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Carmelo Bene: l’attore dei tre subjectiles

II.IX. La re-citazione del testo lirico

Sorprendiamo Bene servirsi, per descrivere la sua recitazione, dell’espressione “scrittura vocale”190. Non è certo decisivo il semplice fatto che essa sia un’autodefinizione artaudiana. Ma nemmeno è decisivo il fatto che con essa Artaud descriva la sua scrittura in senso proprio. In Bene a non essere vocale è proprio la scrittura del copione di Macbeth: essa è piuttosto letteraria, anche se non fatta per la letteratura. Ma è scrittura vocale la reazione alchemica innescata dalla pericolosa promiscuità tra i subjectiles. E ad essere effettivamente scritto, non solo detto, è un testo che non è quello pre- scritto prima della sua emissione scenica, ma un altro testo che è irriconoscibile quanto al suo assetto originario, e nondimeno costituito delle stesse parole. Il testo di partenza viene citato, nel senso benjamin-debordiano del termine, decontestualizzandolo per liberarne altre potenzialità. Un’analoga decontestualizzazione Bene la compie mettendolo a contatto col subjectile corpo- vocale, anziché in un ambito saggistico. È una scrittura vocale dislocata rispetto a quella di Artaud, ma non al punto di invalidare la necessità di pensarle insieme, in quanto accomunate dalla medesima urgenza di accedere a zone di indeterminazione tra oralità e scrittura. Artaud scrive la sua oralità e grida la scrittura, delle cui parole è l’autore. Bene porta allo statuto di scrittura vocale parole di cui non è l’autore, re-citandole attraverso il risveglio reciproco: quello che esse producono sulla sua chora vocale, e quello che questa suscita in esse irriconoscendole.

Ancora la questione della riconoscibilità. Certamente; citare per dislocare la citazione facendola

sentire quasi inedita, implica che la citazione stessa sia familiare, sufficientemente usurata perché il farla risuonare in una luce diversa produca per l’appunto, con ciò solo, scrittura. E scrittura che si autocancella, baluginando appena un attimo, perché la straniazione non dura più di un attimo. Diffidare di tutti gli straniamenti durevoli: si cristallizzerebbero, un attimo di troppo, in ipnotiche abitudini. L’arte è una forma di inconscio, lo straniamento un soprassalto dell’oblio: eterno equivoco dello storicismo. Lo straniamento inflitto dalla re-citazione di Bene a Manzoni, a Leopardi, a Dante, a Campana – questo il genere di subjectiles lirici che volentieri indossa la sua chora attorale -, non mirano a suggerirne una nuova interpretazione. Non è orientato a un fine ermeneutico il suo saggismo vocale. Egli intende colpire quell’aria di famiglia a cui il pubblico, anche intellettuale, si scalda, rincasando in qualche simulacro d’infanzia o patria, sentendo riecheggiare le sillabe di un logoro endecasillabo leopardiano. L’inconscia familiarità con esso, non può essere guastata che da un ancor più inconscio straniamento. La coscienza non è mai stata una gran guastafeste, e se si vuole veramente colpire bisogna mirare in basso, cioè al centro dell’abitudine.

Adesso, per Bene, non si tratta più di difendersi dalle trappole di riconoscibilità tese all’attore dagli Amleti e gli Jago, che gli emana contro, tentandolo, la parete drammaturgica di fondo, abrasa dai décollages delle sue scritture sceniche. Adesso la riconoscibilità da esorcizzare è più addosso: è quella blandente e innocua di un endecasillabo, da tempo miscidatosi all’anima.

Gli antidoti opposti da Bene per esorcizzare i rendez-vous della riconoscibilità tonale e metrica, ora allo stato puro (quel sottile strato lirico posato sulla sua voce, non essendo costituito altro che da inveterati toni e metri denudati al grado zero, o poco più) sono molteplici e – umoralmente, estrosamente – disugualmente dosati. Bene stesso si fa prendere da raptus elencandi, le cui liste prospettiche si placano presso l’infinito: il nostro gioco critico consiste, per orientarci in un tale labirinto, nel farci guidare da Artaud.

Tutte le tattiche sono inscritte nell’ambito di una strategia che consiste nella messa a fuoco di una scrittura vocale come re-citazione.

Si compie una veemente esteriorizzazione del ritornello artaudiano. Dopo la liricizzazione del Macbeth, portato allo statuto di partitura, Bene intensifica la frequentazione di testi originariamente lirici, dove il ritornello è applicato dalla scrittura vocale non col ricorrere ciclico di stessi materiali significanti, ma con la ripresa a distanza di analoghi moduli ritmo-tonali. Non si tratta di refrains lessicalizzati, perché appunto non ricorrono segmenti frastici, ma patterns ritmo-metrici e d’intonazione che curvano la temporalità del ductus: raggiungono l’orecchio prescindendo dalla presa del senso o dalla ricevibilità del concetto. Dunque il ritornello può situarsi a qualunque grado dell’escursione dinamica, dal “grido” al “murmure”, essendo unicamente la tessitura delle riprese a identificarlo come tale. Può inoltre instillare – come del resto tutte le seguenti tattiche volte a esorcizzare il fantasma della riconoscibilità – malizie d’ironia, quando affetta, trattandole ricorsivamente, le zone più prosastiche della partitura. Il fine di “dissennare la frastica del logos” è perseguito anche dal “guizzare vocalico esasperatamente trat-teggiato”191

, dove le vocali stanno quasi in luogo di squarci, di ferite susseguenti ai tagli delle lame consonantiche. La prassi del trat- teggiamento corrisponde in Artaud all’esigenza di “scandir un texte non seulement phrase pour phrase (…) mais syllabe pour sillabe et lettre par lettre”192: in queste pratiche l’istanza pre-

espressiva che contrasta e corregge gli automatismi dell’intonazione nell’attore (e nell’uomo), e quella di scrostare dalla superficie lirica gli automatismi della sua ricezione media, sedimentativisi come una seconda pelle, si intrecciano inestricabilmente.

Anche l’andamento salmodico, cantilenato, cullante, così tipico delle zone ovattate e suadenti della macchina vocale di Bene, hanno un’ascendenza nella pre-espressività di Rodez, in quella “utilisation particulière de la psalmodie et de l’incantation”193

, di cui Artaud parla nella famosa lettera a Ferdière, in cui difende gli esercizi da lui eseguiti nella casa d’internamento dall’accusa di essere sintomi di alienazione mentale. Bene licenzia l’incantamento con un lieve tocco caricaturale, additandolo come simulacro della liricità tra poiesi e ricezione, e poiché la chora è la materia che residua alla creazione del simulacro, è in quel tocco che traluce, dopo l’ostensione simulacrale, la

191

Ibid..

192 Antonin Artaud, Cahier 208, 29 dicembre 1946, in Œuvres, cit. pag. 1180.

chora attorale. L’accento fondamentale della re-citazione è nel resto e nell’entre-deux simulacrum- chora, e nel caso di tali fasi d’ incantation – che sbalzano il simulacro come intrinsecamente ipnotico -, anche nel brusco e repentino passaggio, per giustapposizione abrupta, alle fasi più stentoree e tumultuanti, di cui le prime pre-accentuano lo choc di risveglio dalla ninna-nanna. Ma, preso per sé solo, il trattamento del simulacro lirico, non è distante da quello adottato da Beckett in una pièce come Giorni felici.

Il contrasto salmodia-choc ci conduce alla percussione. Di essa è solo l’aspetto sensorialmente più aggressivo il “bombardement”194

di cui Derrida sostiene essere affettati persino i disegni di Artaud. La percussività è nondimeno la chiave delle fitte tessiture di spinte vocali nervose, troncate a metà e riprese senza soluzione di continuità, che mobilitano una dialettica rigurgito-ingoiamento.