delle parole in continua fuga dalla frase.
Voce che ridimensiona il corpo, come sacco di pelle troppo pieno, nel momento in cui se ne congeda, saccheggiandolo come corpo della voce. In ultima analisi, l’artaudiano corpo senza organi coglie la pelle nell’istante in cui essa si disimpegna dalla funzione di sacco, con la postura psichica e fisiologica che essa contagia al corrispondente organismo umano. Organi sono proprio i contenuti che condizionano le posture di contenzione: poggiate un organo su un tappeto di epidermide, e subito la pelle si drizzerà a farglisi sacco intorno, a fargli da involucro. Ma è innanzitutto la frase a ripiegare i propri lembi intorno alle parole facendone fagotto: e vi sono parole che provocano la sintassi a rinchiudersi su di loro, perché recano già esse stesse in grembo una frase.