• Non ci sono risultati.

Carmelo Bene: l’attore dei tre subjectiles

II.IV. L’ob-sceno: né in-scena né fuori-scena

Per cominciare il nostro movimento di avvicinamento a una nozione così sfuggente - almeno quanto centrale - per la lettura delle scritture sceniche beniane, accingiamoci ad accumulare una folta serie di indizi che la connotano non senza stridere in qualche misura tra loro: di certo al fine di non lasciarsi doppiare dal concetto. Nondimeno, proprio per apprezzare il carattere di macchia e la plasticità dell’ob-sceno, non è il caso di rinunciare alla tensione asintotica dell’imprecisa ma orientativa sovrimpressione concettuale: Bene stesso ha bisogno di oscillare fittamente tra la scia e il concetto, tra il sensitivo e l’intellettuale, in un movimento tipico della sua pensosità.

Cominciamo col rilevare che, nel caso della scrittura che ha per occasione Riccardo III, la sopravvivenza dei personaggi femminili a scapito di quelli maschili è leggibile anche come un risarcimento, che compensa il testo elisabettiano dalla banalizzazione dovuta all’essere deprivato della prassi attorale del travestitismo, per quanto attiene la resa delle “parti” femminili. È questo un intervento strategico che nasconde, dietro un apparente intento distruttivo, la restaurazione al contempo nostalgica e utopica di uno stato di grazia. Ma poiché quello stesso decadimento estetico che ha comportato la sessuazione attorale, con la caduta nelle secche dello psicologismo più greve che essa di per sè comporta, fa sì che oggi quelle situazioni femminili debbano essere attribuite ad attrici, si pone con ciò il problema di salvare queste ultime da quella mancanza di oscenità che le affligerebbe fatalmente. Dopo aver salvato le situazioni femminili dalla mutilazione di quelle maschili subita dal testo canonico, occorre ora salvarle a loro volta dalla deficienza di femminilità delle attrici che devono attuarle. Così Bene dota le attrici di un apporto di ob-scenità attinta a una doppia fonte. Da un lato al loro stesso comportamento, improntato costantemente ad una zona-

limite caratterizzata dalla continua commutabilità tra il loro vestirsi e svestirsi e vestire-svestire Gloucester della loro presenza; dall’altro alla loro funzione altrettanto liminare di spettralità angelica, in quanto capri emissari del testo letterario, al contempo esiliati e in ambasceria presso la scrittura di scena. L’ambiguità sessuale elisabettiana è così surrogata attraverso altre situazioni di liminarità, reversibilità, commutabilità, quali sono le situazioni di sospensione tra la vita e la morte propria del fantasma, e tra il coprire e lo scoprire propria del velo. Naturalmente dietro queste due affluenze di oscenità vi è il serbatoio Gloucester, icona di un’umanità ai bordi, ma bordi dello stesso umano, emblema dello scivolamento per tangenti alle periferie dell’uomo dove le umanità si attenuano: mimetizzazione non solo all’ambiente, ma del corpo a se stesso, per essere riconosciuto dal non avere forma per eccesso di identità a sé. Questo potrebbe stridere col constatarlo immancabile al centro della scena. Ma l’ob-sceno, si è detto, è innanzitutto caratterizzato da Bene come eccesso del desiderio152, formula che a sua volta si espande profittando all’unisono sia della lettura oggettiva che di quella soggettiva del genitivo, le quali si deformano l’un l’altra incessantemente, per cui il desiderio è al contempo eccedente ed ecceduto. Possiamo da qui transitare a un’altra configurazione sintattica per cui la riflessività, segnando il desiderio in quanto atto del suo proprio eccedersi, ne fa il simultaneo soggetto-oggetto di una sola azione continua. Infine l’ulteriore passaggio è quello dalla riflessività all’intransitività, torsione per la quale l’eccesso non ammette nemmeno un oggetto come terminus ad quem verso cui far transitare l’atto del desiderio. È proprio nell’orizzonte di questa intransitività che ci si staglia davanti il monstrum di una differenza che attraversa l’oggetto, nella separazione dal quale si costituisce come differenza, ma non si volge indietro a segmentarsi nell’incongruenza col termine di confronto extratemporale ed extraspaziale.

Quest’eccesso intransitivo è dunque differenza senza confronto, e il Femminile beniano è appunto una forza di differenza caratterizzata dall’essere differente da ogni differenza che si costituisce attraverso il ri-conoscimento, rispetto a un termine di confronto, frutto di una divaricazione a partire

da un minimo comun denominatore. Di quest’ultima differenza “gregaria” le distinzioni maschio- femmina o uomo-donna sono paradigmatiche: il Femminile eccede appunto reversibilità e reciprocazione di quelle distinzioni a coppia, “biunivoche”, che implicano una logica dello specchio.

Ribadiamo allora l’obiezione già prima affacciatasi: come può l’eccentricità di questa differenza, rispetto ad ogni differenza biunivoca, e l’oltranza intransitiva del suo eccesso, situarsi nel pieno centro della scena?

L’essere in scena senza soluzione di continuità di Gloucester, e l’esserlo sempre nel mezzo di un ridondare di partners seminude, e dunque semivestite, pare consustanziale alla scrittura scenica beniana. Ciò è perché, in effetti, i termini delle differenzialità biunivoche si consolidano agli estremi di una bilateralità, che si costituisce per divaricazione a partire da un denominatore comune che, dislocato al centro, alimenta i differenziati.

L’accrescersi dell’intensità di una forza la spinge a nascondersi nel mezzo del campo in cui si esercita; via via che la sua intensità scema essa diviene man mano sempre più visibile, mentre si divarica avvicinandosi sempre di più agli estremi del campo, fino a coincidere con essi e rafforzarne la stagliatura. Ma gli estremi non veicolano che la polarità della coppia di contrari, per esempio maschile-femminile, ed è l’abbassamento della temperatura del sistema a rendere vistosi i margini, e i poli della dicotomia che in essi fulgono. È infatti la forte definizione dei margini a chiudere la fisionomia del campo, e a distogliere l’attenzione dal centro del sistema dove latita umbratile il denominatore comune degli estremi, vero motore che genera e alimenta il loro conflitto. L’intensità accresciuta sabota questo denominatore e così fa collassare i poli estremi che esso nutre: all’eclissarsi della tensione a distanza e dei termini del conflitto maschile-femminile, il surplus di intensità non consiste che nell’emersione di una forza eccentrica alla coppia di opposti, il Femminile, che si insedia al centro, da cui ha estromesso il denominatore comune alla dicotomia conflittuale.

il teatro “medio”, al contempo, si ritualizza e si funzionalizza, è resa possibile dalla consapevolezza che l’intensità eccede la conflittualità rituale, che l’eccentricità eccede la visibilità degli estremi, e pertanto si colloca nel mezzo. L’apparenza grossolanamente contraddittoria di un’eccentricità che si colloca nel centro, viene meno se si considera che essa ha già scentrato con la propria intensità additiva, il campo di applicazione, che cessa perciò di essere propriamente un sistema, e rispetto al quale essa si situa nel mezzo, in un milieu che è tuttavia quanto di più eterogeneo a qualsivoglia centralità. Non vi è centro dove non vi sono periferie, bordi enfatizzati, margini fluorescenti.

Bene quindi elegge il Femminile a designare estensivamente tutti i fenomeni di intensità eccentrici ad ogni diade conflittuale, non solo quella maschile-femminile. In senso proprio il Femminile che eccede il conflitto binario di maschio e femmina è l’androgino, ciò che nel teatro elisabettiano veniva indicizzato scenicamente dal travestitismo della “donna-ragazzo”.

Corrottasi, con la rimozione dell’interdizione della scena alle donne, una raffinata sensibilità perversa, da altre direzioni deve attingere la necessaria quota di ob-scenità la scena odierna. Sono ob-scene le zone di indeterminazione, irrappresentabili in quanto tali, ma che proprio perciò la scena non deve rassegnarsi a tenere semplicisticamente fuori di sé, in una interpretazione rigida che individua il referente di ob-sceno in ciò che di per sé, e per chissà quale definitivo tabù, è destinato ad essere tenuto fuori tout-court dalla scena. Nel qual caso il teatro si ritrarrebbe proprio dinanzi al compito suggerito dal suo potenziale punto di forza, davanti ai più acuti sfida, rischio e pericolo, al lancio di dadi omettendo il quale esso viene risucchiato nella routine più alienante, equiparabile a quella di un lavoro impiegatizio. L’attore-travet che amministra questo fatale burocratizzarsi dell’arte teatrale è tale perché incapace “di mettere in gioco ogni sera il “modo stesso di fare teatro”153

. Mettere in gioco il teatro significa in ultima analisi fargli fare i conti con l’ob-sceno, con tutto ciò che può essere presente in scena solo se non viene rappresentato. Oscene zone di indeterminazione sono quelle che si insinuano nel mezzo, tra i sempre due dipoli che si coagulano, inscenando congenitamente la reciproca autonomia uno dall’altro, mentre nessuno sopravivrebbe

alla insussistenza dell’altro. Questa originaria messinscena che è alla fonte del concetto, è quindi – come ne erano ben avvertiti Parmenide e Eraclito – alla base del senso comune, quella doxa che non è altro che la rappresentazione ancor prima che l’opinione.

Il teatro come potenza d’arte deve rimuovere questo strato, questa patina di teatralità intrinseca che è stesa su quelle che, grazie ad essa, divengono le cose, teatralità di primo grado che fa ostruzione, con la sua sola presenza, all’avvento di una teatralità di secondo grado. Quest’ultima è in qualche modo anche il calco negativo della prima, ma in un modo diverso da come gli stessi dipoli non sono l’uno che il negativo dell’altro. In quest’ultimo caso infatti un termine si riempie del negativo dell’altro: per esempio il polo maschile si satura di mascolinità, di virilità letta solo come presa di distanza dal polo femminile, e che questa distanza trasforma in volume e peso. La virilità tanto più pesa, quanto più si immunizza e congeda dal femminile, tanto da produrre al proprio interno ed autoimmunizzarsi da una nozione di effeminatezza, che può attribuirsi soltanto al soggetto maschile. Il calco negativo che il teatro secondo opera sulla teatralità endogena alla fenomenicità non è autoriempente, non è effettuato per avocare a sé più volume e peso, per enfatizzare i propri confini-connotati, rendendo di contro più evanescente e sommario il contenuto dell’elemento sottoposto al calco. Un calco può essere messo in opera per valorizzare o il positivo o il negativo, o il concavo o il convesso, o il pieno o il vuoto, a seconda che si collochi l’accento sul fuori o sul dentro (dove il fuori sarebbe qui l’oggetto sottoposto a calco, interno l’elemento che supporta e trattiene in sé l’effetto dell’impronta).

Ora, la teatralità di secondo grado ricalca quella di primo, lasciando a quest’ultima tutti gli attributi della pienezza e tutte le prerogative della presenza, riservandosi, quanto a sé, la materia del vuoto e la struttura dell’assenza: quello stesso vuoto vertiginoso e abissale, quel vento immobile che sprofonda nell’impercettibile intervallo fra gli opposti classici, cui consente, divaricandoli, di fronteggiarsi l’un l’altro, e così dare vita alle drammatizzazioni endogene al teatro “fenomenologico”.

dalla sua mutilazione, varcano la soglia della scrittura di scena, fungendo da cordone ombelicale fluorescente e fantasmatico fra questa e l’agonia smembrata di quello. Gli strilli di neonati che recingono acusticamente il limitare della scena le invitano a rincasare nel loro domicilio cartaceo dell’in-folio elisabettiano. D’altra parte Gloucester deve impedire loro l’adempiersi di questo nostos letterario, trattenendole in scena, fungendo da prosopopea della scrittura scenica – “amputata dell’antefatto”154

innanzitutto essa stessa - che smembrando e minorando Riccardo III lo rende invisibile. Invisibilità che, commista ad alcunché di familiare, crea l’oggetto ideale – macchiato da uno sfolgorio – per l’effetto ipnotico: quel complesso unheimlich straniante, che cattura le orbite delle attrici, in visita e distratte da quel che meno vedono.